Hiroshima e Nagasaki

A cura di Enrico Peyretti

Nell’anniversario di Hiroshima e Nagasaki, memoria sempre più tragica, minacciosa, impegnativa, ripropongo, a chi la trovasse utile lettura, questa riflessione di John Rawls del 1995, "Hiroshima, non dovevamo", una preziosa autocritica dall’interno del paese autore della prima violenza atomica.
Enrico Peyretti



Hiroshima 1945-1995
POTENZA E COSCIENZA
Da: Enrico Peyretti, La politica è pace, Cittadella editrice, Assisi 1998
Cap. 6, par. 5, pp. 184-188


«L’uomo politico pensa alle future elezioni,
l’uomo di stato alle future generazioni»
(John Rawls)

Ho letto due esami di coscienza, scritti a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro: la coscienza della Germania sconfitta nel 1945, e la coscienza degli Stati Uniti vincitori, che oggi si interroga sull’impiego fatto allora della bomba atomica. Le voci sono quella di Thomas Mann, in La Germania e i tedeschi, un discorso del 6 giugno 1945 (allegato ad un numero di settembre de il manifesto) e quella del filosofo John Rawls (autore di Teoria della giustizia, 1971) insieme ad altri studiosi statunitensi, in Hiroshima, non dovevamo (I libri di Reset, Donzelli 1995. Questi articoli escono anche sulla rivista americana Dissent).
Thomas Mann parlava negli Usa, nel breve spazio di tempo tra il crollo tedesco e la bomba di Hiroshima. Rawls scrive a cinquant’anni da quell’agosto atomico. Il dibattito su Hiroshima (cfr paragrafo 3 di questo capitolo) è riesploso negli Usa: ufficialmente si è chiuso sulle posizioni governative, uguali a quelle del 1945, ma è vivace e approfondito nella cultura, come dimostra questo libretto, e persino nelle televisioni (v. Le Monde Radio-Télévision, 13-14.8.1995, p.3). La mostra sull’Enola Gay, per l’insorgere dei veterani e della destra, ha dovuto sostituire il catalogo ampiamente critico, con poche pagine asettiche.
Il problema morale di Hiroshima si differenzia per le lunghe profonde conseguenze, in qualche caso (Dresda) non per il numero di vittime immediate, da quello dei bombardamenti terroristici dei civili con bombe convenzionali, praticato prima dai tedeschi e poi dagli alleati.
Oggi la cultura di pace disconosce lo jus ad bellum (diritto di far guerra). Rawls, entro i vecchi limiti dello jus in bello (regole da rispettare nella guerra), propone sei princìpi o postulati che impegnano «una società democratica decente». Li riassumo: 1) lo scopo di una guerra giusta è una pace giusta e duratura anche coi nemici del momento (osservo che lo stesso chiede Kant, Per la pace perpetua, 6° articolo preliminare); 2) una società democratica combatte soltanto contro uno stato non democratico, espansionista, minaccioso; 3) nella guerra contro un tale nemico, una società democratica distingue attentamente tra governanti, soldati, popolazione civile e considera responsabili della guerra soltanto i primi; 4) una società democratica rispetta i diritti umani dei nemici, sia civili che militari, primo perché sono sempre membri della società umana, secondo per insegnare loro con l’esempio, perciò non li attacca mai direttamente salvo che in caso di crisi estrema; 5) i popoli giusti devono prefigurare, durante la guerra, il tipo di pace e di rapporti internazionali a cui mirano (cfr Kant citato); 6) la valutazione pratica dell’opportunità di un’azione deve sempre essere severamente limitata dai princìpi suesposti. Qui Rawls propone la distinzione che ho citato in epigrafe tra l’uomo politico e l’uomo di stato.
Si può dedurre dall’insieme che non furono veri "uomini di stato" né quelli che imposero alla Germania nel 1919 la pace punitiva di Versailles, culla del nazismo, né quelli che decisero l’uso dell’atomica. Hiroshima - dice Rawls ed è ormai accertato - non configurava il caso di crisi estrema; Truman e Churchill, che non ripettarono quei limiti alla conduzione della guerra, non furono veri "uomini di stato"; Truman è «fallito come uomo di stato» (p. 31); sia Hiroshima che i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi o su Dresda furono «gravi torti» e «gravi errori» (p. 29). I governanti non ebbero tempo per riflettere, la guerra impedisce di pensare. E’ ciò che il pensiero della pace afferma: la guerra non continua la politica, ma la nega. E nega la democrazia.
Dobbiamo infatti dedurre (pur distinguendo fra i loro governanti e la società civile, da cui vennero subito alcune condanne dell’uso dell’atomica: v. p. 46), che gli Stati Uniti non furono «una società democratica decente» in quella circostanza che ha determinato la storia universale successiva. Il guaio grave è che ancora oggi la tesi ufficiale giustifica accanitamente le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Clinton ha concluso: «Truman ha fatto quel che si doveva fare» (Le Monde, 3.8.1995). Il 76% degli americani (84% oltre i 65 anni) ritiene che gli Usa non debbano presentare scuse al Giappone (New York Times 1.8.1995 e Le Monde 8.8.1995). Ergo, non appare assurdo il severo giudizio di Gandhi in risposta ad un amico americano nel maggio 1940: «La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo» (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 140). Rawls oggi ne dà una implicita trasparente conferma, pur dimostrando giustamente che dove c’è possibilità di dibattito c’è correggibilità. Potremmo dire che il modello statunitense, oggi idolatrato, configura una società che può diventare democratica e giusta, all’esterno come all’interno, anche se non lo è ancora, purché guarisca dai propri mali spirituali profondi.
Lo spazio mi manca per riferire di Thomas Mann, dapprima nazionalista e poi apertamente antinazista. Simone Weil dice che «la forza pietrifica le anime», eppure ciò che accomuna questi due scritti è lo scaturire della coscienza umana dalla pietra della potenza politico-militare: per Rawls una potenza in auge che non capisce ancora il proprio limite, per Mann una potenza già precipitata nel proprio nulla distruttore. Ne colgo solo queste parole da meditare: «Il concetto tedesco di libertà fu sempre rivolto soltanto all’esterno. (...) Un popolo che non è interiormente libero e responsabile di fronte a se stesso non merita la libertà esteriore. (...) La sventura tedesca è soltanto il paradigma per la tragicità della vita umana, in generale» (pp. 41 e 57).
(15 dicembre 1995)



Sabato, 04 agosto 2007