Dalla Birmania
Si fermano le proteste, il governo per adesso ha vinto. Usando la mano pesante

di Enrico Piovesana

Riprendiamo questo articolo dal sito di Peace Reporter - http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=8924


Myanmar - Yangon - 04.10.2007

Dal nostro inviato

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Nel centro di Yangon si respira aria pesante.
Non solo per l’asfissiante caldo umido provocato dalle piogge stagionali; o per il penetrante odore misto - di terra bagnata, legno ammuffito, rifiuti marci, fogne scoperte e smog - che caratterizza questa come tante altre città asiatiche.
Ad appesantire l’atmosfera dell’ex capitale birmana è la massiccia presenza dell’esercito, solo parzialmente ridotta negli ultimi giorni.
Ogni angolo di strada è presidiato da soldati con il fucile spianato, l’elmetto con la stella bianca in testa e un fazzoletto rosso al collo. O dai poliziotti delle forze speciali, anch’essi armati, ma con elmetto e divisa celesti.
Le vie attorno alla Sule Pagoda, chiuse da rotoli di filo spinato e transenne di legno, sembrano retrovie di un campo di battaglia: frotte di soldati sono accampati sotto gli alberi, sui marciapiede e all’ombra dei camion militari, con i fucili appoggiati ai muri e gli scudi accatastati a terra.
Nei giorni scorsi, le stesse pagode buddiste, comprese la Sule e la grandiosa Shwedagon, erano state trasformate in fortini militari dopo essere state chiuse e occupate dall’esercito, con le canne dei fucili che spuntavano dai cancelli al posto delle bacchette d’incenso.
La folla di uomini in longyi – i tipici parei portati al posto dei pantaloni – e di donne truccate con il thanaka – polvere profumata ricavata dall’omonima pianta locale – cammina per le strade tirando dritto davanti ai soldati, senza degnarli di uno sguardo.
I pochi giovanissimi monaci che si aggirano per la città per raccogliere le offerte, allungano il passo davanti ai drappelli di soldati.
In un bar all’ombra di uno dei tanti edifici coloniali del centro – ruderi cadenti e marci, così infestati dalla vegetazione da ricordare le rovine cambogiane di Angkor – tre monachelli novizi, bambini di meno di dieci anni, entrano dalla porta senza dire una parola e si siedono sotto un ventilatore. Aprono le loro ciotole da cui estraggono piccole gavette di latta. Un cameriere le prende e va in cucina. I piccolo monaci, nell’attesa, fissano il televisore acceso sul canale nazionale, Mrtv, dove trasmettono parate militari e soldati che cantano cori patriottici. Il cameriere torna con le gavette piene di riso bollito fumante. I novizi le chiudono nelle ciotole ed escono senza proferire verbo.
“Sono rimasti in giro solo i bambini”, dice un ragazzo avvicinandosi al nostro tavolino. “ I monaci adulti sono tutti finiti in galera o deportati nelle loro regioni d’origine”. U Than Wen è uno studente universitario laureando in fisica e militante del movimento democratico. “L’esercito ha occupato e chiuso tutti i monasteri delle città, arrestando migliaia di monaci e monache e rispedendoli nei loro villaggi natale. Lo stesso sta succedendo a Mandalay e negli altri centri urbani. I militari non sembrano umani, sono degli animali, non hanno rispetto per niente, nemmeno per la religione! I soldati vengono arruolati nelle zone più povere del paese: disperati attratti dalla paga di 10 dollari al mese e dal vitto e alloggio gratis; ignoranti che vengono indottrinati all’obbedienza incondizionata: se gli ordinano di sparare, sparano. A Mandalay, i cadetti del 77° battaglione si sono inginocchiati davanti ai monaci solo perché il lavaggio del loro cervello non era ancora completo”.
U Tha Wen chiama al tavolo un suo compagno di studi e di lotta, Ko Wing, che ascoltava la conversazione dal bancone e ha voglia di parlare. “ Qui a Yangon i soldati non hanno avuto pietà, hanno sparato su tutti: monaci e monache, studenti, donne e bambini. Non sapremo mai quanti morti ci sono stati veramente, ma c’è chi dice che in tutto il paese ve ne sono stati almeno quattrocento. L’altro ieri, quando hanno ucciso il reporter giapponese vicino alla stazione centrale, io ero lì. I soldati sparavano alla cieca dai camion. Un monaco accanto a me è stato colpito alla spalla ed è rimasto lì a terra. Io l’ho preso in braccio provando a fuggire e sono scivolato sull’asfalto bagnato di pioggia di sangue. Vedi?”, dice mostrando il gomito ferito.
“Io invece – interviene U Than Wen – quel giorno ero al monastero del quartiere di Kanbe, dove l’esercito aveva fatto irruzione la notte prima uccidendo due monaci. Quel mattino erano tornati per chiudere il monastero e arrestarli tutti, così noi studenti abbiamo fatto cordone. I soldati hanno aperto il fuoco uccidendo una quindicina di persone”
“Un’altra strage – lo interrompe Ko Wing – è avvenuta alla scuola numero 3, nel quartiere di Tamwe: gli scontri erano vicini e i genitori aspettavano i figli all’uscita dalle lezioni. I soldati hanno pensato che fossero un gruppo di dimostranti e hanno aperto il fuoco, ammazzando diciassette persone”.
Chiediamo loro cosa succederà adesso.
“I monaci sono stati messi fuori gioco”, dice U Than Wen. “Adesso tocca a noi studenti e militanti della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) continuare a lottare. I fucili non ci fanno paura. Anche se la città è ancora presidiata dall’esercito, continueremo a organizzare proteste sporadiche. Oggi pomeriggio, per esempio, proveremo a manifestare sotto il Traders Hotel, quello dei giornalisti. Tenetevi alla larga da quella zona”.
Il pomeriggio però trascorre tranquillo. Il dispiegamento militare scoraggia e stronca sul nascere ogni tentativo di protesta. Una ventina di studenti radunatisi nella 35esima strada vengono subito stati arrestati dai militari. Ne fa le spese anche un turista straniero, fermato dai soldati mentre stava facendo una foto.
L’indomani prendiamo un taxi – come tutti, un rottame arrugginito che arranca sputando fumo nero – e andiamo all’Università’ di Yangon nella speranza di entrare in contatto con i due super-ricercati leader del movimento studentesco: Htay Kywe e Ma Nilar Thein, una ragazza. Purtroppo, i soldati che presidiano l’ingresso del campus non ci fanno nemmeno entrare.
Non rimane che andare là dove nessun tassista vuole portarci: il quartier generale della Nld. A grandi sorrisi d’intesa fanno seguito altrettanti cordiali rifiuti: “Sorry sir, it’s a big problem for me to go there”. Finché Song Wen, tassista militante, non accetta a patto di fermare l’auto a distanza di sicurezza dalla pericolosa destinazione.
“ Se scarico qualcuno davanti alla Nld mi fotografano la targa e per me è finita”, si giustifica. “Le spie sono ovunque”. In vena di confidenze si confessa militante democratico. “The Lady – la signora Aung San Suu Kyi, ndr – e la Nld sono la nostra unica speranza per liberarci da questi mostri. Hanno neutralizzato i monaci, ma la lotta non si fermerà! Stia attento a non farsi seguire quando esce dall’ufficio”.
Con questo suggerimento il tassista-attivista ci lascia in un quartiere periferico indicando una curva tra gli alberi di banyano. “È lì, buona fortuna”.
Il quartier generale della Nld è un anonimo edificio scalcinato con un portone di legno. Da fuori sembra una bettola qualsiasi, finché non si scorgono dietro gli alberi le bandiere che spuntano dal tetto, quelle rosse con il pavone da combattimento giallo e la stella bianca.
All’interno, uno stanzone buio pieno di tavoli affollati da gente che mangia, discute, scrive e legge. Le pareti sono tappezzate di manifesti politici e foto della ’Signora’, di suo padre – l’eroe nazionale Bogyoke Aung San – e dei ‘martiri’ della rivolta del 1988. Al piano di sopra – un labirinto di stanzette divise da pareti di legno – due portavoce dell’Nld sono seduti a un tavolaccio, intenti a scrivere su un foglio.
"È una lettera per l’inviato dell’Onu, Gambari", ci spiega Nyan Win offrendoci una tazza di tè e presentandoci il suo collega Hantha Myint. "Speriamo che la sua missione abbia successo - dice Nyan - perché la situazione è drammatica. La repressione di questi giorni ha ucciso decine di persone nella sola Yangon: impossibile avere certezze sul numero complessivo delle vittime in tutto il paese. Molti monaci sono stati uccisi fuori città, durante i raid compiuti dall’esercito nei monasteri. Questa mattina ci hanno detto che due cadaveri di monaci galleggiavano nelle acque del fiume Than, a nord di Yangon. Per non parlare degli arresti: almeno settemila persone sono state finite in galera”.
“Finché le città rimarranno blindate e presidiate dall’esercito – interviene Hantha Myint – le proteste sono praticamente impossibili. Ne era prevista una per ieri pomeriggio, ma è fallita sul nascere. Oggi ce ne doveva essere un’altra, con la partecipazione di monaci e studenti provenienti da fuori città, ma sono stati bloccati alla periferia. Ciononostante, continueremo a provarci e al contempo porteremo avanti la strada del dialogo confinando nel ruolo dell’inviato dell’Onu, Gambari. Chiediamo la scarcerazione di tutte le persone arrestate in questi giorni, l’abbassamento dei prezzi del carburante e sopratutto l’apertura di un dialogo politico con la giunta militare per avviare un processo di transizione democratica. Non ci facciamo illusioni, non ci aspettiamo cambiamenti rapidi. Perché qualcosa inizi veramente a muoversi abbiamo bisogno del sostegno concreto della comunità internazionale”.
“Le sanzioni economiche – dice Tyan Win – non servono a nulla se non prevedono il blocco totale degli investimenti stranieri nel paese, blocco che finora non c’è stato. Francia, Gran Bretagna, India, Russia e sopratutto Cina continuano a fare affari con la giunta del generale Than Shwe. L’occidente, Stati Uniti e Europa, devono fare pressione su Pechino, dalle cui decisioni dipende il nostro futuro. Noi birmani siamo consapevoli di questo: il destino del nostro paese è legato a quello della Cina. La giunta militare si ispira apertamente al modello politico ed economico cinese, attribuendone il successo alla fermezza con cui Pechino ha saputo stroncare sul nascere, nell’’89, l’emergere di quelle cosiddette ’forze distruttive’ che invece qui in Birmania continuano a creare ’instabilita’ e disordine’ ritardando il progresso del paese. Questo è quello che si legge sulla stampa di regime in questi giorni, guardate qua", dice Tyan mostrandoci i titoli del ’New Light of Myanmar’ che esaltano l’operato degli ’eroici’ soldati contro ’i nemici della pace’. "Questa dittatura - continua - concepisce solo la logica della repressione. Solamente la Cina, da cui questo regime dipende politicamente ed economicamente, può convincere i generali a cambiare strada".
Usciamo dal quartier generale della Nld. Nessuno ci segue. Scoppia l’ennesimo acquazzone. La stagione delle piogge non è ancora finita. E, almeno per ora, nemmeno quella della dittatura militare birmana.
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Giovedì, 04 ottobre 2007