Sulla lettera di Cindy
La lettera. Di una donna

di Barbara Romagnoli

[Ringraziamo Barbara Romagnoli (per contatti: barbara@amisnet.org) per questo intervento. Barbara Romagnoli, giornalista professionista, e’ nata a Roma nel 1974 e da gennaio 2006 vive a Leiden in Olanda; si e’ laureata in filosofia con una tesi su "Louise du Neant: esperienza mistica e linguaggio del corpo", si e’ sempre interessata di studi di genere e femminismi, ha partecipato a seminari e incontri sulla storia e i movimenti politici delle donne in Italia e all’estero; ha lavorato per diversi anni alla rivista "Carta", ora collabora come freelance con varie testate (tra cui "Liberazione", "Marea", "Peacereporter", "Amisnet", "Aprile"). Fa parte del collettivo A/matrix con cui condivide la passione per la politica, il femminismo e la buona tavola]


Non e’ un caso che sia una donna, ho pensato dopo aver letto la lettera di Cindy Sheehan. Perche’ sono pochi gli uomini, a mia memoria, che avrebbero scritto righe cosi’ lucide pur nel dolore e nella delusione e avrebbero accettato cosi’ pacatamente il limite del corpo, prima che della mente, che dice basta. Alle sofferenze, alle ingiurie, alla guerra che ha ucciso un figlio e ne ha allontanati altri. Ad una politica afona, incolore, che non vuole farsi carico dei reali bisogni di chi la alimenta e la paga, di chi vota in buona fede pensando che il programma elettorale sara’ davvero rispettato e che la guerra, anche dove non lo dice a chiare lettere la Costituzione, sara’ bandita dalla storia. A chi non riconosce che la politica si fa tessendo relazioni feconde, attraverso lo scambio con chi mette in discussione l’esistente in una ottica di pace e benessere per tutte e tutti.

La lettera di Cindy Sheehan e’ certamente rimbalzata in tutti i media del mondo, e probabilmente la sua esperienza ha colpito tante e tanti ma non so fino a che punto le sue parole di addio al movimento siano state davvero comprese in tutta la sua radicalita’. Sheehan ha detto senza mezzo termini quello che altre donne nel mondo ripetono da anni, ossia che il gioco della politica istituzionale, ma anche di quella militante, e’ roba da uomini che preferiscono allearsi, incuranti delle differenze, per non perdere il potere. Luoghi dove una donna fa fatica a trovarsi a suo agio. Come dice Sheehan rispetto all’America, ma vale anche per le nostre "democrazie" europee: "Come poteva una donna avere un pensiero originale e agire al di fuori del nostro sistema bipartitico?".

Gia’, come si fa? Se lo si fa si viene accusate di mania di protagonismo (guai che si dica seriamente a un uomo una cosa cosi’), di essere un po’ pazze, troppo sopra le righe.

Difficilmente si riconosce la totale messa in gioco delle donne che decidono di dire qualcosa, si badi bene, per il bene di tutti o che spendono tempo e energia per una causa comune, anche quando non sono mai state "battagliere" o militanti prima, come mi pare essere il caso di Sheehan. Ha agito da madre disperata, ho sentito dire, e anche che fosse che male c’e’? Non sono madre ma non ci vuole una laurea per comprendere che una madre sa cosa significa vivere, dare la vita, e che per prima non puo’ accettare che la morte venga scelta come soluzione, o, ancora piu’ drammatico, che si accorga che suo figlio e’ "davvero morto per nulla". C’e’ anche che mi dice che alcune madri sono orgogliose dei loro eroi. Tutto puo’ essere, ma vorrei ricordare loro quel che disse Brecht: "Felice il paese che non ha bisogno di eroi".

Credo pero’ che Cindy Sheehan, piu’ che a persone convinte che la guerra sia la panacea di tutti i mali, abbia voluto parlare, anche nel passare il testimone, a quel movimento internazionale per la pace che puo’ essere capace di grandi cose. Puo’ esserlo ma a volte non lo e’ perche’, in America come altrove, "come si fa a lavorare per la pace quando all’interno dello stesso movimento che ne porta il nome ci sono tante divisioni?".

L’interrogativo posto da Sheehan non e’ ne’ retorico ne’ una presa di posizione "egemonica", e’ una questione urgente che va accolta in tutta la sua radicalita’. Perche’ oltre ad essere frammentato e’ un movimento che non ha ancora, nella sua totalita’, assunto la scelta della nonviolenza. Alcune e alcuni pensano ancora che si possa, anche solo sul piano simbolico, utilizzare lo stesso linguaggio che si vuole estirpare (c’e’ chi direbbe combattere, in puro stile militare). Non so cosa abbia smosso questa lettera nei movimenti pacifisti statunitensi e se, per esempio, qualcuno abbia pensato che Camp Casey potrebbe essere acquistato dal movimento per la pace per divenire un luogo di relazioni e di azioni permanenti contro i governi di tutto il mondo. Forse e’ impossibile da realizzare, ma almeno si puo’ pensare di continuare a tenere presente la lezione che ci ha insegnato Cindy Sheehan, non disperderla ne’ considerarla qualcosa del passato, da rispolverare per una commemorazione. Sheehan e’ uscita di scena non per arrendersi ma per ribadire il suo no a questo sistema di vita, per darci un senso del limite che e’ solo consapevolezza profonda di cio’ che davvero conta nella vita. Direi che e’ abbastanza per pensarci su e scegliere da che parte stare.

Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
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Numero 111 del 5 giugno 2007



Marted́, 05 giugno 2007