Sulla manifestazione del 9 giugno

di Maria G. Di Rienzo

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e’ una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell’Universita’ di Sydney (Australia); e’ impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta’ e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell’islam contro l’integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu’ ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e’ in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81]


Passo dopo passo, il ruolo attivo dei sistemi politici nel permettere e promuovere oppressione e violenza e’ sempre piu’ manifesto. Nelle persone cresce il cinismo, la sensazione di essere prive di potere, la negazione e la rabbia: di conseguenza, crescono di pari misura l’impegno e il disimpegno, nel tentativo di influenzare gli eventi. Chiaramente, e’ un momento in cui c’e’ molto da imparare, a piu’ livelli, e non solo per i governi: c’e’ da imparare per noi come opinione pubblica, come attiviste/i, come attrici/attori nel sistema politico e nella rete sociale di valori e comportamenti in cui esistiamo.

La macchina della guerra macina orrore ogni giorno, coltivando in noi frustrazione, paura, non ascolto e deprivazione: viviamo al suo interno, anche quando ne denunciamo le atrocita’ e ci rifiutiamo di cooperare alla sua continuazione. Noi siamo abituati a percepire come "tempo di pace" il periodo in cui nessuna guerra disturba il nostro territorio o viene posta alla nostra attenzione dai media. Durante questi periodi di "pace", molte persone continuano ad effettuare lavoro di "riparazione" sugli effetti della violenza strutturale che intesse il nostro sistema, spesso pero’ senza arrivare ad identificarne le cause.

Quando giunge la guerra, la guerra sotto i riflettori, le persone che non sono impegnate in uno sforzo per la pace a lungo termine agiscono sotto la pressione dell’orrore immediato ed inventano modi per tentare di fermarla. Molte organizzazioni pacifiste si muovono nel modulo di "risposta alla crisi": un mucchio di attivismo viene alla luce, in parte usuale, in parte innovativo, a volte segnato dalla disperazione, e noi ne veniamo potenziati e depotenziati piu’ volte, persino nel corso della medesima azione, perche’ molto dipende dai nostri scopi e bisogni, dalla nostra capacita’ di comprendere la situazione, e dal risultato dell’azione stessa.

In questo momento, raccogliere milioni di persone in tutto il mondo per protestare contro le guerre in corso, com’e’ avvenuto per la guerra in Iraq il 15 febbraio 2003, appare improbabile. Quell’azione fu certo positiva e forte. Ma la guerra ando’ avanti, e questo e’ stato deprimente per molti, che hanno vissuto la cosa come proprio fallimento, o addirittura come fallimento dei propri convincimenti pacifisti. In modo tipico dell’attivismo italiano, non si e’ visto quel momento come un momento per imparare: ad esempio, per capire che il movimento, anche di grandi masse, basato unicamente sull’onda emotiva, non regge i tempi lunghi.

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Credo che per cominciare a rispondere a questa situazione dovremmo dare uno sguardo piu’ profondo alle nostre scelte ed azioni, a come abbiamo usato la nostra energia ed il nostro tempo, e a quanto vale la pena di investire in: comunicazione e rapporto con i media, training nonviolento, "manutenzione" dei nostri gruppi, pianificazione delle azioni.

Lo so, per quanto ruvida e pignola io riesca ad essere, appaio quasi sempre come un’ottimista: una "roccia ottimista" (come mi ha definito un amico).

Certamente c’e’ del vero. Per esempio, c’e’ la mia ostinata fiducia che l’esperienza sia di insegnamento e che quindi se abbiamo ripetuto un errore cinquanta volte la cinquantunesima sara’ piu’ probabile fermarsi a pensare prima di compierlo. Ogni tanto, a questo proposito, mi arrovello parecchio e mugugno, chiedendomi com’e’ possibile che persone istruite e che hanno a disposizione parecchie risorse, o che contano anni d’esperienza, persistano ad organizzare/propagandare azioni che si sono gia’ rivelate fallimentari o controproducenti.

Una delle mie maestre, attivista nonviolenta di lunghissimo corso, da me posta di fronte alla questione qualche anno fa, mi disse che secondo lei si trattava di un ciclo che si presenta nei movimenti sociali, e che probabilmente ci voleva un po’ di pazienza: quando gli attivisti "alla Tafazzi" avessero compreso che le campagne arretravano invece di raggiungere i propri scopi, e che il consenso popolare calava invece di accrescersi, avrebbero valutato le loro tecniche e le avrebbero cambiate. Questo non significava, aggiunse, che io non dovessi essere ferma nel rigettare parole e metodi che spingevano verso la violenza, anzi, era un dovere che avevo nei confronti miei propri ed altrui.

Recentemente le ho scritto che il "caso italiano" sembrava non corrispondere alla sua analisi. Per quanto si dica e faccia, argomentai, lo scenario non cambia. E le citai un pezzo comparso su "Il manifesto" dove un noto signorino che ai tempi di Genova 2001 propose gli arieti di sfondamento e il lancio di acqua al peperoncino, i cui interventi venivano pero’ titolati con roba del tipo "Siamo noi i veri nonviolenti", attribuiva ai "nonviolenti assoluti" (distinzione che avevo ignorato prima dell’illuminante lettura) la responsabilita’ di una carica di polizia subita dal suo gruppuscolo. Non spiegava perche’, a lui non serve. Ne’ la redazione si e’ preoccupata del far notare la colossale incongruenza. I toni, come sempre, erano irrealistici ed apocalittici, una catena di roboanti frasi fatte con il trionfalismo da supereroe dei fumetti a far da sfondo: dovunque ci sia un’ingiustizia noi ci saremo! Al che mi sorge sempre la domanda: a chi subisce l’ingiustizia avete mai chiesto cosa vuole e se vi vuole? La mia amica rispose che si’, l’analisi non reggeva in questo caso: perche’ era evidente che se si persisteva in atteggiamenti di un certo tipo essi rispondevano a scopi che non erano quelli dichiarati. Qualsiasi sia l’obiettivo che ti sta a cuore, disse, tu misuri il tuo successo mano a mano che la distanza da quell’obiettivo si accorcia. Quando invece esso si allontana, se non ti fermi a domandarti perche’ e’ ovvio che il tuo scopo e’ un altro.

Adesso io so bene, come lo sanno tutti a sinistra e a destra anche se preferiscono non parlarne, che ogni aggregazione collegata a partiti, oltre ai partiti stessi, e’ inserita in un meccanismo clientelare fatto di consulenze, "posticini", finanziamenti, patrocini, candidature, gestione di spazi, legittimazioni politiche, eccetera. E poiche’ gli eroi combattenti di cui sopra non sfuggono a questo cliche’ ma anzi ne mostrano tutti i pesanti limiti, ipotizzo che il loro scopo reale sia guadagnare il massimo all’interno di questo schema e che per mantenere in esso la propria posizione debbano ossessivamente stare sotto i riflettori, l’unica cosa che mostra ai loro mecenati quanto sono importanti.

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A questo punto mi chiedo: cosa significa aver due manifestazioni a Roma, il 9 giugno, e dichiarare che entrambe saranno "pacifiche"? Mettiamoci per un attimo dalla parte di chi sta alla finestra, incerto se far capolino o no sulla scena. Se sono entrambe pacifiche cos’e’ che le divide? Se un movimento per la pace non riesce a mettersi d’accordo neppure al suo interno, cos’ha da proporre di diverso, che soluzioni ha, qual e’ la visione che vuole raggiungere?

Il pacifismo generalmente tende a due scopi: quello immediato di por fine ad una guerra, quello a lungo termine di perseguire il mutamento delle condizioni che permettono la guerra. Chiaramente essi sono in stretta relazione ma richiedono differenti approcci. Per compiere azioni sagge ed efficaci abbiamo bisogno di capire e interrogare le cause della guerra, abbiamo bisogno di analisi del potere e di pianificazione, di riconoscere, sviluppare e condividere le nostre capacita’, abbiamo bisogno di creativita’, di coraggio e di cooperazione con altre persone. Abbiamo bisogno di fare una scelta chiara, quella della nonviolenza. Cominciare a comprendere che la guerra si basa su un profondo e vasto sistema in cui si intrecciano credenze, abitudini e strutture, avrebbe come primi effetti lo spostamento dei criteri con cui classifichiamo il successo o il fallimento delle nostre azioni, e la maggior accuratezza nell’identificare i nostri punti di influenza. Avrebbe, inoltre, l’effetto di depurare l’attivismo pacifista da toni, slogan e atteggiamenti basati sul militarismo. Nel mentre abbiamo bisogno di riconoscere che cambiamenti profondi richiedono tempo, dobbiamo essere in grado di essere parte dei cambiamenti che cominciano ad emergere. E per questo dobbiamo riconoscere che anche il nostro essere mal preparati, scarsamente consci e non comunicativi, incapaci spesso di immaginare e realizzare cio’ che e’ possibile, ci blocca o ci fa arretrare.

Naturalmente mi auguro che la protesta contro Bush del 9 giugno abbia successo. Ma senza voler passare dalla "roccia ottimista" alla Cassandra (a proposito, la poverina non veniva creduta, ma non ha mai sbagliato, pensateci), proporrei che dopo cominciassimo a dirci la verita’.

Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Arretrati in:
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Numero 115 del 9 giugno 2007



Domenica, 10 giugno 2007