Notiziario internazionale
Gli USA - Che glorioso declino

a cura di Massimiliano Caruso

Secondo una vecchia barzelletta della Guerra Fredda, un ufficiale sovietico è di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, ed i suoi colleghi gli chiedono cosa abbia visto. “Ho visto il capitalismo in declino”, risponde l’ufficiale, fedele alla dottrina marxista-leninista. “E a cosa assomiglia?”, gli chiedono. “Che glorioso declino!”, risponde.

Un israeliano che visiti gli Stati Uniti vede soltanto spazi enormi ed un’abbondanza senza fine, ma i giornali americani sostengono che sia soltanto un’apparenza che nasconde gli spasmi dell’agonia del capitalismo.

I commentatori meglio informati, gli storici e gli economisti negli Stati Uniti, parlano di una potenza in declino, che sta crollando sotto il peso di enormi debiti contratti per pagare consumi stravaganti. Essi parlano di un catastrofico coinvolgimento a livello internazionale, di disparità socioeconomiche in aumento, e di servizi sociali in declino.

Alcuni autori dipingono un quadro ancora più fosco al fine di promuovere il cambiamento politico e sociale. I liberali vogliono vedere l’ascesa dell’energia alternativa, le assicurazioni sanitarie riformate, ed un ritiro dall’Iraq; i conservatori sono diffidenti nei confronti di una Cina emergente, e di un’immigrazione sfrenata che cambierà il carattere dell’America. Vi sono anche coloro che credono onestamente che la più potente superpotenza della storia abbia raggiunto il limite delle sue capacità, e che sia giunta l’ora del suo declino.

In termini di potenza e di influenza globali, gli Stati Uniti hanno attualmente tre sorgenti di potere che rimangono ineguagliate nel mondo: l’esercito più potente, con l’arsenale più avanzato; Hollywood ed Internet, che diffondono la lingua inglese, la cultura consumistica ed il sogno americano alle masse; università d’elite, che attraggono in America le persone di maggior talento nel mondo. Fino a quando prevarrà lo status quo, sarà difficile per altri paesi sfidare la leadership globale degli Stati Uniti.

Tuttavia, malgrado tutta la loro potenza, gli Stati Uniti incontrano difficoltà nel trattare con alcune forze locali che minacciano la sua posizione in Medio Oriente ed in Pakistan, forze che stanno diventando sempre più potenti. Il Pakistan è traballante, l’Afghanistan è in fiamme, l’Iraq si sta disintegrando, l’Iran continua a portare avanti il suo sviluppo nucleare, il Libano è diviso, e Hamas controlla la Striscia di Gaza. Persino l’amichevole Israele, che dipende da Washington per quasi ogni cosa, ignora i ripetuti inviti americani a rimuovere gli insediamenti e ad alleviare le condizioni di vita dei palestinesi in Cisgiordania.

Si tratta soltanto di fenomeni locali che si verificano ai margini dell’impero (come il piccolo Vietnam)? Oppure si tratta di un radicale sconvolgimento dell’ordine regionale messo in piedi dagli Stati Uniti?

Questo interrogativo è alla base del viaggio del presidente Bush in Medio Oriente, che si concentrerà sui paesi petroliferi del Golfo. Bush è venuto per riaffermare l’egemonia americana nella regione contro le forze che la minacciano. Questa è la motivazione che lo spinge – non l’evacuazione degli insediamenti, la libertà dei palestinesi, o il tentativo di salvare il suo “compare” Olmert dalla Commissione Winograd al fine di impedire una crisi politica in Israele.

Questi obiettivi sono certamente importanti per lui, ma sono secondari. Dal punto di vista di Bush, il processo diplomatico che egli mette in piedi per Israele ed i palestinesi ha lo scopo di ristabilire il prestigio americano nel mondo arabo, mettendo a tacere le critiche rivolte contro di lui per il suo scarso coinvolgimento e le sue tendenze filo-israeliane. Bush può forse esprimersi in modo schietto, ma non si illude che uno stato palestinese possa essere creato durante il suo mandato, o che i paesi arabi diventino improvvisamente democrazie liberali.

Il viaggio di Bush in Medio Oriente divenne necessario dopo la pubblicazione del National Intelligence Estimate sull’Iran, che sminuì la gravità della minaccia nucleare, e fu interpretato nella regione come un ripensamento da parte americana rispetto al suo impegno di proteggere Israele e l’Arabia Saudita da una bomba atomica iraniana.

Non fu una coincidenza che il viaggio venne annunciato il giorno dopo la pubblicazione del rapporto dell’intelligence americana, poiché la necessità di rassicurare gli alleati dell’America nella regione salì in cima alla lista delle priorità di Washington.

Cosa può guadagnare Bush? Il presidente statunitense cercherà di dare una sferzata ai regimi filoamericani dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi, e dell’Egitto, al fine di rallentare il loro slittamento verso la sfera d’influenza iraniana , isolando le implicazioni regionali del fallimento in Iraq. Bush cercherà di mantenere in vita i negoziati israelo-palestinesi, lasciando al suo successore almeno la parvenza di un processo di pace, e forse qualche progresso verso un accordo definitivo. Al di là di questo, e di una dimostrazione di amicizia verso i governanti della regione, Bush non può fare molto altro.

http://www.haaretz.com/hasen/spages/943341.html



Venerdì, 18 gennaio 2008