Ecco perchè siamo in Afghanistan
AFGHANISTAN: La guerra per l’oppio

di Enrico Piovesana su Peace Reporter n. 1/2007

Riceviamo da don Aldo Antonelli questo articolo di Enrico Piovesana pubblicato sul primo numero a stampa della rivista telematica Peace Reporter. Articolo da meditare attentamente e da usare per iniziative contro la nostra presenza in Afghanistan.
Se qualcuno vuole abbonarsi a partire da settembre alla versione cartacea di Peace Reporter può farlo versando 30 euro sul c.c.postale n. 000064866734 ABI 07601 CAB 01600 intestato a Dieci Dicembre soc.coop.a r.l. causale: abbonamento PeaceReporter


Lashkargah, profondo sud dell’Afghanistan, primavera 2001. Le acque del fiume Helmand, che serpeggia lento e sinuoso attraverso il Dasht­e-Margo, il Deserto della Morte, danno vita e fertilità a una terra altri­menti arida.
Nell’aria calda e polverosa della città, il profumo degli alberi di mandarino in fiore si mescola all’odore acre di carne bruciata dei cadaveri straziati e car­bonizzati dall’esplosione dell’ennesimo uomo-bomba saltato in aria in cen­tro.
Nella notte tiepida e illuminata dalla luna, il dolce canto dei grilli fa da sot­tofondo al rumore degli elicotteri da guerra e dei jet militari che volano senza sosta, carichi di missili e bombe che sganceranno sui villaggi controllati dai talebani. Missili e bombe che uccidono centinaia di civili, come testimoniano i feriti che arrivano nell’ospedale di Emergency a Lashkargah. Ma nessuno lo dice, perché dall’anno scorso il governo afgano - di concerto con la Nato - ha imposto la censura più completa su qualsiasi notizia che possa ingene­rare sentimenti “contrari alle forze internazionali presenti nel paese”.
Forze che a Lashkargah non si vedono più: hanno paura. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi mesi fa, oggi è impossibile incrociare per le polverose strade della città i Land Rover dell’esercito britannico - questa è zona loro: se ne stanno chiusi nella loro base-fortezza, il Prt di Lashkargah. Muoversi in convoglio per il centro abitato sarebbe un suicidio: la gente qui odia i militari stranieri, e i talebani ormai sono presenti ovunque e colpisco­no ovunque. In giro ci sono solo soldati e poliziotti afgani armati fino ai denti, oltre ai contadini e ai primi braccianti stagionali che da tutto il paese stanno affluendo per il raccolto qui in Helmand, dove si produce la metà di tutto l’op­pio afgano.
Nei campi fuori città, i papaveri da oppio sono sfioriti e quasi pronti per esse­re incisi. Quest’anno si prevede un raccolto che straccerà ogni record storico. Le abbondanti piogge primaverili, del tutto eccezionali per questa regio­ne arida, dovrebbero garantire una produttività mai vista prima, sfondando addirittura il tetto dei cento chili di oppio per ettaro, il doppio della norma. Questo, ovviamente, ha fatto scendere di molto il prezzo di mercato del tariak, l’oppio grezzo, quotato a 80-90 dollari al chilo. Meno degli anni pas­sati - quando l’oppio rendeva 100-120 dollari al chilo - ma sempre molto più di quanto renderebbero altre colture come il riso, il grano o il mais, ancora fortemente deprezzate a causa dell’imbattibile concorrenza delle forniture gratuite del World Food Programme che negli ultimi anni hanno inondato il mercato afgano. Per questa gente l’oppio è l’unica possibile fonte di sussi­stenza. Vista la mancanza di alternative, senza l’oppio morirebbero di fame. Per questo sono pronti a difendere i loro campi, anche con le armi, anche a costo della loro vita. Sono già decine i contadini uccisi quest’anno dalla poli­zia afgana impiegata nella campagna antidroga del governo Karzai, soste­nuta dai quattrini della comunità internazionale. Ma anche questi fatti ven­gono tenuti nascosti, o camuffati: i contadini uccisi diventano, da morti, tale­bani.
Già, la campagna antidroga: un programma fantasma, che in cinque anni non ha dato nessun risultato. La produzione dell’oppio in Afghanistan non è mai stata florida come sotto il governo Karzai. L’anno scorso nel paese c’erano 165 mila ettari di terreno coltivati a oppio e quest’anno sfioreranno i 180 mila ettari, vale a dire il doppio rispetto ai 91 mila ettari coltivati del 1999, l’anno del record storico sotto il regime talebano, quando vennero prodotte 4.600 tonnellate di oppio. Quest’anno il raccolto previsto è di settemila tonnellate. Le strade delle città europee sono inondate di eroina “made in Afghanistan” molto più oggi (il novantadue percento della produzione mondiale) di quando a produrla c’erano i mullah con turbante e barba lunga (il quaranta percento).
Come spiegare un simile fallimento nel conseguire un obiettivo che fin dall’inizio dal 2001 era stato presentato come una delle ragioni per cui bisognava abbattere il regime talebano? Un obiettivo tanto più impor­tante in quanto - lo sapevano tutti - il rifiorire dell’oppio sarebbe stato usato dai talebani per finanziare la loro riscossa, com’è puntualmente accaduto. La risposta a questa domanda la iniziamo a trovare alla periferia di Lashkargah, all’ombra di un grande cartellone che pubblicizza i raid antiop­pio delle ruspe governative. Qui incontriamo Faizullah e Nur, due coltivatori amici di amici di amici che hanno acconsentito a raccontarci cose che non si dovrebbero dire a nessuno, tanto meno a uno straniero.
“Voi credete che il governo venga a distruggere i raccolti. Invece viene a rubarli”, afferma il barbuto afgano lasciandoci a dir poco perplessi “Vedete quei camion laggiù?”, dice indicando una lunga fila di mezzi parcheggiati ai margini della città. “Sono quelli sui quali il governo caricherà papaveri tagliati dalle ruspe, per poi portarli a Kabul dove tutto dovrebbe essere bruciato in grandi falò. Ma li avete mai visti questi falò?”, domanda Faizullah facendo la faccia di chi la sa lunga. “Dovrebbero farli davanti alle telecamere, dando alla cosa la massima pubblicità, non vi pare? Invece dicono che fanno tutto di nascosto, per motivi di sicurezza. La verità è che l’oppio viene portato nelle raffinerie del governo, trasformato in eroi­na, e poi smerciato all’estero. Altro che campagna antidroga!”.
Interviene il suo amico, Nur, il quale ci invita a riflettere su un semplice fatto. “Secondo voi, per quale ragione il governo decide di ’distruggere’ i campi di papavero proprio in coincidenza con il raccolto? Perché aspetta che i papaveri siano pronti? Se lo scopo fosse veramente quello di distrug­gere i raccolti, il governo potrebbe mandare le ruspe prima, quando i papa­veri sono ancora bassi. Invece aspetta la maturazione delle piante, per raccoglierle, non per distruggerle! Vi siete mai chiesti perché il governo si è sempre opposto all’uso degli aerei per distruggere i campi con i defo­glianti? Credete forse che, come dicono loro, vogliano tutelare la salute dei contadini? A spararci addosso però non si fanno problemi!”.
Dopo la chiacchierata con Faizullah, decidia­mo di approfondire l’argomento. Parliamo con altre persone di Lashkargah, altri colti­vatori di papavero. Tutti confermano: il governo di Kabul finge di lottare contro il narcotraffico, ma in realtà sta semplicemente cercando di imporre una sorta di “monopolio di Stato” su questo lucroso business, colpendo solo i produttori di oppio “anti­governativi”, quelli che non si adeguano o che, peg­gio, sfidano le autorità.
“Chi come me ha un campo di oppio - spiega Gulam, proprietario di una piccola piantagione appena fuori città - ha due spese principali, che sostiene in oppio o in denaro: pagare la manodope­ra stagionale necessaria per il raccolto lasciando ai braccianti una parte dell’oppio da essi raccolto, e pagare il governo per mettere al riparo il campo dalle ruspe e dalle irruzioni della polizia. Chi non paga questa tassa, o peg­gio paga il pizzo ai talebani, rischia che il suo raccolto finisca razziato dal governo”.
Insomma: il governo di Kabul si impossessa dell’oppio o “prelevandolo” con questo sistema di tassazione feudale clandestina, o rubandolo con la forza a coloro che non si adeguano, agendo dietro la copertura della cam­pagna antidroga.
Che fine faccia l’oppio che arriva a Kabul a bordo dei camion mostratici da Faizullah ce lo spiega Sayed, che ha un fratello che lavora per il governo nella capitale. A suo dire, fino a un paio di anni fa, quell’oppio veniva tra­sportato direttamente all’estero, soprattutto in Iran e Tagikistan, dove c’e­rano le raffinerie in cui veniva trasformato in eroina da inviare in Europa. “Poi il governo - spiega Sayed - ha capito che conveniva costruire raffi­nerie qui in Afghanistan, così da smerciare all’estero direttamente il pro­dotto finito, l’eroina. Con dieci chili di oppio si fa un chilo di polvere bian­ca: un camion carico di eroina ne vale almeno dieci carichi di oppio. Ovviamente questo lo hanno capito anche i talebani e i trafficanti a loro col­legati, che qui al sud hanno costruito centinaia di raffinerie. Quelle gover­native invece stanno tutte nella zona di Kabul. Mio fratello mi ha detto di aver visto l’anno scorso un camion del governo stracolmo di sacchi di fari­na pachistana: dentro però c’era un altro tipo di polvere bianca. Tra l’altro - conclude Sayed - gira voce che molti di questi sacchi vengano rivenduti, o regalati, anche a ufficiali stranieri, soprattutto statunitensi”.
Aldilà delle leggende urbane, i racconti di queste e di molte altre perso­ne che abbiamo incontrato a Lashkargah descrivono una situazione com­pletamente diversa, anzi opposta rispetto a quella che conosciamo noi in Occidente: il governo di Kabul sostenuto dalle nostre truppe e dai nostri soldi finge di lottare contro la produzione e il commercio dell’oppio, in realtà ci è invischiato fino al collo.
Il che non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera che Walid Karzai, fratello dell’elegante presidente afgano, è noto per essere il maggiore traf­ficante d’oppio della regione di Kandahar.
Ciononostante, i dubbi rimangono. Almeno fino a quando la realtà dei fatti non ci viene platealmente sbattuta in faccia con un evento che ha dell’in­credibile.
Pochi giorni dopo, infatti, i braccianti stagionali della provincia di Helmand hanno minacciato uno sciopero per chiedere di essere pagati di più. “Gli anni scorsi i proprietari terrieri ci pagavano lasciandoci un decimo, un quindicesimo dell’oppio che raccoglievamo”, raccontava un contadino in quei giorni. “Noi accettavamo qualsiasi paga perché avevamo bisogno di lavorare. Ma quest’anno sono i coltivatori ad avere bisogno di noi: il rac­colto eccezionale richiede una quantità eccezionale di manodopera per incidere tutti questi papaveri prima che il sole li secchi. Inoltre quest’anno - proseguiva il bracciante - lavorare qui in Helmand è pericoloso perché c’è la guerra, si rischia la vita. Per questo abbiamo deciso che avevamo il diritto e la forza contrattuale per chiedere di essere pagati meglio: vogliamo la metà dell’oppio raccolto, sennò andiamo a lavorare da un’altra parte”.
Messi alle strette da questa minaccia, i coltivatori d’oppio della zona sono subito andati a manifestare sotto il palazzo del governatore di Helrnand, Asadullah Wafa, chiedendo di intervenire in questa disputa salariale a difesa dei loro profitti.
“Abbiamo speso tutti i nostri soldi per coltivare i campi e ora rischiamo di perdere tutto se il raccol­to si blocca. Il governo deve intervenire, ci deve difendere!”, dicevano i proprietari terrieri scesi in piazza sotto gli occhi di quella stessa polizia che, in teoria, dovrebbe distruggere le loro piantagioni.
Sono bastate poche ore di protesta perché il gover­natore accettasse di intervenire, stabilendo il “giu­sto salario” dei raccoglitori nella misura di un quar­to del raccolto.
Incredibile: le autorità governative, lungi dal com­battere i produttori d’oppio, ne difendono gli interessi, per un motivo molto semplice: sono soci in affari. E tali sono consi­derati dai proprietari delle piantagioni, che infatti trovano del tutto natu­rale rivolgersi al governo per chiedere il suo aiuto: se salta il raccolto ci perdono entrambi, coltivatori e governo.
Sotto la tutela dell’Occidente, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan sta diventando il narco-Stato più potente del pianeta. Il famoso ’Triangolo d’Oro’ in Indocina è diventato una bazzecola a confronto. Due realtà lontane, accomunate però da una caratteristica che fa riflette­re: quella di svolgere, o di aver svolto, il ruolo di roccaforte alleata degli Stati Uniti nelle loro guerre contro “il male” del momento: il comunismo ieri, il terrorismo oggi.
Una volta chiesi a un esperto straniero di questioni economiche: “Qual è la vera ragione per cui gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan nel 2001? Visto che li di petrolio non ce n’è e la famosa faccenda dell’oleodotto della Unocal era marginale e superata, l’hanno fatto per cosa: per vendicare gli attentati dell’11 settembre oppure per difendere i loro interessi strategici nella regione, le basi militari a ridosso della Cina?”.
Lui rispose: “Né l’uno né l’altro. In Afghanistan non c’è petrolio, ma c’è l’oppio. Nel 2000 i talebani, per ottenere il riconoscimento della comunità internazionale, avevano smesso di coltivarlo, destabilizzando e rischiando di mettere in crisi il terzo mercato più redditizio del pianeta dopo quello del petrolio e delle armi: quello della droga. Ora tutto è tornato a posto”.
All’epoca non lo presi sul serio.

180 mila ettari le piantagioni di papavero.
7 mila tonnellate il raccolto di oppio previsto per quest’anno.
560 milioni di dollari il ricavo complessivo dei coltivatori d’oppio.
3 miliardi di dollari il ricavo complessivo dei trafficanti afgani.
114 miliardi di dollari il valore di mercato dell’eroina ricavata.
26 mila gli afgani, civili e combattenti, morti dal 2001.
570 i soldati occidentali caduti dal 2001




Venerdì, 20 luglio 2007