L’abbattimento del muro a Rafah
QUANDO CADE UN MURO

di Enrico Peyretti




Immagini dell’abbattimento del muro di rafah


ANCHE questa data è da segnare: Rafah, 23-24 gennaio 2008. A Rafah morì, il 16 marzo 2003, Rachel Corrie, cittadina statunitense, colpita da un bulldozer mentre riparava col suo corpo una casa palestinese destinata all’abbattimento. Ora a Rafah, almeno per qualche giorno, è stato abbattuto, senza far morire nessuno, un muro di ferro che imprigionava un popolo.
Quando cade un muro - se non è una bomba o un bulldozer che sfonda la parete e abbatte il tetto di una casa umana - ; quando, spezzata una frontiera, il suolo si riapre al cammino umano di incontro, non di invasione e aggressione, ma per comporre tra loro le necessità reciproche di vivere; quanto il taglio inciso nella carne della terra e della famiglia umana viene ricucito e le carni dell’umanità si possono ricomporre, anche con cicatrici dolorose; quando a Berlino o a Rafah o a Guantanamo, o attorno a un ghetto o lager o gulag o bantustan o centro di detenzione di immigrati, un muro di prigione iniqua viene perforato dal respiro della vita, senza uccidere se non la struttura che uccide, allora sappiamo di nuovo, contro la minacciosa disperazione, che nell’umanità si deve sperare, perciò si deve lavorare - tutti pontefici - a costruire ponti più alti di tutti i muri. Infatti, i muri che osano profanare i cieli e le terre comuni non difendono nessuno, perchè aprono abissi d’inferno, in cui, se non scavalcati presto dai ponti, tutti sprofondiamo. Un giorno la terra sopporterà soltanto bassi muretti di cinta, tra un giardino e l’altro, tra un campo e l’altro, al di sopra dei quali potremo fare due chiacchiere col vicino e chiedere in prestito l’uovo che ci manca.


Di seguito il comunicato di ISM-ITALIA, 5 febbraio 2008


RAFAH – Striscia di Gaza 23-24 GENNAIO 2008
COMUNICATO DI ISM-ITALIA, 5 febbraio 2008
Gli avvenimenti di Rafah del 23 e 24 gennaio 2008 non possono essere derubricati a semplici fatti di cronaca; essi appartengono allo spazio dei fatti storici simbolici. A nessuno infatti può sfuggire il significato politico dell’apertura di quelle brecce, per ora solo brecce, nei tetri Muri dell’Apartheid eretti dallo Stato di Israele, nuova arma di distruzione e di ghettizzazione della popolazione della Palestina, un significato politico che ridicolizza il summit di Annapolis.

Tutto il mondo democratico, così come aveva esultato nel 1989 alla caduta del Muro di Berlino, dovrebbe oggi esultare per la caduta del muro a Rafah, Striscia di Gaza. Ed eroi di pace devono essere considerati quei giovani palestinesi, non importa a quale gruppo appartengano, che hanno infranto il Muro. Con questo semplice gesto hanno tagliato il nodo gordiano dell’immobilismo e della paura. Sono loro che hanno finalmente dato (iniziale) attuazione al parere della Corte internazionale dell’Aja che il 9 luglio 2004 aveva dichiarato illegale quel Muro. Sono loro che hanno dato (iniziale) seguito alla risoluzione dell’Assemblea generale delle NU che il 21 luglio del 2004, approvata a larghissima maggioranza, esigeva lo smantellamento del Muro. E poco importa se la barriera di Rafah che segna il confine fra Gaza e l’Egitto, in senso stretto, non è quella oggetto del parere della Corte. Essa chiude comunque il cerchio che ha reso Gaza una enorme prigione a cielo aperto. Sono passati tre anni e mezzo. Israele ha, ancora una volta, ignorato tutte queste decisioni. E nulla ha fatto il Quartetto della cosìddetta Road Map; nulla hanno fatto le cancellerie europee per chiederne l’applicazione e il rispetto. Ancora peggio, di fronte a democratiche elezioni che hanno visto la vittoria di Hamas, l’UE ha osato sancire l’embargo contro le vittime, collaborando con Israele in una indecente, agli occhi del mondo, punizione collettiva. Dopo 3 anni e mezzo, ad abbattere simbolicamente quel Muro dell’odio hanno provveduto i giovani di Gaza. A loro il plauso del mondo intero. A loro il Nobel della Pace.

Come nel caso del crollo di una diga, una ondata di 250.000 palestinesi si è riversata oltre la frontiera: la prova più clamorosa di quali lacrime e di quale disperazione è intrisa la vita di milioni di palestinesi sotto il tallone dell’occupazione israeliana.

Qualcuno può ancora ignorare quella tragica realtà? Qualcuno può di fronte al mondo ancora dire: io non sapevo?

Gli avvenimenti di Rafah segnano dunque un nuovo inizio. Aprono alla speranza. E suggeriscono infine un uso pacifico della dinamite. La dinamite ha occupato un posto centrale nella storia della Palestina. Dinamite fu utilizzata dai terroristi dell’Irgun e della banda Stern nell’attentato del 22 luglio del 1946 al King Hotel di Gerusalemme contro gli inglesi del mandato (91 vittime). La dinamite occupò un ruolo di primo piano durante la Nakba del 1948: migliaia di case, centinaia di villaggi furono polverizzati e scomparvero letteralmente dalla faccia della terra sotto l’incalzare delle truppe israeliane in una enorme e spietata operazione di pulizia etnica che troppo a lungo è stata taciuta e nascosta.

Oggi, dopo i fatti di Rafah, sappiamo che la dinamite può diventare strumento di liberazione e pacificazione. Tutta la dinamite di questa terra, questo è l’auspicio, sia utilizzata ad un unico scopo: demolire i 700 chilometri del Muro dell’Apartheid. E che, in questa diversa prospettiva siano archiviati dalla storia anche i giubbetti imbottiti di dinamite degli attentati suicidi. Non perché la resistenza all’occupazione debba cessare ma perché essa possa prendere altre e insospettate e vincenti strade. Non sappiamo quale risposta verrà data agli avvenimenti di Rafah del 24 gennaio 2008. Non sappiamo se quelle brecce aperte torneranno a chiudersi, ma ormai la strada è indicata. Altre brecce potranno essere aperte e nessuno, non i governanti di Israele, non quelli dell’Egitto, non quelli del mondo occidentale potranno frenare questo esito tanto logico quanto troppo a lungo disatteso.



Mercoledì, 06 febbraio 2008