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Verso la pace in iraq e con l’Iraq

(parte prima)


di Transnational Foundation

[Ringraziamo Renato Solmi (per contatti: rsolmi@tin.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione (curata per il Centro studi "Sereno Regis" di Torino) il seguente documento della Transnational Foundation for Peace and Future Research (in sigla: Tff) dal titolo "Verso la pace in Iraq e con l’Iraq. Una proposta costruttiva della Transnational Foundation" approvata il 16 agosto 2007 dal Comitato direttivo della prestigiosa fondazione di peace research diretta da Jan Oberg. Pur non condividendone alcuni assunti ci sembra una utile proposta di riflessione.

Jan Oberg (per contatti: oberg@transnational.org), danese, nato nel 1951, illustre cattedratico universitario, e’ uno dei piu’ importanti peace-researcher a livello internazionale e una figura di riflerimento della nonviolenza in cammino; e’ direttore della Transnational Foundation for Peace and Future Research (in sigla: Tff), uno dei punti di riferimento piu’ rilevanti del movimento per la pace a livello internazionale, che ha sede a Lund in Svezia. Tra le sue molte opere: Myth About Our Security, To Develop Security and Secure Development, Winning Peace, e il recente Predictable Fiasco. The Conflict with Iraq and Denmark as an Occupying Power.

Renato Solmi e’ stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico contemporaneo, e’ uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita’ umana, che attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria strumentazione intellettuale; e’ impegnato nel Movimento Nonviolento del Piemonte e della Valle d’Aosta]


Tre sfide poste dalla situazione irachena

Ad eccezione dell’amministrazione Bush e di pochi altri attori politici, si viene delineando un vasto consenso su scala mondiale. L’invasione e l’occupazione militare dell’Iraq sono considerate come un mezzo controproducente in vista del raggiungimento di qualsivoglia scopo pratico (ufficiale o implicito che fosse) possa avere presieduto all’invasione del marzo 2003.

L’Iraq e i suoi cittadini, la regione mediorientale, l’ordine mondiale e la posizione stessa degli Stati Uniti si sono deteriorati sensibilmente in seguito alle politiche fallimentari dei paesi dirigenti del mondo occidentale. Il recente rapporto Come fronteggiare la sfida umanitaria che si pone in Iraq (1) costituisce un forte richiamo dell’urgenza di sviluppare un nuovo ed umano approccio al problema iracheno. E’ urgentemente necessario, pertanto, pensare positivamente e pensare in una prospettiva a lungo termine.

Formulate semplicemente, tre sfide esistenzialmente importanti, di carattere morale, intellettuale e politico, non possono fare a meno di porsi a chiunque si preoccupi del futuro dell’Iraq e di quello del mondo.

1. Come e’ potuto accadere che una politica cosi’ scapestrata, disinformata e mal progettata potesse essere presentata come (e si sia potuto credere che fosse) un esempio di "Realpolitik", e abbia potuto essere anteposta, da parte dei responsabili di questa decisione, ad altre opzioni politiche in vista della promozione di valori come i diritti umani, la democratizzazione, la pace e la giustizia? In breve, quali lezioni si possono apprendere, da questi fatti, circa i limiti dello strumento rappresentato dall’intervento e dal confronto militare come metodi di gestione dei conflitti e strumenti di attuazione della pace nel caso specifico dell’Iraq e in generale? E, avendo appreso tutti quanti un certo numero di lezioni, non possiamo prevenire che si verifichi qualcosa di simile anche in futuro?

2. Dal momento che l’occupazione, in se’ e di per se stessa, ha avuto effetti di gran lunga piu’ distruttivi che costruttivi sull’Iraq odierno e sui suoi cittadini, come si puo’ porre termine all’occupazione quanto prima possibile?

3. Quali nuove politiche finalizzate al conseguimento della pace, alla riconciliazione e alla normalizzazione dei rapporti, possono essere prese in considerazione e messe in atto all’interno dell’Iraq, in tutta la regione circostante e fra il popolo iracheno e le nazioni occupanti? Il "fuoco" di questa proposta dovra’ essere concentrato sul modo di porre termine all’occupazione e di procedere in direzione della riconciliazione degli animi e della normalizzazione. Le visioni di una pace futura costringono tutti a cercare di sviluppare approcci che vadano molto al di la’ del paradigma bellico e interventista e della prospettiva quasi esclusivamente occidentale che dominano attualmente la ricerca internazionale e il mondo dei media.

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Dalle prospettive distruttive a quelle di carattere costruttivo

Una delle principali ragioni per cui le truppe non sono state gia’ ritirate consiste nel fatto che ci sono, oggi come oggi, estremamente poche visioni, e tanto meno piani concreti, che trattino in modo sistematico di cio’ che dovrebbe accadere una volta che gli occupanti abbiano lasciato l’Iraq. Una grande quantita’ di energia intellettuale, di copertura dei media e di opere scritte e’ dedicata a illustrare come tutto vada male e vada storto (e non c’e’ dubbio che le cose stiano effettivamente cosi’), mentre non c’e’ quasi nessuna concentrazione dell’attenzione su cio’ che si potrebbe e si dovrebbe fare nel corso dei prossimi dieci o vent’anni. I conflitti non possono essere risolti, tuttavia, senza che si abbia una qualche veduta o proiezione di un futuro migliore. Dal 2003 in poi, i movimenti internazionali per la pace si sono impegnati a fondo contro la guerra, ma hanno avuto - sorprendentemente - ben poco da dire su cio’ che avrebbe dovuto subentrare all’occupazione e prenderne il posto. Cio’ li rende importanti come movimenti contro la guerra, ma, in larga misura, sterili e fallimentari come movimenti per la pace.

Finche’ la prospettiva generale e’ cosi’ prevalente e pervasiva, si puo’ formulare con certezza l’ipotesi che non ci sara’ nessun ritiro delle truppe o che si verra’ a determinare una situazione ancora peggiore dopo un ritiro di questo genere. La continuazione dell’occupazione fino almeno al 2009 costituisce un’opzione verosimile secondo il "Joint Campaign Plan" (2). Non fare altro che ritirarsi e non offrire agli Iracheni nulla di meglio dopo avere scaricato questo disastro senza precedenti sulle loro vite e sulla loro societa’ sarebbe una scelta indifendibile, per non dire immorale. L’Iraq ha bisogno di guarire nel senso piu’ ampio e piu’ profondo del termine.

Il ritiro delle truppe e delle basi straniere e’ solo un primo passo in una serie di operazioni intese a favorire il progresso verso la pace e la riconciliazione in tutto il paese.

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Perche’ i fautori dell’occupazione possono ancora avere la meglio

Il dibattito generale in merito e’, fino a questo momento, altrettanto deficiente. Argomentazioni vengono sviluppate da molti e diversi attori nel senso che gli americani e i loro pochi alleati rimasti dovrebbero ritirarsi; dopo di che ha luogo uno scambio di vedute contrastanti fra editorialisti, esperti e diplomatici sul problema se l’Iraq, a quel punto, andra’ in pezzi o sara’ in grado di riprendersi. Pochi sembrano riconoscere e prendere coscienza del fatto che la risposta a questa domanda non possa essere che la seguente: il futuro dell’Iraq non dipendera’ solo dagli effetti della ritirata in se stessa, ma, in misura molto maggiore, dal modo in cui decideremo di cooperare con l’Iraq e coi suoi cittadini.

La ragione principale per cui gli iracheni si uccidono fra loro oggi e’ l’occupazione a cui sono sottoposti. Cio’ non significa, pero’, che tutto questo finira’ una volta che l’occupazione sara’ stata tolta. Se offriremo qualcosa di completamente nuovo, qualcosa di costruttivo e che sia veramente in grado di promuovere e di sviluppare un processo di pace e di riconciliazione, il rischio di sprofondare in un caos totale e in una guerra civile permanente sara’ considerevolmente limitato.

Nel corso dell’estate 2007 si assiste a un’ondata di articoli intorno al fatto che diversi iracheni (per lo piu’ appartenenti all’elite) mostrano di nutrire un timore sempre crescente del giorno in cui i soldati americani torneranno in patria. Cionondimeno una larga maggioranza di resoconti e rassegne di testimoni oculari mostrano che la maggior parte degli iracheni danno l’impressione di ritenere che la situazione che si e’ venuta a creare a partire dal marzo 2003 e’ nettamente peggiore di quella esistente sotto il regime di Saddam Hussein e che essi non vedono alcuna luce in fondo alla galleria per tutto il tempo in cui gli occupanti rimarranno sul posto. L’ondata di articoli favorevoli all’occupazione fa parte di una piu’ vasta offensiva degli strumenti di opinione intesa a provare che non c’e’ nessuna alternativa "viabile" (e cioe’ effettivamente percorribile) alla continuazione della presenza Usa nel paese. Se si consente a questo muro di disinformazione di restare intatto, i sostenitori della necessita’ di continuare l’occupazione avranno partita vinta nella discussione che si svolge sui media.

Non e’ probabile che il ritiro si verifichi finche’ un numero molto maggiore di cittadini in tutto il mondo non potra’ scorgere alternative concrete all’occupazione. Elise Boulding, la grande "old lady" delle ricerche sulla pace, ha affermato, in maniera molto eloquente, che difficilmente la gente puo’ essere disposta a battersi per cio’ che non puo’ visualizzare concretamente. Cio’ che possiamo "vedere", oggi, e’ l’occupazione e i suoi terribili effetti. Di qui l’impegno dei cittadini nel denunciare questo stato di cose [Che non e’, pero’, in grado di spingersi piu’ in la’ - ndt].

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Cio’ che occorre e’ l’inizio di un dialogo, e non una politica che consista nel ritirarsi e basta

La politica peggiore e piu’ pericolosa, a questo punto, e’ una politica che si risolva nel "ritirarsi e dimenticare". L’invasione e l’occupazione permanente sono un disastro politico, intellettuale e morale. Una politica che lasci l’Iraq al suo destino senza alcuna riparazione di guerra, senza nessuna forma di aiuto, senza alcuna possibilita’ di guarigione sociopolitica, e cosi’ via, avrebbe, a sua volta, effetti altrettanto nefasti (3).

Un’opzione politica di questo genere puo’ diventare piu’ attraente man mano che il "pantano" afghano si aggrava e si approfondisce e che la questione iraniana e forse anche la situazione nel Darfur distolgono l’attenzione internazionale dalle vicende irachene.

Il minimo che la comunita’ internazionale in generale e le nazioni occupanti in particolare debbono fare e’ sobbarcarsi all’impegno di dar forma a una politica tale da essere in grado di convincere il popolo iracheno che essa (la comunita’ internazionale) assume tutte le responsabilita’ delle azioni a cui ha dato luogo e segnala, con la sua condotta, una disponibilita’ precisa e determinata a riparare e compensare i danni e i guasti che ha provocato. La pace e la riconciliazione non possono essere imposte, quali che siano le buone intenzioni retrostanti. Il modo migliore di operare in questo senso puo’ essere deciso solo attraverso il dialogo con gli iracheni a molti livelli, quelli del governo e della societa’ civile, come pure quello dei vari partiti presenti nella regione. Un invito dall’esterno e alcune idee di larghe vedute per un dialogo di questo genere possono servire, di per se stessi, come un gesto molto opportuno di riconciliazione nei confronti degli iracheni e di altri.

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Il progetto piu’ rilevante e piu’ visionario che sia stato elaborato fino ad oggi e’ americano

Un certo numero di tentativi politici di elaborare un futuro (e cioe’ un piano d’azione) che permetta di uscire dal disastro iracheno hanno gia’ avuto luogo. Essi variano in termini di scopi, del grado di cosiddetto realismo di cui danno prova, di prospettive temporali e di creativita’. Il piano che ha attratto maggiormente l’attenzione dei media e’ l’Iraq Study Group. Il gruppo in questione ha cercato di realizzare un equilibrio fra l’esigenza di salvare la faccia agli Stati Uniti e quella di migliorare la situazione nella regione. Esso era poco di piu’ che un piano del governo statunitense dall’apparenza meno "falchesca" ("hawkish") degli altri. Nonostante la pratica ufficialmente adottata e frequentemente ribadita di avere una politica comune nel campo della difesa e della sicurezza, i membri dell’Unione Europea sono stati divisi sulla questione irachena durante gli anni delle sanzioni e poi sempre da quando la Germania e la Francia si sono rifiutate di avallare e di condividere l’invasione guidata dagli Usa nel 2003.

E’ interessante osservare che gli occupanti non avevano la minima idea di cio’ che avrebbero dovuto fare dopo la loro invasione, mentre la Francia e la Germania, a loro volta, non avevano la minima idea di quella che avrebbe potuto essere un’alternativa all’invasione stessa. Ne’, d’altra parte, la Russia, la Cina, il Segretario Generale dell’Onu e nessun altro soggetto politico hanno avanzato idee o visioni complessive, per non parlare di piani d’azione concreti, che potessero promuovere e dare luogo a un dibattito internazionale su questo tema, e cioe’ sul progetto piu’ importante di costruzione o di mantenimento della pace a cui la comunita’ internazionale si trovasse di fronte.

E’ interessante, d’altra parte, che il piano di gran lunga piu’ soddisfacente dal punto di vista intellettuale e che apre le prospettive piu’ lungimiranti sia stato sviluppato dal membro del Congresso Dennis Kucinich, rappresentante democratico dell’Ohio, e presentato alla Camera dei Rappresentanti il 18 febbraio 2007 - H.R. 1234: Porre termine immediatamente all’occupazione statunitense dell’Iraq. Esso si e’ sviluppato sulla scia del Piano in 12 punti per la pace in Iraq dello stesso Kucinich (4).

Cio’ che forse non suscitera’ nessuna sorpresa, questo candidato presidenziale di orientamento pacifista alle elezioni del 2008, figlio di un camionista americano di origine croata ed ex-sindaco di Cleveland, riceve scarsa attenzione negli Stati Uniti ed e’ praticamente sconosciuto in Europa (5).

Criteri fondamentali minimi di un progetto di pace a lungo termine

Ogni programma politico per il futuro dell’Iraq deve soddisfare ad un certo numero di condizioni come le seguenti:

1. Essere conforme al diritto internazionale, incluso il fatto che ne’ i dittatori ne’ le persone sospettate di aver commesso crimini di guerra potranno sfuggire per sempre alle mani della giustizia.

2. Includere una prospettiva piu’ ampia sull’Iraq come parte e componente della formazione conflittuale del Medio Oriente nel suo complesso.

3. Porre al centro delle sue preoccupazioni gli esseri umani: il rispetto, la dignita’, l’equita’, la riconciliazione, i bisogni umani - e alleviare la paura.

4. Promuovere una sostanziale smilitarizzazione dell’Iraq, della regione circostante e della presenza internazionale.

5. Essere l’espressione di un autentico ethos associativo e partecipativo, di imparzialita’ e di buona volonta’, e convincere in tal modo gli Iracheni che questa non e’ l’occupazione che ritorna in forma mascherata.

6. Manifestare chiaramente questa determinazione, questa disposizione a dedicare risorse e a continuare ad essere d’aiuto per tutto il tempo che sara’ necessario per convincere realmente gli Iracheni del fatto che stiamo facendo qualcosa nel loro interesse, e non a nostro vantaggio.

7. Porre le basi di un dialogo con tutte le parti, compresi i vari gruppi di resistenza, e coinvolgere sul serio la societa’ civile in negoziati effettivi.

8. Rispettare l’integrita’ territoriale e la sovranita’ politica del paese, compreso il suo diritto di per se’ evidente a un controllo esclusivo del reddito petrolifero presente e futuro.

9. Ci deve essere una piena compatibilita’ di tutte queste misure col quadro normativo della Carta dell’Onu e con un impegno internazionale piu’ ampio a realizzare la pace con mezzi pacifici in tutta l’area del Medio Oriente (6). 10. Un’interpretazione della Carta dei Diritti Umani e di altre disposizioni legislative che permettano di investigare fino in fondo sia i crimini commessi dal regime di Saddam Hussein che quelli perpetrati dalla comunita’ internazionale, comprese le violazioni dei diritti umani causate da dodici anni di sanzioni economiche (dal 1991 al 2003).

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Il programma in dieci punti della Tff per la pace nell’Iraq e con l’Iraq

Questo progetto si avvale deliberatamente di termini come democrazia, pace e riconciliazione. Esso fa anche riferimento al "governo" iracheno. Siamo dolorosamente consapevoli del fatto che la maggioranza degli iracheni percepisce parole come questa come oggetti di un abuso grossolano da parte delle potenze occidentali e il presente governo dell’Iraq come un governo "fantoccio". Cionondimeno, noi riteniamo che queste parole possano e debbano essere usate in un senso genuino e che l’espressione "governo" si debba riferire e un corpo eletto da e per tutto il popolo iracheno.

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1. Ritirare le truppe straniere, i mercenari e le basi e porre termine all’occupazione

Prima dell’occupazione l’Iraq non ospitava e non era influenzato da Al-Qaeda o da altre organizzazioni terroristiche. La presenza attuale di movimenti terroristici e di altre forze resistenti all’occupazione e’ in gran parte un effetto dell’invasione e della presenza americana in Iraq a partire dal marzo 2003. Manovrando i vari gruppi gli uni contro gli altri, le potenze occupanti hanno determinato il sorgere di una situazione di guerra civile che non e’ storicamente tipica dell’Iraq e che non era prevedibile al momento dell’invasione. Fra i musulmani sunniti e sciiti non c’era, semplicemente, un’animosita’ tale da far si’ che i conflitti e le violenze di oggi potessero emergere e venire alla luce senza l’occupazione. Via via che l’occupazione continua molti danni e molte ferite sono stati inflitti da iracheni ad altri iracheni: ed e’ probabile che tutto cio’ richiedera’ un tempo considerevole per rimarginarsi e guarire. La situazione che si e’ venuta a creare, inoltre, ha attirato nel paese molte specie di elementi criminali di origine non irachena, che non e’ probabile che si ritirino di punto in bianco nelle localita’ da cui sono venuti. Per quanto serio e preoccupante tutto cio’ possa essere, c’e’ - tutto sommato ’ maggior ragione di credere che il ritiro delle truppe straniere finira’ per condurre a una diminuzione piuttosto che a un incremento ulteriore delle violenze, specialmente se si avra’ cura di prendere una serie di misure parallele man mano che il ritiro procedera’.

Gli iracheni sono anzitutto iracheni e si identificano con altre categorie solo in seconda istanza. La storia dell’Iraq e’ costellata da manifestazioni di violenza politica, colpi di stato ecc., ma essi (gli iracheni) non hanno mai combattuto una guerra civile in senso proprio.

Molto, tuttavia, dipendera’ dal modo in cui la transizione dall’occupazione a una nuova missione internazionale sara’ organizzata e posta in atto. Perche’ le basi straniere ed i contraenti militari privati (i famosi "contractors") devono essere ritirati anch’essi a loro volta? Anzitutto perche’ essi (ed esse) sono la manifestazione fisica, se si puo’ dir cosi’, della presenza americana e dell’interesse americano per il petrolio. In secondo luogo, esse (ed essi) sarebbero oggetto, con ogni probabilita’, di attentati terroristici e sarebbero considerati dai vicini come fattori di provocazione. In terzo luogo, esse (ed essi) furono stabiliti precocemente (e cioe’ fin dall’inizio) come parti integranti dell’occupazione. Infine, e’ ben vero che esse (ed essi) possano essere percepiti come elementi approvati ed avallati dal governo iracheno attuale, ma continua ad essere, tuttavia, seriamente discusso e controverso il problema di quanti iracheni considerino il governo attuale come alcunche’ di diverso da una marionetta al servizio degli Stati Uniti.

Finalmente, c’e’ ancora qualcos’altro che deve essere ritirato dal territorio iracheno: pezzi di artiglieria, mine, uranio impoverito ed altri prodotti militari di scarto. Oggi l’Iraq e’ letteralmente disseminato di decenni di relitti militari di questo genere. Le truppe di occupazione hanno contaminato il paese in misura tale da dare luogo a un bisogno primario di pulizia di prodotti militari di scarto, ivi compresi seri sforzi di pulizia dopo l’impiego di proiettili ad uranio impoverito e dopo le massicce distruzioni causate da perdite di petrolio e da altri fenomeni analoghi in aree come quella, di valore storico inestimabile, dell’antica citta’ di Babilonia.

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2. Rispettare la sovranita’ e l’integrita’ territoriale dell’Iraq e ridimensionare il ruolo dell’ambasciata americana

Ci sono troppe percezioni semplificatrici della struttura demografica dello stato iracheno: una di esse e’ che ci siano fondamentalmente tre gruppi, e che i curdi risiedano al Nord, i sunniti al centro e gli sciiti al Sud. Vedute di questo genere, fattualmente scorrette, hanno indotto molti a prendere in considerazione la possibilita’ di dividere l’Iraq. Una proposta in questo senso e’ quella associata alla Brookings Institution di una "spartizione morbida" (7).

Il contributo internazionale al risanamento dell’Iraq nel futuro deve mirare, in primo luogo, a risanare l’Iraq come una realta’ unitaria, e non come tre realta’ distinte e separate. Se la divisione arriva (e sarebbe un processo difficile e difficilmente "morbido"), toccherebbe agli Iracheni decidere ed accordarsi in merito. Data la presenza di complessita’ che somigliano, in misura stupefacente, a quelle della ex-Jugoslavia, e’ probabile che nessun genere di divisione non negoziata potrebbe svolgersi in modo pacifico (8).

Molti osservatori bene informati vedono nell’ambasciata americana il rettore di fatto dell’Iraq odierno. E’ la piu’ grande che abbia mai visto la luce in nessun posto nel corso della storia umana: ha la stessa superficie in metri quadri della Citta’ del Vaticano, costa circa 600 milioni di dollari all’anno ed e’ stata progettata per ospitare uno staff di 4.000 persone di cui circa la meta’ faranno parte dei servizi di sicurezza e di "intelligence". Anche se il governo iracheno puo’ certamente usufruire di una qualche liberta’ nello svolgimento delle sue operazioni, si puo’ tuttavia escludere che esso possa prendere decisioni importanti suscettibili di contrastare gli interessi fondamentali e a lungo termine di Washington sia nel campo strategico che in quello economico (e cioe’ in tutti i settori di carattere decisivo) (9).

Fortunatamente alcuni politici di Washington hanno criticato l’Ambasciata e cio’ che essa rappresenta, facendo eco a questa dichiarazione pubblicata sul "Los Angeles Times": "Essi non hanno intenzione di lasciare l’Iraq per un lungo periodo di tempo", ha detto Hashim Hamad Ali, un altro membro del servizio di guardia, che ha definito il tutto "un simbolo di oppressione e di ingiustizia".

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3. Istituire una missione internazionale incaricata di costruire la pace nell’Iraq sotto la direzione delle Nazioni Unite

Questa non dovrebbe essere e non sara’ "solo un’altra missione dell’Onu". Sara’ di un genere fondamentalmente nuovo e rappresentativo di tutta la comunita’ mondiale - non dei pochi capi di governo occidentali che fanno riferimento a se stessi come alla "comunita’ internazionale" - che dovrebbe associarsi in un rapporto rispettoso di partenariato col popolo iracheno e con un nuovo governo da esso democraticamente espresso. Le condizioni fondamentali dovrebbero includere:

3.1. Una missione su base molto larga con associati come, per esempio, la Lega Araba, l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), l’Unione Europea, l’Oic (Organizzazione della Conferenza Islamica), l’Unione Africana, il Gcc (Consiglio delle Societa’ del Golfo), Organizzazioni non governative provenienti da tutte le parti del mondo.

3.2. Composizione: il 15% di robusti contingenti militari sotto il comando Onu come stipulato nella Carta + il 25% di polizia + il 60% di addetti agli affari civili e ad altre questioni di carattere sociale e umanitario; complessivamente forse almeno 100.000 persone.

3.3. Nessun personale militare proveniente dai paesi che hanno svolto il ruolo di occupanti.

3.4. Una bassa percentuale di quadri ("staff") provenienti dalla parte cristiano-occidentale del mondo.

3.5. Un mandato chiaro e comprensivo (che non lasci spazio a nessuna incertezza).

3.6. Finanziamenti assicurati per almeno cinque anni all’inizio.

3.7. L’Onu in una posizione di controllo effettivo nei confronti di tutti i suoi partner, influenza limitata di ogni singolo stato membro.

Non c’e’ dubbio che questa sara’ la missione allargata dell’Onu (Onu +) piu’ vasta che abbia mai avuto luogo fino ad oggi. Essa deve essere abbastanza grande e strutturata in modi tali da poter svolgere il suo lavoro, ma non deve essere cosi’ grande da far sentire agli iracheni che si tratti di una nuova forma di occupazione.

Questo nuovo modo di pensare e’ modellato dalla convinzione che le sanzioni economiche degli anni ’90, la dittatura, le guerre che avevano avuto luogo in precedenza, e, infine, l’invasione e l’occupazione, hanno dato luogo, nel loro insieme, a una distruzione storicamente unica delle vite e del benessere dei cittadini e delle cittadine dell’Iraq e delle loro prospettive per il futuro.

La missione, percio’, si concentra prevalentemente sulle dimensioni umane, psicosociologiche, culturali e in generale "piu’ morbide" ("softer") del conflitto, della guerra e del terrore che l’accompagna. Essa dovrebbe implicare riconciliazione e disposizione al perdono, risanamento umano, rigenerazione dei rapporti di vicinato, impegno nel campo della scuola e della salute, cure di carattere psichiatrico - il paese ha centinaia di migliaia di persone clinicamente traumatizzate, bambini e giovani in particolare - e rafforzare il peso e l’autorita’ civile in generale. Una missione Onu di questo genere dovrebbe proporsi di stabilire un nuovo equilibrio fra i "pesi leggeri" rappresentati in generale dagli elementi orientati verso il popolo, verso la gente, e i "pesi medi o massimi" della missione di tipo tradizionale, come i militari, l’apparato giudiziario, la creazione di nuove istituzioni, la ricostruzione materiale, i crediti e altre dimensioni di carattere fisico.

La filosofia che dovrebbe presiedere a tutto cio’ e’ semplice: la violenza scaturisce dal timore, dall’odio, dai conflitti irrisolti, dall’umiliazione e dal fatto di non trovare ascolto da nessuna parte.

Come si e’ potuto vedere in dozzine di altri conflitti armati prolungati, per esempio in Palestina, in Afghanistan, nell’Angola, a Timor Est, nella ex-Jugoslavia e in Columbia, se queste radici umane che sono causa di violenza non sono affrontate e fronteggiate in modo adeguato, ci sono poche possibilita’ che gli elementi "pesanti" della missione possano riuscire nei loro compiti.

Tutti i 26 milioni (valutazione approssimativa) di cittadini iracheni stanno soffrendo su una scala mai finora sperimentata nei tempi moderni. In data 2007, circa 2 milioni sono Rifugiati interni ("displaced persons") del paese e oltre 2 milioni sono fuggiti all’estero, per la maggior parte in Siria e in Giordania. Ci sono, pertanto, buoni motivi di ritenere che ogni futura missione debba mirare, in primo luogo, a un risanamento umano e sociale, da realizzare attraverso la cooperazione, il rispetto, e la solidarieta’ con la gente. Ed e’ chiaro che essa deve incarnare i valori che intende promuovere nella sua struttura e nei suoi codici di condotta.

La missione internazionale suggerita qui e’ "pesante" dal lato civile (e cioe’ inclinata prevalentemente in questa direzione) perche’ bisogna sempre tenere in mente che l’Iraq ha perso non solo una, ma due generazioni successive in termini di educazione, salute e benessere ("welfare") e ha perso la sua imponente "middle class" a causa delle uccisioni, inclusi gli assassinii pianificati, le sanzioni imposte dall’esterno e il drenaggio dei cervelli verso l’estero.

Le sanzioni economiche hanno avuto come risultato il fatto che ci sono attualmente un milione di iracheni in meno di quanto sarebbe il caso senza di esse; mentre la guerra e il suo "aftermath" sono costati, fino ad oggi, altre centinaia di migliaia di vite. Le guerre con l’Iran e con il Kuwait che l’hanno preceduta hanno causato perdite umane innumerevoli e un’ulteriore distruzione della societa’ e dei suoi potenziali di energia.

Circa la meta’ dei cittadini iracheni sono bambini e giovani al di sotto dei 16 anni. Percio’ la rigenerazione dell’Iraq deve concentrarsi con la massima energia sull’obbiettivo di rafforzare e potenziare la gioventu’ e di metterla in condizione di affrontare tutti i suoi compiti, sulla ricostruzione delle istituzioni educative come pure sul risanamento psicosociologico, mentale e fisico all’interno dell’Iraq.

Ma sforzi speciali debbono essere dedicati al compito di dare alla gioventu’ irachena l’accesso piu’ rapido possibile all’educazione all’interno del paese o all’estero. Scuole e universita’ all’estero dovrebbero farsi avanti con borse di studio e altre forme di sostegno, assicurando peraltro, nello stesso tempo, che gli iracheni possano effettivamente ritornare in patria al termine della loro educazione e del loro addestramento.

Finalmente, una nuova missione di questo genere dovrebbe consigliare e assistere il governo iracheno in molte questioni urgenti, per esempio nel compito di creare due nuovi corpi statutari con finanziamenti autonomi e comitati direttivi indipendenti: a) un consiglio per la ricostruzione e per lo sviluppo diretto da professionisti e da tecnocrati iracheni e che possa usufruire del sostegno di esperti presenti nella missione o in organismi internazionali importanti; e b) un consiglio di sicurezza nazionale che sovrintenda e coordini le misure relative alla difesa, agli affari interni, all’"intelligence" e alla sicurezza nazionale.

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4. Cancellare tutto il debito iracheno

Il 23 luglio 2007 e’ stato annunciato che 45 stati avevano deciso di cancellare i 140 miliardi di dollari Usa del debito iracheno (10). Secondo alcune fonti cio’ equivarrebbe a una completa estinzione del debito, dal momento che il debito complessivo del paese era stato valutato a circa 130 miliardi nel 2003. Poiche’ la grande maggioranza di esso era costituita dal cosiddetto "debito odioso" creato dal governo iracheno prima dell’invasione senza il consenso del popolo, e’ solo giusto che "il popolo iracheno non debba pagare la bolletta di Saddam", come l’Iraqi Jubilee Now si esprime efficacemente sul suo sito web. Questo condono del debito andra’ a vantaggio della gente in primo luogo, ma anche di tutta la regione nel suo complesso, in quanto permettera’ una ripresa economica piu’ rapida dell’Iraq globalmente inteso (11).

Un progetto complessivo di pace dovra’ garantire che questi 45 paesi diano effettivamente esecuzione ai loro impegni nel prossimo futuro.

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Note

1. Vedi www.oxfam.org.uk/what_we_do/issues/conflict_disasters/bp105_iraq.htm

2. Lo rivela la "International Herald Tribune" del 24 luglio 2007.

3. Questa opzione moralmente dubbia e’ stata scelta da diversi paesi che si sono ritirati, per esempio dalla Danimarca, le cui truppe sono state ritirate in larga misura nell’agosto 2007.

4. Vedi il Piano in 12 punti di Kucinich in www2.kucinich.us/iraqplan e il Piano per porre termine all’occupazione in www.govtrack.us/congress/billtext.xpd?bill=h110-1234

5. A differenza di molti altri che hanno parlato della necessita’ di cambiare politica in Iraq, Kucinich non ha votato per la guerra fin dall’inizio. Egli ha propugnato una politica di pace al posto di una strategia di bombardamenti nei Balcani (Serbia, Bosnia e Kossovo), ha elaborato una proposta complessiva per l’instaurazione di un Dipartimento della Pace e sostiene attualmente la messa in stato d’accusa ("indictment") del Presidente George W. Bush e del Vicepresidente Dick Cheney. Inoltre si e’ schierato contro l’ondata generale e il finanziamento estensivo della guerra in Iraq e ha perorato a favore della revoca delle sanzioni economiche per tutto il corso degli anni Novanta. Kucinich si profila come il solo politico americano di alto livello i cui valori direttivi e le cui proposte politiche concrete abbracciano la nonviolenza, i metodi genuini di soluzione concordata dei conflitti e di riconciliazione finale fra le parti. Ci dice forse di piu’ dello stato attuale del mondo che di lui, nei tempi oscuri in cui ci troviamo a vivere, il fatto che egli sia relegato al margine della vita politica e conduca una campagna di stretta economia in compagnia di migliaia di volontari e col sostegno della moglie Elizabeth, inglese di nascita, che detiene una laurea (Master of Arts) acquisita nel ramo "Risoluzione pacifica dei conflitti". Ci sono altre notizie su di lui nel sito http://kucinich.house.gov , questa e’ la sua "homepage" ufficiale www2.kucinich.us/ e altre notizie si possono trovare su di lui e sua moglie su Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Dennis_Kucinich#Personal_details

6. Vedi per esempio la Lettera aperta della Tff al Segretario Generale delle Nazioni Unite: www.transnational.org/Resources_Treasures/2007/OpenLetterKi-moon.html

7. Cfr. il suo sito web www.brookings.edu/fp/saban/analysis/june2007iraq_partition.htm

8. Cfr. Jan Oberg, Former Yugoslavia and Iraq: a comparative analysis of international conflict mismanagement, in Charles Webel and Johan Galtung (ed), Handbook of Peace, and Conflict Studies, Routledge, London 2007.

9. Ulteriori notizie sui piani dell’ambasciata nel "Los Angeles Times" del 24 luglio 2007 www.latimes.com/news/nationworld/world/la-fgembassy24jul24,0,7085179.story?c oll=la-home-center e in "Think Progress" del 29 maggio 2007 http://thinkprogress.org/2007/05/29/photos-embassy-iraq/. Tuttavia, i disegni citati dell’impresa architettonica che si occupa dell’ambasciata non si trovano piu’ sul suo sito web.

10. La cancellazione del debito e’ annunciata in www.iraqdirectory.com/DisplayNews.aspx?id=414

11. Ulteriori notizie sul debito iracheno in www.cfr.org/publication/7796/#24.

(Parte prima - segue)

Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

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http://lists.peacelink.it/

Numero 231 del 3 ottobre 2007



Giovedì, 04 ottobre 2007