Sul boicottaggio della fiera del libro di Torino
Fiera del Libro, l’errore della sinistra su Israele

di David Bidussa

In “il Secolo XIX”, 30 gennaio 2008, p. 23


ALCUNE settimane fa la direzione della Fiera del Libro di Torino ha deciso che lo Stato ospite dell’edizione di quest’anno (8-12 maggio 2008) sia Israele. Certamente vi ha concorso il fatto che la produzione letteraria e saggistica israeliana rappresenti oggi uno scenario di grande interesse e di notevole qualità. Tanto per i suoi narratori più noti (A. Oz, D.Grossmann, A. B. Yehoshua), quanto per una saggistica di vario genere certamente interessante: dalla storiografia (Sternhell, Segev, Zertal, Barnavi, Morris, Pappe, Greilsammer) alla filosofia (Avishai Margalit,), ma anche perché c’è lo spazio perché uno degli intellettuali più rappresentativi del mondo palestinese israeliano sia in grado di esprimersi liberamente. Si tratta di Sayed Kashua, autore di romanzi, editorialista di punta del quotidiano “Haaretz” e da alcune settimane ideatore di una soap opera in prima serata sul canale 2 della televisione israeliana che ha per protagonista il mondo arabo-israeliano.
Sarebbe positivo che le molte anime culturali e politiche, ma anche etniche e linguistiche di Israele fossero presenti a Torino. Israele è oggi un paese che al di là dei conflitti interni che ha – anche a sfondo etnico - è una realtà in cui il confronto interno è aperto, concreto e, soprattutto, libero. Una realtà politica in cui molte voci, anche scomode e perturbanti per l’establishment, si esprimono o comunque hanno spazio; un contesto in cui coabitano problematicamente, molte culture e che ha fatto della propria crisi culturale - prima ancora che sociale e politica – un tema di discussione pubblica: nel cinema, in musica, nella letteratura. Una crisi che prima di tutto ha per tema la propria identità.
Perché è bene osservare e ricordare questi dati? Perché al solito, secondo un vecchio vizio molto italiano, e comunque molto diffuso nella cultura della sinistra italiana, è partito un dibattito in cui si chiede a gran voce il boicottaggio dell’iniziativa della Fiera del Libro, in nome e in conseguenza del giudizio politico negativo che si esprime su Israele. Il luogo in cui questo dibattito si concentrato è il Manifesto. Un dibattito che ha un presupposto e tre idee.
Presupposto: la banalizzazione della memoria della shoah. Un argomento che in Italia non riguarda solo la destra, o una parte consistente del mondo cattolico, ma che coinvolge anche la sinistra. Tutti e tre seguono lo stesso schema: quello di ritenere che la shoah sia un alibi per non affrontare le questioni “scottanti”: per esempio la “presunta” Lobby, o la questione palestinese legittimando, così, l’oppressione nei territori occupati.
Prima idea. La raffigurazione di Israele come apartheid. Un tema che in parte Valentino Parlato – ma anche lui molto confusamente e comunque confermando e reiterando una parte di quella banalizzazione diffusa a sinistra – ha provato ad arginare con un suo intervento il 24 gennaio, ma che non solo non ha registrato mutamenti significativi, ma che lo ha visto decisamente minoritario nel suo giornale e nei suoi lettori che lo hanno accusato di “tradimento”.
Seconda idea. Per poter parlare e discutere della realtà culturale di Israele alla Fiera del Libro occorre coinvolgere anche l’Anp. Il principio che passa dietro a questa proposta non è una misura di par condicio culturale di due mondi che alla fine sono molto intrecciati. E’ l’idea che Israele non è uno Stato. Esiste e ha diritto a esistere solo come parte di uno Stato che ancora non c’è e che si chiamerebbe “Stato binazionale di Palestina”. Un disegno politico dissolto settanta anni fa con la rivolta nel 1936-1939, e la cui morte è stata sancita dall’Onu con il voto di spartizione del novembre 1947. Comunque un progetto non voluto né dalla leadership politica ebraica sionista, né da quella araba e palestinese.
Terza idea. Coloro che criticano la realtà israeliana dall’interno e che sostengono il profilo culturale dell’ “Israele buona” (in breve, Oz, Grossmann, Yehoshua), hanno una sorta di “lingua biforcuta” Essi, infatti, non sarebbero che le punte di una cultura con cui l’Occidente si identifica e attraverso i quali continua a mantenere uno sguardo compassionevole verso i palestinesi, attori minori e comunque subalterni. Un mondo politico e umano, quello palestinese, che così finisce per essere non solo deresponsabilizzato, ma anche assolto da una condizione politica a da un’impasse su cui – questa volta sì - per par condicio non ha meno responsabilità dei suo avversari e nemici storici.
Ultima questione. Finora nessun editore ha preso la parola. Perché?



Lunedì, 04 febbraio 2008