Benvenuto, signor Presidente, nella miseria che lei ha creato!

a cura di Massimiliano Caruso

È per George Bush un’ironia ben meritata il fatto che la sua prima visita ufficiale in Israele coincida con il fermento sollevato dall’esito inaspettato delle elezioni primarie nel New Hampshire. Niente avrebbe potuto evidenziare meglio l’irrilevanza dell’ultimo anno della presidenza Bush. Il momento in cui un presidente in carica diventa un’ “anatra zoppa” (il termine con cui negli Stati Uniti si usa indicare un presidente al suo ultimo anno di mandato, al fine di evidenziarne il suo ridotto potere decisionale (N.d.T.) ) varia per ciascun governo statunitense a seconda delle circonstanze. Il giorno in cui vengono espressi i primi voti ne rappresenta tradizionalmente la data simbolica, anche se la corsa era già stata avviata da mesi sui mass-media. La gara avvincente del New Hampshire di quest’anno lo ha certamente dimostrato, offuscando qualsiasi interesse possano aver suscitato i piani di Bush volti ad influenzare il conflitto israelo-palestinese. Persino prima della partenza del Presidente da Washington, le aspettative intorno alla sua visita erano ridotte. Il suo sbandierato incontro con i leader del Medio Oriente ad Annapolis a novembre aveva infatti dato luogo ad un seguito prevedibilmente modesto. Le sei settimane successive hanno prodotto scarsi risultati e, soltanto come gesto di cortesia nei confronti di Bush, Ehud Olmert e Mahmoud Abbas hanno accettato di incontrarsi prima dell’arrivo del Presidente a Tel Aviv mercoledì, e di avanzare la più sfumata pretesa di progresso nelle trattative. Secondo il portavoce di Olmert, i due leader “hanno autorizzato le proprie delegazioni di negoziatori a condurre negoziati diretti e continui su tutte le questioni centrali”. Non è questa per caso un’affermazione tautologica, una mera ripetizione di quanto avevano già concordato nell’incontro di Annapolis?

L’intervento di Bush nella controversia più intricata del mondo è tardivo, insufficiente e fasullo. E, soprattutto, di parte. Un ex premier palestinese, Ghassan Khatib, osservava giustamente la scorsa settimana: “I Palestinesi sono concordi nel ritenere che, di fronte alla controversia israelo-palestinese, Bush è il presidente più parziale della storia degli Stati Uniti”. In qualsiasi conflitto, la responsabilità di fare le maggiori concessioni spetta sempre alla parte più forte, soprattutto quando ad essa è attribuibile la maggior parte dei torti. Tuttavia, malgrado la sua retorica di ieri, Bush non ha utilizzato l’enorme influenza di Washington su Israele per porre fine all’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est.

Bush non ha nemmeno esercitato pressioni per ottenere la cessazione dell’espansione degli insediamenti israeliani, o lo smantellamento della ragnatela di blocchi stradali che rende impossibile la vita di tutti i giorni ai Palestinesi. Il piano statunitense circa gli standard secondo cui valutare il progresso israeliano è stato subito abbandonato al primo accenno di preoccupazione del governo Olmert. Le dichiarazioni sporadiche di disapprovazione, da parte del Dipartimento di Stato americano, nei confronti dell’espansione degli insediamenti non sono state seguite da misure che potessero riflettere l’indignazione statunitense, quando – come è nuovamente successo a Gerusalemme lo scorso mercoledì – Olmert ha puntualizzato chiaramente che avrebbe continuato la costruzione illegale di abitazioni israeliane.

Qualsiasi riferimento alla discussione attorno alle “questioni centrali” è privo di significato senza misure atte a ridurre le difficoltà quotidiane dei Palestinesi, ed a porre termine al sequestro di centinaia di leader palestinesi. Circa 40 parlamentari palestinesi arrestati dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni di due anni fa si trovano ancora in prigione, senza essere sottoposti a processo, e apparentemente dimenticati da Bush e dagli altri governi occidentali. Le politiche degli Stati Uniti e dell’Europa nei confronti di Hamas rimangono ostinatamente ingiuste e contraproducenti.

Nella prima fase della cosiddetta Roadmap che Bush si vanta di aver rianimato, ci si attende dai Palestinesi che edifichino le istituzioni di uno Stato responsabile. Ciò nonostante Israele e gli Stati Uniti continuano a fare di tutto per mettere a repentaglio questo obiettivo, prendendo posizione apertamente nella rivalità tra Fatah e Hamas. Il commento di Bush, ieri a Ramallah, riguardo alla situazione a Gaza, è stato uno degli esempi più straordinari di miopia di tutta la storia. “Hamas ha portato soltanto miseria ai Palestinesi”, ha dichiarato Bush. Se avesse detto “La mia reazione, e quella dei miei colleghi israeliani e dell’Unione Europea, di fronte al mandato conferito a Hamas dagli elettori palestinesi ha portato solo miseria ai Palestinesi” sarebbe stato più vicino alla verità.

La catastrofe umanitaria volontariamente inflitta a Gaza dalle politiche occidentali duranti gli ultimi due anni è fino ad ora uno dei crimini più grandi di questo secolo. E soprattutto manca di giustificazione, giacché Hamas ha rispettato la tregua nei confronti di Israele per svariati mesi, prima della vittoria alle “elezioni libere, giuste e trasparenti” richieste dalla Roadmap. Hamas è stato e continua ad essere punito non per il suo ricorso occasionale alla violenza, ma semplicemente per la sua popolarità. E, come accade spesso con le sanzioni, non sono i leader a soffrire, ma tutta la popolazione civile del territorio colpito, privata di medicine, cibo adeguato, servizi pubblici e posti di lavoro. Piuttosto che perseguire la chimera di un accordo finale che non avrà alcun valore senza il consenso di Hamas, la politica occidentale dovrebbe concentrarsi su finalità umanitarie e politiche più efficienti: porre fine al boicottaggio di Hamas, promuovere l’unità palestinese, e costringere Israele a cessare il suo brutale assedio di Gaza. Bush non è il primo presidente statunitense ad interessarsi alla situazione in Medio Oriente proprio nell’ultimo anno di un doppio mandato alla Casa Bianca. Lo ha fatto anche Bill Clinton negli ultimi mesi del suo secondo incarico presidenziale. Tuttavia il suo comportamento è stato ben diverso: Clinton aveva sostenuto il processo di Oslo già all’inizio del suo primo mandato, e aveva appoggiato con molta energia la nascente Autorità Palestinese. Successivamente, anche se era diventato un’ “anatra zoppa”, alla fine del 2000, Clinton si è sforzato di riavvicinare Arafat e Barak a Camp David, allo scopo di ottenere un accordo non sproporzionatamente favorevole a Israele. Il suo esempio ha dimostrato come i presidenti americani siano in grado di agire con maggiore fermezza quando sono sollevati dalla pressione elettorale. Ci vuole soltanto uno sforzo di volontà perché un’ “anatra zoppa” diventi un’ “aquila” di un illuminato potere americano.

Per contrasto, l’attuale visita di Bush nella regione non è nient’altro che un’esibizione di cinismo partigiano, associato alla speranza che, se un qualche accordo provvisorio dovesse essere firmato quest’anno tra Olmert e Abbas, ciò potrebbe cancellare i fallimenti di Washington in Iraq.

Quali conseguenze ha tutto ciò per i Palestinesi, in un momento in cui il periodo pre-elettorale negli Stati Uniti sta per rivelare gli ultimi due candidati alla successione di Bush? Dovranno aspettare il 2016 perché il presidente Clinton o il presidente Obama siano abbastanza liberi da affrontare l’intransigenza israeliana ed insistere su delle concessioni? Nessuno dei candidati ha dato per ora alcun segno di voler rompere con la tradizionale visione filo-israeliana del problema, quindi i Palestinesi dovranno forse ancora una volta aspettare il miracolo dell’ottavo anno. Le finestre di opportunità si aprono estremamente di rado, tuttavia il bisogno di un’azione tempestiva non è mai stato così urgente.

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/story/0,,2239039,00.html



Venerdì, 18 gennaio 2008