Notam

Numero 353 del 7 giugno 2010 - S. Flavia - Anno XVIII


«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 7 giugno 2010 - S. Flavia - Anno XVIII - n. 353
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Ugo Basso
Scrivo il 2 giugno, e mi limito all’Italia, anche se il mondo non sorride tra arrembaggi israeliani e oceani inquinati dal petrolio e nuovi rischi nucleari: Obama resta l’unica speranza che non delude nella visione della politica, nella franchezza delle denunce, ma fatica nella realtà interna e internazionale.
Festa della repubblica e delle forze armate, e della costituzione, sostengono invece gli organizzatori della manifestazione di Milano per fortuna applaudita, pare, da cinquantamila persone. La diversità delle espressioni dice la lacerazione del paese, confermata dalla assenza dei ministri leghisti alle cerimonie e dalla anticostituzionale maglietta dell’onorevole Salvini «Padania is not Italy». Devolution o spezzatino? Lacerazione è la parola chiave di questa fase della politica nazionale: sempre più evidente tra il sindaco di Milano e il governatore della Lombardia, tra i presidenti della camera e del senato, del consiglio e della repubblica: quest’ultima visualizza la contrapposizione fra una concezione monarchica e una repubblicana dello stato. Questa lacerazione istituzionale, oltre che politica e morale, potrebbe rendere ingovernabile il paese: c’è chi ritiene che la presidenza della repubblica sia l’ultimo baluardo della repubblica in cui ci riconosciamo; c’è chi auspica la soluzione del conflitto nella fusione delle due cariche.
Del progressivo scostamento dell’Italia dalla democrazia è purtroppo complice l’opposizione incapace di esprimere un programma organico e un leader. Nel paese il dissenso è forte: adesso basta sono in molti a gridarlo, ma non hanno una sponda a cui indirizzarsi. E che l’opposizione sia più consistente della sua rappresentanza politica è dimostrato dalla rete internet e dalla stampa che ancora non si è fatta comprare e pare ottenere almeno qualche attenuazione nel decreto bavaglio sulle intercettazioni. Siamo ancora lontani dalla decenza, ma è pur un segno che resistere pensare scrivere può ancora produrre qualche effetto. Almeno di denuncia, almeno per preparare il terreno a tempi migliori per chi avrà la ventura di viverli: nella crisi in cui finalmente ci hanno detto che ci dibattiamo non si riducono i costi della politica –confermati gli oltre tre euro ai partiti di rimborso spese elettorali per ogni elettore, anche se non ha votato!-, in espansione il bilancio del senato, nuove spese per acquisto di armi superiori all’intera assillante manovra.
Non riesco proprio a liberarmi da questa ragnatela sempre più ampia e appiccicosa che a troppi pare normalità ineluttabile e neppure mi appassiona il calcio che nel prossimo mese monopolizzerà l’informazione. E che dire, nel rigore chiesto da Ratzinger, della statua che il vescovo di Salerno si è fatto costruire per i suoi settantacinque anni, in attesa del processo per distrazione dei finanziamenti regionali da una casa di accoglienza a un albergo di lusso? 
in questo numero                              
F. Mandelli PER I SIGNORI MEDICI: UMANA COMPRENSIONE SEMPRE uM. Bramante DALL’ECONOMIA DELL’IO ALL’ECONOMIA DEL NOI ug.c. I NOSTRI AUGURI A BRUNO SEGRE! u M. Canaletti LA LOGICA DI GESÙ u G. Chiaffarino GLI ANTIPATIZ-ZANTI E GLI ALTRI IN QUESTO NOSTRO PRESENTE u cose di chiesa e di religioni UN’INIZIATIVA CONDIVISA u film in giro F. Colombo DEPARTURES u sottovento g.c. LA COERENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ u riuniti nel suo nome f.c. GLI ATTI DEGLI APOSTOLI u segni di speranza s.f. CERCATE PRIMA IL REGNO DI DIO E LA SUA GIUSTIZIA u  Il Gallo da leggere u.b. u la cartella dei pretesti
PER I SIGNORI MEDICI: UMANA COMPRENSIONE SEMPRE
Fioretta Mandelli
L’articolo della dottoressa Poggiato sul n.350 di Notam mi ha ispirato alcune riflessioni. Ho letto e meditato anch’io il libro che viene spesso citato in quello scritto, di Jona Healt, Modi di morire. Sono in una età in cui queste tematiche mi interessano molto da vicino. Quando leggo osservazioni come quelle fatte a proposito del film La prima cosa bella di Virzì, e come quelle che derivano dalla lettura di Healt, mi si apre il cuore vedendo tanta comprensione e tanta disponibilità ad aiutare da parte di chi è medico. Ma poi il cuore mi si stringe se penso a quello che è troppo spesso nella realtà il rapporto che si vive –soprattutto da vecchi– con le strutture a cui si ricorre per curarsi .
Non farei una netta distinzione tra il periodo in cui si parla di cure palliative, cioè sulla dirittura d’arrivo verso la fine, e il percorso più lungo in cui gli ultimi anni avvicinano alla fine, e chi li vive ne è consapevole. Questo periodo, che. secondo me, inizia dagli ottanta anni, porta con sé alcune caratteristiche positive. La brevità del tempo che resta, unita al bisogno di conciliarsi in qualche modo con il mistero che comunque ci attende alla fine, possono portare agli ultimi passi avanti verso la completezza di sé e della propria umanità: un progressivo aumento della capacità di godere del presente, di comprendere e valorizzare i ricordi, un distacco congiunto a un amore più vero, che aiuta a capire meglio le persone che amiamo da una vita, e anche una accettazione curiosa e capace di speranza del nuovo di cui non vedremo la realizzazione.
Questa possibilità di avere ancora una vita ricca di valori è però continuamente minacciata dalla caratteristica negativa che pesa su tutti i vecchi, cioè dal deterioramento fisico comunque presente, con l’aumento progressivo delle menomazioni e sofferenze fisiche, e dell’incontro con vere e proprie malattie, finché ne verrà una che sarà l’ultima. Questo deterioramento, data l’unità della persona umana, è capace di compromettere tutto l’equilibrio vitale. La capacità del vecchio di integrare queste esperienze di malanni con una vita ancora ricca di valori è condizionata pesantemente dal modo in cui si svolgono gli incontri sempre più frequenti, spesso anche continui, con periodi di cura, con diagnosi e interventi, che di fatto sottomettono il paziente al potere di chi lo cura. I rapporti con le strutture sanitarie non sono più solo episodi. Negli ultimi anni il ricorso all’aiuto della medicina diventa necessariamente motivo ricorrente della propria vita quasi per tutti. Un malessere, un incidente, un disturbo che si accentua, ed ecco che si deve ricorrere a un medico.
Qui comincia la prima sofferenza: inizia per lo più una lunga attesa, non tanto per avere una indicazione sulla natura e la cura del disturbo, quanto per poter accedere all’esame medico in base a cui –dopo una ulteriore attesa– un medico deciderà la cura o l’intervento. Questo dover aspettare è molto duro per un vecchio, la cui inevitabile maggior fragilità emotiva rende difficile sopportare l’ansia. È indubitabile che il pensiero che negli ultimi anni di vita qualsiasi malanno può essere l’inizio del venire meno di tutta la vita che si ama renda attese di questo genere molto pesanti. Quando poi è il momento dell’esame o dell’intervento, è forte il bisogno di essere ricevuti e accompagnati da una comprensione e da un rapporto personale positivo, trattati da persone e non da pazienti. Scriveva il professor Zerbi sul n. 345 di Notam che «l’assunzione consapevole di ogni momento dell’iter diagnostico terapeutico […] una definizione chiara e franca e comprensibile dei problemi e delle difficoltà» sono aspetti che ogni persona deve pretendere di trovare in un rapporto medico umano.  
Bisogna arrivare oltre gli ottanta anni per rendersi conto di come sia difficile ottenere questo da vecchi. Sembra che non ci si renda conto che alzarsi alle 6 per un esame all’ospedale d’inverno è per un vecchio causa di serio malessere, e che una lunga attesa, magari più volte dilazionata, di un intervento anche lieve può causare in un vecchio una angoscia anche fisicamente debilitante. Durante una visita si ha poi spesso l’impressione che ci si aspetti che il vecchio sia accompagnato da qualcuno in grado di parlare e di capire per lui o per lei. Questa impressione di essere considerato dai medici e infermieri come poco capace di intendere e di volere è diffusa. Ed è tale da incoraggiare nel vecchio una certa accidia, una abitudine non necessaria né sempre né per tutti, di ricorrere sempre a un badante per occuparsi e riferire della propria salute, per prendere decisioni. 
Le cose che scrive Poggiato sulla necessità di un dialogo umano tra chi soffre e chi cura valgono certamente per il percorso che conduce direttamente verso la morte, ma devono caratterizzare anche un atteggiamento costante soprattutto verso il vecchio, inevitabilmente consapevole della propria precarietà. Certamente contano la comprensione, l’aiuto e anche la stima di chi ci vuole bene (figli, coniuge, amici), ma il medico detiene su di noi un tipo di potere che dà uno speciale valore insostituibile al rapporto con lui di chi soffre ed è in ansia.
Sono d’accordo con Poggiato sul «momento di morire». È vero che il modo migliore di prepararsi a morire è accettare e capire che la morte fa parte della vita e della sua storia. Per questo non possiamo sapere se sia meglio una morte rapida e improvvisa, o un percorso – anche di sofferenza- che permetta a chi va verso la morte e a chi gli vuole bene di fare ancora un pezzo di strada insieme. Purché l’umana comprensione e un reale rapporto d’amore ci accompagnino.
 
DALL’ECONOMIA DELL’IO ALL’ECONOMIA DEL NOI
Massimo Bramante
Interesserà i lettori questa esperienza illustrata in un convegno organizzato a Genova nello scorso marzo sulle potenzialità del microcredito per permettere agli esclusi del sistema bancario, nel Sud come nel Nord del mondo, di uscire dalla tenaglia del “circolo vizioso della povertà”.
Come è ben noto, soprattutto dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al fondatore del microcredito, l’economista del Bangladesh prof. Muhammad Yunus, la microfinanza può risolversi, se opportunamente realizzata, in un potente strumento di lotta alla povertà e di emancipazione sociale. Lo stesso Yunus ha acutamente messo in rilievo che
sei povero quando cerchi di entrare in una banca e in un’agenzia di assicurazione e ti chiudono le porte in faccia. Allora ti accorgi di essere uguale alle donne del Bangladesh…Perché se hai un dollaro puoi farne un altro, ma se nessuno mi presta quel dollaro che faccio ? Sarò povero per sempre…
L’esperienza di Yunus è collocabile intorno alla metà degli anni ’70, ma un’espe-rienza ancora precedente illustrata nel corso del Convegno genovese, dal titolo «Superare l’esclusione finanziaria. Il microcredito dal Sud del mondo a Genova»  è quella messa in campo nel 1968 da Giovanni Ermiglia, un professore di filosofia di Sanremo. Ermiglia si inserì nel grande progetto del discepolo di Gandhi Vinoba: ottenere da proprietari terrieri la terra di cui i contadini nullatenenti avevano bisogno. Ne raccolse 4.200.000 acri. Ma quando i lotti vennero assegnati si scoprì che i contadini erano troppo poveri per poter lavorare per un periodo abbastanza lungo terreni incolti da decenni. Ermiglia propose un microprestito a 25 contadini del Tamil Nadu (India del Sud) perché potessero mettere a coltura un piccolo appezzamento di terreno brullo. Il prestito avrebbe dovuto essere restituito a favore di altri contadini. Superate le diffidenze iniziali, il progetto decollò, il prestito venne restituito e altri assegnatari ne usufruirono.
Nacque così, dalla speranza di un professore di filosofia e dalla fiducia di molti contadini indigenti, l’ASSEFA (acronimo per: fattorie al servizio di tutti) che si basò sul microcredito rotativo. Si instaurò infatti una spirale di sviluppo che è passata dal promuovere gruppi di assegnatari, a collegare questi con contadini proprietari di pochissimo terreno, di qui a interi villaggi e finalmente a comprendere tutte le necessità degli abitanti le zone rurali. Tutto si basa sul formare comunità: di villaggio, tra donne, tra uomini, a partire dalle scuole. I microcrediti e le donazioni che sono nel frattempo intervenute da parte di parecchie ONG o singoli, vengono assegnati a gruppi alfabetizzati dal punto di vista contabile e comunitario. I vari settori godono di reti di sostegno strutturate che all’apice sono enti riconosciuti.     
A oggi la spirale di sviluppo organizzata da ASSEFA in otto stati indiani raggiunge circa 11 mila villaggi. Sia chiaro: Il microcredito non è una panacea per debellare la povertà. Ma può portare un concreto contributo alla lotta alla disoccupazione che flagella il Nord come il Sud del mondo: oggi, pur in presenza di un’econo-mia globalizzata, la disoccupazione spesso è l’anticamera della povertà e dell’usu-ra. E la povertà si batte anche  lavorando per superare l’esclusione finanziaria che affligge uomini e idee che adeguatamente sostenuti possono creare sviluppo e generare reddito.
Se il microcredito e la microfinanza permetteranno di fare un significativo passo avanti dall’economia dell’io all’economia del noi, certamente queste nuove e innovative forme di finanza-etica avranno svolto un ruolo cruciale non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista della salvaguardia della dignità umana (v. anche: Leonardo Becchetti, Il Microcredito, Il Mulino, 2008).
 
I NOSTRI AUGURI A BRUNO SEGRE!
L'amico Bruno Segre ha compiuto 80 anni. La prima parola che mi viene alla mente per dire di lui è: «prezioso». Chi ha avuto la fortuna di poterlo frequentare sa bene della sua disponibilità, la sua capacità di analisi della complessità di oggi che riesce a presentare situazioni difficili in modo semplice perché tutti possano capire. Dote davvero non troppo frequentata ai giorni nostri.
Da parte mia, non riesco nemmeno a ricordare bene quando ci siamo incontrati la prima volta: quasi certamente alle sessioni estive del SAE. Indimenticabile invece la bella immediata sintonia, pur da posizioni che apparentemente potrebbero essere lontane… È molto utile discutere con lui. Alle nostre domande sulle complicate vicende dell'Oriente, più che una risposta, Bruno ti si affianca e ti propone un certo cammino che ti aiuta a capire, non senza indicarti delle piste per proseguire l'indagine e magari qualche riferimento che ti era totalmente sfuggito. È così che riesce spesso a sorprenderti…
E noi di NOTAM abbiamo buoni motivi per ringraziarlo e farlo pubblicamente. Quali i nostri auguri per Bruno in questa occasione? Quella sazietà che indica la Bibbia? Meglio: tutto quello che desideri fiduciosi che mai ci perderai di vista.
                                                                                                                            g.c.
LA LOGICA DI GESÙ
Mariella Canaletti
A cura, e per merito di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, sono stati pubblicati, con il titolo La logica di Gesù (edizioni Qiqajon, 2009, pagg.154,10,50 €), alcuni testi scelti di Paul Ricoeur, che, come dice la presentazione, è stato «uno dei testimoni e dei protagonisti più sensibili della coscienza filosofica del Novecento». È un piccolo volume accessibile anche ai non addetti ai lavori, ma non per questo meno ricco e incisivo, con una visione originale che lascia un segno profondo e duraturo. Può quindi diventare occasione di una rinnovata, seria meditazione, riprenderlo in mano e fissarne i temi che ne costituiscono il fondamento.
Alla ricerca della logica delle scritture, l’autore si sofferma in contemplazione del discorso, o meglio del poema sulle beatitudini, che apre l’orizzonte sulla felicità, su ciò che è «altamente desiderabile», contrapposta però a situazioni di infelicità, di privazione, e che ha in sé la forza di capovolgere la confessione di infelicità in promessa di felicità. Come leggerla, questa promessa, se non nella sfida a cogliervi «il surplus di senso e di essere che opera al cuore stesso dell’infelicità»? Compito arduo, che richiede di non fermarsi alla lettera, che renderebbe le beatitudini impegni impraticabili, ma che spinge ad ampliare lo spazio, per riflettere sul passato e sull’oggi, e cercare di dare al nostro vissuto, pur nel dilagare della sofferenza e del male, la possibilità di essere consolati, essere saziati, trovare misericordia.
Mettendosi in ascolto delle parabole, colpisce il paradosso esistente fra la realtà della quale si parla, il regno dei cieli, e quella a cui viene paragonata, che è «radicalmente profana», essendo, come sappiamo, chiamati in causa «amministratori, operai, seminatori, pescatori, padri e figli». È innegabile che le parabole abbiano un linguaggio metaforico, che a volte presenta aspetti di stravaganza e può lasciare disorientati; vive attraverso immagini, non traducibili in un linguaggio concettuale, astratto. Certamente danno un insegnamento, ma dove trovare il loro senso? Nella struttura della loro narrazione, sottolinea Ricoeur, si evidenzia sempre un «incontro con l’evento», che può portare a un «mutamento della rotta del cuore», e che infine ha come effetto «l’agire conseguente»; ascoltarle allora significa lasciare aperta l’immaginazione a nuove possibilità, lasciare sbocciare la forza poetica dell’even-to, così da poter convertire il nostro cuore e rafforzare la nostra volontà. Se lette come un tutto armonico, si comprenderà ciascuna alla luce delle altre, e sapranno dire più di qualunque altra teologia razionale.
Così la massima «Chi perderà la propria vita... la salverà» potrebbe apparire un proverbio paradossale, nel mettere il dito sull’orientamento dominante del genere umano verso l’avere e il potere. Viceversa dice l’impegno che, ciascuno nel suo ambito, deve dare: sarà accettazione della nostra croce e testimonianza da applicare ai nostri desideri; sarà rinuncia a rappresentarci Dio come luogo del sapere assoluto, accettando una sola cosa: «che Dio si è identificato con l’uomo Gesù crocefisso».
In sintesi, partendo dalla nostra logica, che è di eguaglianza e di equivalenza, possiamo scorgere la logica di Gesù nell’eccedenza e nell’abbondanza, che non si può «imporre con l’insegnamento o la legislazione», ma che può essere messa in pratica ricercando quali segnali di questa logica «ci viene richiesto di dare oggi».  
Con lo sguardo proprio sull’oggi, Ricoeur percorre il formarsi delle civiltà, il loro essere «relative», legate a confini spazio-temporali, e al compito affidato alla memoria e all’inventiva dell’uomo di conservarne i valori; valori attorno ai quali non è necessario montare la guardia, ma che costituiscono  «una storia da continuare». Così il compito di cristiani nel nostro tempo «è di discernere i nuovi valori di giustizia e di libertà che le condizioni tecniche del mondo moderno attualmente permettono e suscitano, di riconoscerli ovunque siano, e di ripensarli e riviverli in un contesto di fede».
Questa esortazione è un invito a «essere in piedi» e «in cammino» per cercare il volto di debolezza e di misericordia di Dio che si svela nelle beatitudini, e per diventare testimoni di un evangelo di comprensione e indulgenza per la fragilità umana con lo stesso sguardo che ha avuto Cristo per la peccatrice.
 
GLI ANTIPATIZZANTI
E GLI ALTRI IN QUESTO NOSTRO PRESENTE
Giorgio Chiaffarino
Le reiterate amichevoli pressioni degli amici mi inducono a rompere gli indugi e gettare qualche idea sul tema che abbiamo evocato spesso, ma che in realtà forse si adatterebbe meglio ad altri momenti. E sì, perché si tratta degli antipatizzanti, nel caso, quelli della sinistra. Secondo la vulgata che qui si accetta, sarebbero le persone che tendenzialmente sono particolarmente predisposte a trovare i peli nell'uovo, e in politica – si sa – di peli se ne trovano a iosa.
Inevitabilmente, mentre l'accordo sul no quando si è all'opposizione è sempre relativamente facile, al momento del governo, le scelte, le decisioni sono un'altra storia. Si deve tener conto di mediazioni e compromessi, spesso positivi e utili e talvolta invece al ribasso e di scarso profilo. Una ragionevole valutazione critica deve, o dovrebbe comunque, equilibratamente rilevare sempre luci e ombre e, in particolare, la bontà della prospettiva e degli obbiettivi che una certa politica si propone.
Bisogna poi riconoscere che una cultura di governo è merce rara a sinistra, perché la tradizione che manca non si inventa dall'oggi al domani. La radicata tradizione è invece quella dell'opposizione e, appunto, l'intesa – relativamente facile – sul no con l'assenza dell'aspetto del che cosa invece. Si rischia così di accontentarsi di raccogliere le opposizioni, sottovalutando le forti differenze che di solito si trovano a quell'interno, e considerare un grande successo qualche briciola che il potere costituito concede perché gli fa gioco o perché per un attimo era disattento…
Così il momento del governo della sinistra, e viene subito da pensare alle travagliate vicende dell'ultimo che abbiamo avuto, è anche il momento degli antipatizzanti che si negano a una ragionevole valutazione degli aspetti positivi e negativi, che inevitabilmente coesistono, ma esercitano la loro intelligenza a recuperare tutte le bottiglie mezze vuote, i sì ma, i però e poi, in particolare, a incoraggiare i benaltristi, che sono una sottospecie diffusa e molto irritante degli antipatizzanti. Il gioco è facile, l'intervista viene da sé e un titolo di giornale è molto probabile…
Ma oggi la sinistra - il centrosinistra o quello che volete voi - appare lontana, molto lontana da quella stanza dei bottoni nella quale ieri, pur a fatica e con molte contraddizioni, si era riusciti a concludere qualche riforma, qualche liberalizzazione e qualche garanzia in più per i cittadini, per chi lavora. Proprio quello che la destra ora imperante si è affrettata a cancellare, sotto gli occhi benevoli dei cattolici che hanno per massima il mai contro il potere, e nella più perniciosa immobilità che una maggioranza parlamentare così ampia e mai vista nei tempi recenti dovrebbe invece quotidianamente contraddire.

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

cose di chiese e di religioni
UN’INIZIATIVA CONDIVISA
Alcuni di noi, convinti a rimanere nella chiesa, pur con inquietudini e turbamenti, riconoscono un motivo di speranza negli incontri molto informali di personalità e gruppi diversi uniti dal desiderio di testimoniare il vangelo che abbiamo ricevuto senza costituire movimento o gruppo.
Riportiamo qualche brano del documento introduttivo del terzo incontro, organizzato a Napoli nel prossimo settembre, che illustra in modo chiaro le prospettive e le posizioni.
Come dicevamo fin dal primo invito/documento
il nostro non è (…) un invito alla creazione di un movimento o alla contestazione o chissà a che altro, come una Chiesa alternativa, ma la volontà che la libertà dei figli di Dio, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano. Per questo invitiamo quanti condividono questa sofferenza, ma al tempo stesso la speranza del Regno e la volontà di una Chiesa umile e vicina agli uomini, ad un incontro, per confermarci a vicenda nella fede.
Due cose ci sembrano prioritarie in questo momento della vita della Chiesa in Italia. La prima è la doverosa constatazione che la Chiesa che vuole vivere del primato del vangelo, fedele al Concilio, esiste e si esprime in forme innumerevoli: in tanti gruppi, in tante parrocchie, spesso anche se non sempre attorno a un prete che assolve al suo compito primario che è quello di riconoscere i carismi dello Spirito per farli vivere nella comunione del corpo di Cristo, secondo lo statuto del popolo di Dio pellegrinante nella storia. Lo spirito vitale di questa Chiesa non si lascia spegnere. Non è una Chiesa di puri, senza peccato. Non è una Chiesa a parte dalla grande Chiesa una sancta catholica, ma dentro di essa, grata ad essa come alla propria madre, sofferente per essa e assieme ad essa, partecipe della sua santità e del suo peccato. Di questo dobbiamo essere grati ogni giorno al Signore.
Ma la seconda cosa è che questa Chiesa non ha oggi voce. Esiste un disagio sensibile, per quanto coperto dal silenzio o sommerso dalle voci dominanti, e questo disagio ha una ragione di fondo. Il regime di separatezza che vige nella Chiesa separando lei dal mondo, a cui pure è inviata, e dividendola al suo interno tra chierici e laici, che pure sono accomunati da una medesima vocazione battesimale. Lo scandalo della pedofilia ha fatto emergere l'una e l'altra cosa in modo evidente. La dirigenza ecclesiastica sembra ritenere - di fatto, se non anche di diritto (ma spesso anche di diritto!) - di non dover rendere conto al mondo dei suoi comportamenti, e solo davanti all'esplosione dello scandalo ha ritenuto, ma con grande fatica, dopo un istintivo arroccamento e diversi tentativi di minimizzazione, di correggere quest'atteggiamento. Quasi che l'onore e la santità della Chiesa non consistesse, evangelicamente, nel riconoscersi peccatrice e bisognosa di perdono, e quasi che i reati commessi dal clero non dovessero essere giudicati dai tribunali civili, come quelli di tutti gli uomini. […] 
In questa situazione noi proponiamo qualcosa di molto umile e forte al tempo stesso: la creazione di uno spazio di comunione dove nessuno sia escluso, dove non ci siano censure, dove ognuno possa alimentare la propria speranza ed essere sostenuto nella fede, dove i conflitti non vengano messi a tacere ma vissuti con la magnanimità di coloro che sanno che l’amore del Padre abbraccia e «sostiene» tutti, perché Egli sia adorato nei loro cuori.
Qualcuno di noi sarà a Napoli e riferirà, sperando di confermare la sintonia con questa iniziativa di cui siamo grati agli organizzatori, fra i quali molti amici.
 
film in giro
DEPARTURES
di Yojira Takita, Giappone 2008, uscita 9 marzo 2010, colore, 130 min.
Franca Colombo
È un film particolare che svela a noi stessi alcuni nodi profondi che non sapevamo di avere. Se riusciamo a superare l’impatto o il rifiuto che suscita la prima mezz’o-ra di proiezione, riusciamo anche a entrare in un’atmosfera di delicati intrecci sentimentali molto godibili.
Il regista Yojira Takita, giapponese, ci conduce per mano da una sensazione di ripulsa per i cadaveri posti ripetutamente al centro della nostra attenzione, a un atteggiamento di indulgenza per giungere infine a una contemplazione affettuosa di questi corpi inanimati, oggetto di tante cure. Proprio attorno a essi, nel momento in cui si celebra la loro morte, si dipana una rete di sentimenti intensi e vitali: un rapporto di coppia giovane e fresco, il rimpianto per una madre non salutata, il dolore per un figlio abbandonato tanti anni prima, e infine l’odio, l’odio fortissimo per un padre resosi irreperibile da sempre.
Abituati come siamo alle emozioni gridate, incontrollate, amplificate sui nostri teleschermi, rimaniamo estatici a contemplare questi turbamenti appena accennati: uno sguardo, un sorriso, una carezza e pochissime parole, come è d’uso nella cultura orientale. Parlano invece i gesti, le cose, parlano persino i sassi. Bellissimo e intenso l’episodio del passaggio di sassi tra la mano del padre e quella del figlio, «perché i sassi dicono molte cose, secondo la forma e il tipo di superficie». Sassi che conservano la loro forza evocativa nel tempo: unico legame di un rapporto interrotto e mai ricucito fino alla composizione del cadavere del padre. Il protagonista ritrova, assieme al sasso donato tanti anni prima, anche il volto del padre volutamente cancellato dalla memoria, ritrova se stesso e le lacrime per perdonarlo.
Non è un film sulla morte, anche se la morte è sempre presente. È un film sulla vita che la morte, assolvendo alla sua funzione catartica, può generare quando è guardata e accolta con indulgenza. Quella morte che noi occidentali ci affanniamo a negare, allontanare, o censurare, in questa storia orientale viene abbracciata, coccolata, accarezzata con gesti armonici e delicati come una danza. E il vecchio saggio finalmente parla: «la morte è solo un cancello, al dà del quale c’è il nostro giardino».
sottovento                                                             g.c.  
LA COERENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ
Accade a volte da noi che, quando in un processo è coinvolto il premier, ci spieghino che la prescrizione significa assoluzione. I pretoriani applaudono, l'opposizione non insiste più di tanto, gli italiani se ne infischiano (i tifosi della maggioranza per lo più non realizzano neanche la differenza) e tutto passa liscio.
Torniamo un momento all'ultima che - come noto - è questa: la Cassazione ha confermato che Mills è stato corrotto, ma il reato è prescritto. Chissà chi è il responsabile - si fa per dire - perché il Cavaliere ha detto: «Mai infranto la legge» e ha detto anche:«Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile, quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l’esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario»[1] e qualche tempo prima ancora: «Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia»[2]. Il processo nelle due circostanze ha dimostrato l'esatto contrario, dunque lui è spergiuro e mentitore e, se fosse di parola, ci dovremmo aspettare che lasciasse l'Italia come promesso. Naturalmente non lo farà e anzi continueranno ad arrivare a pioggia altre leggi ad personam perché quelle esistenti non bastano mai. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, dicevano i nostri vecchi e, malgrado l'assoluzione un grande spazio risulta ancora aperto. Molto penosa è poi la vicenda di quei super-cattolici che, messo da parte il Vangelo «Il vostro parlare sia sì, se è sì, e no se è no; il di più viene dal maligno»[3], hanno scelto di affiancare sempre il potere, giustificarlo qualsiasi cosa accada, e che oggi, di fronte a questo tsunami che ogni giorno si allarga sempre di più, continuano a non prendere le distanze, parlano d'altro, si accodano ai peggiori corifei.
Uno dei più patetici è un onnipresente, che i milanesi conoscono bene, ecco il suo esploit: «C'è un giudice a Berlino… finalmente è stato smascherato l'uso strumentale della giustizia (?) questa sentenza dimostra in modo evidente l'accanimento giudiziario (?)» e ancora: «Quando si usa la giustizia per abbattere il nemico assistiamo purtroppo a deformazioni». E poi la ciliegina finale: «Non parliamo di Berlusconi. Anche se nel merito di ciò di cui veniva accusato si è sempre proclamato innocente»[4]. Parole sante, ipse dixit, e si vede che a loro tanto basta!
Sorge spontanea la domanda: ma come si può chiudere questo contrasto tra politica e magistratura? Uno dei giudici talebani ha risposto così: «Basterebbe smettere di rubare!».
 
riuniti nel suo nome                                              f.c.   
GLI ATTI DEGLI APOSTOLI
 capitoli 19, 21 - 23, 22
Paolo chiama a Mileto i responsabili della comunità di Efeso non potendo recarsi costì, dati i precedenti scontri e parla loro con il cuore in mano, propone il suo modello di Chiesa e di presbiteri. È l’unico discorso che Paolo rivolge ai cristiani e si sente che non ha preoccupazioni apologetiche o teologiche, vuole solo trasmettere la sua esperienza. Racconta fatti non teorie: racconta i rischi che ha affrontato, le lacrime che ha versato, la persistenza del suo annuncio «nei luoghi pubblici e nelle case». Non parla più nelle sinagoghe. Può sembrare che proponga se stesso come modello, ma in realtà pone ripetutamente l’accento sulla presenza dello Spirito e sulla sua intimità con Lui nella preghiera. Questo uomo di azione, qui si rivela uomo di contemplazione.
Nella imminenza della sua partenza per Gerusalemme, per la prima volta, parla di una Chiesa come comunità organizzata e affida ai suoi capi la responsabilità di prendersi cura dei fedeli, «ora tocca a voi…come pastori». Ma come devono essere questi pastori? Nasce dalle sue parole un modello di presbitero di cui forse, nel tempo, la Chiesa ha perso le tracce. Il prete è colui che «annuncia a tutti gli uomini che Dio li ama». Non si parla di dottrine, pronunciamenti, magistero o verità non negoziabili. Il prete parla di Dio, ma vive tra gli uomini, vive del lavoro «delle sue mani» e non aspira al possesso di «oro e argento», non gestisce poteri economici, banche, strutture con varie funzioni, e anche per aiutare i poveri sa che «è necessario lavorare», stare in mezzo a loro e non calare la beneficienza dall’alto.
Con tutto ciò Paolo è cosciente che «sorgeranno dei lupi rapaci persino in mezzo a loro». E qui siamo veramente all’anticipazione profetica di quanto sta accadendo alla Chiesa di oggi. Di fronte ai preti pedofili, lupi rapaci che sbranano pecore indifese, la nostra Chiesa ha preferito difendere per anni con il silenzio l’integrità della istituzione piuttosto che prendersi cura delle vittime. Paolo, invece, di fronte a questi tradimenti appare deciso e non smette di parlare «giorno e notte anche tra le lacrime». Rivela in questi capitoli anche una dimensione emotiva che sorprende in un teologo solitamente razionale e rigoroso.
Che sia frutto di una maggior frequentazione delle case private anziché delle sinagoghe? Che sia frutto di una presenza delle donne, che nonostante la sua iniziale riluttanza, erano sempre più attive nelle comunità e cominciavano a prendere la parola? A Cesarea addirittura quattro figlie di Filippo profetizzano e a Troade celebra la prima cena del Signore in una stanza, con le donne attorno a un tavolo. A Tiro, quando Paolo si imbarca per Gerusalemme tutta la comunità lo accompagna al porto, «comprese le donne e i bambini». Quando anche la nostra Chiesa, riuscirà a superare la diffidenza verso l’altra metà del cielo e concederà più spazio alle donne, forse vedrà frutti di tenerezza anche nei presbiteri.
Ma nonostante questa bella esperienza comunitaria e nonostante i pericoli che sa di incontrare, Paolo vuole andare a Gerusalemme. Perché questa ostinazione? Non possiamo pensare che volesse una investitura ufficiale da parte degli apostoli che oramai non c’erano più e anche quel Giacomo di cui parla non è quello del Vangelo. Forse sente la responsabilità di trasmettere ai cristiani giudaizzanti proprio quella idea di chiesa nuova, più partecipata e più domestica, diversa da quella giudaica; ma lì si scontra con la casta del Tempio. Subisce arresti e torture, ma contemporaneamente entra in contatto con il potere romano che più volte lo difende e lo salva dalle persecuzioni degli ebrei e il comandante della guarnigione romana dimostra interesse verso le sue idee. È uno che vuole capire.
Forse questo contatto apre a Paolo una nuova prospettiva di evangelizzazione e lo Spirito lo incoraggia ad andare a Roma. Paolo intuisce che il cristianesimo può imprimere una spinta innovativa e salvifica a quel popolo. sta andando incontro a una fase di decadimento morale. Lo Spirito sospinge continuamente verso nuove mete. Lo Spirito è dinamismo, aiuta a superare la tentazione di fissismi e di immobilismi. Cristo ha aperto una strada, ma ognuno di noi ha un sacerdozio da attuare. Un tempo si partiva dalla Chiesa per conoscere la scrittura, oggi tocca a noi laici partire dalla scrittura per rinnovare la Chiesa.
segni di speranza                                                                     s.f.  
CERCATE PRIMA IL REGNO DI DIO E LA SUA GIUSTIZIA
Matteo 6, 25-33
La liturgia ha terminato di ricordare i momenti alti del percorso pasquale, i passaggi fondamentali della nostra fede: la Crocefissione, la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste; la festa della Trinità ha chiuso il ciclo. Riprende ora il cammino di catechesi di base, quello settimanale e quotidiano, di cui le siamo riconoscenti.
Continuiamo la lettura di Matteo che ricorda come debba essere impostato il rapporto con Dio, sintetizzato nell’invito: «cercate il regno di Dio e la sua giustizia»;tutte le altre cose, quelle che spesso costituiscono il cuore delle nostre invocazioni, ci «saranno date in sovrappiù». Nell’evangelo troviamo spesso pressanti inviti a chiedere, bussare e persistere qualora capitasse di non essere esauditi o di non vedere come forse lo siamo stati. D’altra parte, sappiamo che, per scorgere l’esaudimento, è richiesta una fede salda, perché il Dio della croce si rivela nel nascondimento; senza nascondimento non sarebbe più fede.
Apparentemente, il testo odierno invita a un abbandono fiducioso al Dio che provvederà a risolvere i nostri problemi. È un tema ricorrente; ma l’atteggiamento è scivoloso perché può ridurre il Signore a una funzione di tappabuchi, secondo la familiare immagine di Bonhoeffer, invocato quando ci sembra di non arrivare da soli dove vorremmo. Infatti, sempre Bonhoeffer, come sappiamo, invita a «vivere davanti e con Dio…come se Dio non ci fosse». Come dire: teniamo presente che il Cristo della Croce deve essere il centro della esistenza umana, ma non è un deus ex machina che gestisce i nostri problemi.
È un Dio inutile, sotto questo aspetto, di cui per i fatti della vita si può fare a meno. È l’immagine che ha sempre terrorizzato l’apologetica religiosa, la quale, temendo che l’uomo sia indotto ad allontanarsi dal Signore se questi non è funzionale ai suoi bisogni e interessi, vuole dimostrare che senza Dio l’esistenza è disperata, e pretende di difendere per Dio uno spazio inteso come presenza tangibile e potente. Un timore che forse sostanzialmente nasconde una mancanza di fede in Dio e nell’uomo. Ma il compito assegnato all’uomo è di collaborare a realizzare il regno e la sua giustizia, operando con le sue sole forze nella prospettiva della dedizione e della responsabilità.
Naturalmente chi si impegna con dedizione per la giustizia, per la pace, per il bene degli altri può vivere le stesse dinamiche di coloro che vivono lo stesso impegno professando una fede in Dio, anche se questi ultimi potrebbero, teoricamente, avere dinamiche particolari, orientate verso la fedeltà al bene comune e verso la ricerca della giustizia.
Seconda domenica ambrosiana dopo la Pentecoste
Il Gallo da leggere                                                    u.b.  
Nel mio nuovo ruolo di direttore del Gallo, il mensile pubblicato a Genova dal 1946 che ha  ispirato anche l’origine di questo nostro foglio, mi piace collegare alla lettura delle pagine milanesi una rapida sintesi dei temi principali su cui, con gli amici della redazione ligure, tessiamo di mese in mese la rivista. Convinto che i due periodici debbano continuare a mantenersi autonomi nei tratti che li caratterizzano, credo anche che una reciproca e complementare conoscenza possa essere di arricchimento per chi legge.
Nel mese di giugno, nella prima sezione, religiosa, si incontra un’analisi del teologo Giampiero Bof sul concetto di ubbidienza che ne illustra aspetti inconsueti; si prosegue con l’interpretazione di Jean Pierre Jossua della prima lettera di Giovanni; mentre, con la terza parte, si conclude, la mia presentazione dell’enciclica Caritas in veritate del regnante papa e Eva Maio legge con riferimenti biblici l’episodio del buon Samaritano raccontato da Luca.
Le pagine centrali, con la consueta presentazione di Germano Beringheli, raccolgono una breve selezione di poesie di Alda Merini.
La successiva sezione di sguardo sul mondo pone al centro la complessa situazione attuale del paese con una modesta proposta di tipo economico di Renzo Bozzo e qualche costruttivo e articolato suggerimento sul problema del lavoro a rischio di Dario Beruto; la precarietà torna anche nel film Tra le nuvole, di Jason Reitman, commentato, come sempre, da Mario Cipolla. Segue una nuova tappa del viaggio in Messico di Luigi Ghia, oltre alle consuete rubriche.
la cartella dei pretesti 
Siamo in un punto buio della notte, ci siamo pure persi la sentinella biblicaa cui chiedere notizie sull'arrivo di una agognata alba, forse ci siamo abituati alle luci artificiali e il tempo dell'attesa (dell'Avvento) si è come impigliato in un orologio da supermarket: una immensa nube tossica di oblio, di indolente distrazione, di colpevoli amnesie, assedia il nostro presente. Se non conosci il passato, il suo ritmo e la sua fatica, rischi di non imparare il confine tra il bene e il male, rischi di non imparare l'arte difficile del discernimento.
NICHI VENDOLA, Caro don Tonino, ho nostalgia di te, La gazzetta del mezzogiorno,      19 aprile 2010.
Lo stato di salute della nostra democrazia mi preoccupa molto. Il mio obiettivo resta sempre quello di tutelare la Carta costituzionale. Bisogna stare sempre con gli occhi aperti. La Costituzione è l’ultimo baluardo, se cade, la democrazia va a farsi benedire. Per questo il male peggiore è stare solo a guardare. Malgrado tutto dico sempre che sono ottimista perché se ciascuno di noi si impegna non passeranno idee e propositi anche solo poco democratici.
OSCAR LUIGI SCALFARO, l'Unità, 29 maggio 2010.
Hanno siglato le rubriche: Ugo Basso, Giorgio Chiaffarino, Franca Colombo, Sandro Fazi
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
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Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 354 è previsto per LUNEDÌ 21 giugno 2010


[1] Ansa, 23 novembre 1999
[2] Ansa, 20 giugno 2008
[3] Mt 5,37
[4] Le citazioni sono della Repubblica del 26.2.10


Marted́ 08 Giugno,2010 Ore: 23:26