No guerra - No Dal Molin
Proposte su base Usa Vicenza

di Giovanni Scotto e Bernardo Venturi

Giovanni Scotto (Università di Firenze - Centro Studi Difesa Civile)
Bernardo Venturi (Centro Studi Difesa Civile)

[articolo pubblicato su Azione Nonviolenta, maggio 2007 e riportato sul sito Altravicenza:
http://www.altravicenza.it/



Il no alla base militare Dal Molin ha assunto tra febbraio e marzo proporzioni più ampie di quello che lo stesso movimento di protesta si aspettava. Il governo Prodi, osservando a posteriori la crisi, sembra essere stato messo in difficoltà più da questa scelta che dalla stessa missione in Afghanistan.
I motivi per il no rimangono oggi ancora concreti e comprensibili. Dire sì significherebbe favorire la filiera della guerra che l’attuale governo neo-conservatore statunitense sta promuovendo (oltretutto contro la crescente ostilità degli stessi elettori Usa e la contrarietà del Congresso). La nuova base di Vicenza, infatti, non sarà neppure una base dell’Alleanza atlantica, ma solo
statunitense. In più, servirebbe ad ospitare la 173esima brigata aviotrasportata, già protagonista della guerra all’ Iraq.
Concedere l’ utilizzo di quel territorio significherebbe quindi di fatto appoggiare la politica della guerra preventiva, che ha ampiamente dimostrato il suo fallimento sia in termini di obiettivi che di consenso. A ciò si aggiunge che l’ Italia non aveva preso accordi formali, quindi il Governo era libero di rifiutare questa proposta. Tralasciamo qui le assai valide obiezioni riguardanti l’impatto
territoriale e ambientale e la questione degli infondati ricatti economici-lavorativi: ricordiamo solo che l’ Italia sostiene quasi metà delle spese della base, e tali risorse indubbiamente potrebbero
essere investite in altro modo.

Un movimento popolare
Il punto essenziale è che da Vicenza è ripartito, per la prima volta dagli anni Ottanta, un ampio movimento popolare di opposizione alle basi militari. Anche se nelle ultime settimane l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione nazionali sembra essere in calo, la protesta di Vicenza rappresenta una grande opportunità.
Questo movimento si trova davanti a un’importante occasione: non dire soltanto "no", ma proporre alternative concrete, anche sulla base di altre esperienze simili a livello internazionale, dimostrando come la rinuncia alla base militare possa portare vantaggi economici, ambientali e persino in termini di sicurezza interna e internazionale. Bene hanno fatto i comitati vicentini a sottolineare che il punto cruciale non sia spostare la base di qualche chilometro.
Si può capire la preoccupazione del governo Prodi a volere tenere saldo, all’ interno della diplomazia multilaterale, il legame atlantico. Massimo D’ Alema, pur muovendosi in modo discontinuo rispetto all’ esecutivo precedente (come dimostrano la missione in Libano, la dedizione in sede Onu e l’ impegno per una moratoria sulla pena di morte) non ha saputo o voluto accogliere in maniera creativa l’impulso proveniente dal movimento pacifista, dando invece corda a quanti,
dentro e fuori le istituzioni, agitavano il fantasma di un pacifismo arrabbiato, estremista e antiamericano.
La manifestazione del 17 febbraio ha smentito il luogo comune dell’antiamericanismo del movimento, dando prova di profonda saggezza e di un approccio costruttivo al problema. Le proteste non erano certo in chiave anti-Usa: anzi, erano presenti svariate famiglie di statunitensi. Anche le testate giornalistiche moderate si stanno accorgendo che il movimento ha acquisito
organizzazione e rigore.

Per un nuovo rapporto tra Usa ed Europa
Noi crediamo che sia ormai urgente tessere in maniera nuova i fili tra Usa ed Europa. Proviamo ad analizzare più da vicino questo aspetto. Il limite drammatico del rapporto euroatlantico è che Usa ed Europa hanno un solo spazio comune nel quale discutere di sicurezza e pace: l’alleanza militare della Nato. Le altre istituzioni multilaterali (Onu, Osce), per quanto siano fondamentali, sono dei luoghi di mediazione tra tanti soggetti diversi, non un forum di confronto ed azione concertata tra le due sponde dell’ Atlantico.
Quello che appare quindi necessario è creare una struttura dove Usa ed Europa possano lavorare insieme, alla pari e sul lungo periodo, nel campo della prevenzione e soluzione con mezzi civili dei conflitti che mettono in pericolo la vita di milioni di persone. L’Europa ha molto da offrire: il concetto di "potenza civile" su cui basa la sua azione nel sistema internazionale, le singole
esperienze di diplomazia su più livelli, le nuove politiche di prevenzione dei conflitti nell’Est
Europa e nel Caucaso. Anche gli Usa possiedono però un enorme patrimonio storico e di
competenze scientifiche sul tema della prevenzione dei conflitti e dell’intervento civile, di mediazione per la soluzione delle crisi: dallo storico accordo di Camp David, al lavoro
dell’amministrazion e Clinton, a istituzioni come l’Usip (United States Institute of Peace), fino a singoli progetti di ricerca e intervento per una soluzione pacifica ai conflitti (come Preventing Deadly Conflict).
A partire da tutto ciò, il movimento di Vicenza potrebbe invitare un tipo diverso di presenza statunitense: non migliaia di paracadutisti pronti a intervenire militarmente ai quattro angoli del mondo, ma un Centro euroatlantico per la prevenzione e l’intervento civile nei conflitti, dove i Paesi
europei, Usa e Canada (Paese quest’ultimo molto impegnato in politica estera sul concetto di "
sicurezza umana" ) possano discutere e preparare insieme modalità civili di soluzione delle crisi e di prevenzione di escalation violente, e addestrare corpi civili di pace per interventi non armati. Una
struttura civile, a basso impatto ambientale e urbanistico. Vicenza diverrebbe così un nuovo luogo di dialogo e produzione di politiche per la pace per lavorare in maniera diversa alla sicurezza atlantica.

I prossimi passi
Il movimento di Vicenza nei prossimi mesi potrebbe dialogare con vari rappresentanti governativi dei paesi atlantici, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Un esempio? Coinvolgere nella discussione i candidati presidenziali Barak Obama, che si è esplicitamente schierato contro la guerra in Iraq, o Hillary Clinton. Oppure altre figure di spicco della politica e della cultura Usa, come
l’ex-presidente Jimmy Carter, che vogliono salvaguardare la cooperazione euroatlantica senza aderire all’ideologa della guerra preventiva neo-con .
Il movimento nato in questi mesi a Vicenza non deve scoraggiarsi davanti alle problematiche che hanno contrassegnato l’ Unione e al calo fisiologico di attenzione mediatica. Se la società civile e tanti singoli cittadini hanno risollevato il problema delle servitù militari, la questione va presa sul
serio, anche perché rientra tra i punti programmatici della stessa coalizione.
Dire sì con chiarezza a un’alternativa praticabile di pace, che valorizzi la migliore Europa e la migliore America, potrebbe anche aiutare una politica estera italiana che non da adesso sembra confusa e priva di un vero orientamento, ma che oggi è il vero punto debole dell’alleanza tra centro e sinistre. Il punto determinante sarà avere un visibile approccio costruttivo, pensare in avanti, e
proseguire con tenacia su questa strada.


Dr. Giovanni ScottoMaster in Mediazione dei Conflitti sociali e interculturali: http://www.mastermediazione.unifi.it
Corso di Laurea Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti http://www.operatoriperlapace.unifi.it
Università di Firenze - Dipartimento di Studi Sociali - Facoltà di Scienze della Formazione
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Lunedì, 04 giugno 2007