IL 4 aprile di quaranta anni fa a Memphis, nel Tennessee, alle 18,01 una mano invisibile, da circa 60 metri, preme il grilletto di un fucile Re-mington dotato di mirino telescopico e colpisce in pieno volto il pastore battista Martin Luther King. King era corso a Memphis il 28 marzo da New York per portare il suo appoggio a uno sciopero di spazzini, invitato per parlare di salari, di sindacati, di contratti, per incoraggiare gli scioperanti a vincere lostilità dei quadri sindacali tutti bianchi e rivendicare uguali diritti e paghe per lavori uguali. Gli uomini e le donne non potevano più essere impiegati e pagati in base al colore loro pelle. King riteneva importante che venissero varati dei piani specifici per combattere la povertà e lemarginazione. La sua formazione teologica comprendeva i contributi di Reinhold Niebuhr, teologo e militante del Partito socialista americano, e di Walter Rauschenbu-sch pastore battista e promotore del movimento Social Gospel. Influenzati dalle esperienze socialiste cristiane inglesi, per le quali la fede era anche senso di responsabilità e solidarietà, essi proponevano una teologia che si interessasse anche politicamente della vita dei più deboli. King arrivò a Memphis in ritardo quando la marcia era già iniziata. Si accorse subito che qualcosa non andava. Allimprovviso decine di giovani uscirono dalle file del corteo e al grido di «Black Power» cominciarono a fracassare tutto quello che trovarono. La polizia caricò. King fu costretto dai suoi amici ad andare via. Un ragazzo venne ucciso e i suoi collaboratori lo videro piangere disperato. Per la prima volta in una marcia da lui guidata erano scoppiati disordini e violenze. Sua moglie Coretta racconterà la profonda depressione del marito nei giorni che seguirono la manifestazione. Jesse Jackson ricordando quei momenti disse: «Alcuni di noi non capirono che egli stava attraversando un momento di estrema tensione; si trovava nellorto del Getsemani, tentava dintravedere la via da seguire e di prendere la decisione giusta». Gli ultimi giorni King aveva soltanto cinque giorni di vita. In questi ultimi giorni trovò ancora nella fede la forza per andare avanti. Anni prima in un altro momento difficile della sua vita aveva confessato: «La mia esperienza con Dio mi aveva dato nuova forza e fiducia. Sapevo ormai che Dio è capace di darci le risorse interiori per affrontare le tempeste e i problemi della vita». Jackson ricordò che in quelle ultime ore Martin L. King gli confidò che aveva visto la montagna dellAntico Testamento. La montagna lo aspettava quel mercoledì 3 aprile di quaranta anni fa. Quel giorno, sotto una pioggia battente, qualcuno stava preparando un omicidio. Era in programma un suo discorso, quella sera, ma i suoi collaboratori gli sconsigliarono di andare. La pioggia, dicevano, ridurrà il pubblico e darà modo alla stampa di screditare ulteriormente la sua figura. Pensieroso, decise di farsi sostituire da un altro conferenziere. Ma dopo pochi minuti il pastore Ralph Abernathy lo chiamò e gli disse che cerano quasi duemila persone nel Mason Temple che desideravano vederlo e udirlo. King indossò un impermeabile e uscì sotto la pioggia per la sua ultima predicazione, forse la più bella e più commovente della sua vita. Credo che questa ultimo toccante discorso rappresenti ancora oggi un esempio su come deve essere costruita una predicazione. Esprime lunicità di questo pastore capace di coniugare tematiche sociali controverse con la profondità del testo biblico e con i richiami alla sua vita di ogni giorno. Testamento spirituale Le sue parole sono un testamento spirituale di un uomo che sembra conoscere il futuro che lo attende, lo stesso del presidente Kennedy a Dallas e di Malcom X ad Harlem. King sapeva che lAmerica che solo nel 1963 lo aveva incoronato «Uomo dellanno», quel popolo che era andato fino a Washington per sentire il famoso predicatore cristiano nero, non gli avrebbe perdonato di dire la verità sulla sporca guerra combattuta in Vietnam, e sul modello capitalistico americano, un sogno non alla portata di tutti. King, contro il parere di alcuni leader neri che temevano di perdere amici a Washington, cominciò a schierarsi pubblicamente contro la guerra del Vietnam. Collegava la guerra alla povertà: «Spendiamo tutto questo denaro per la morte e la distruzione e non ne destiniamo abbastanza alla vita e allo sviluppo costruttivo». Oggi conosciamo molte cose su quella impresa bellica. Sappiamo che nel corso dei combattimenti furono sganciate sul Vietnam, sul Laos, e sulla Cambogia sette milioni di tonnellate di bombe, più del doppio di quelle lanciate sullEuropa e sullAsia durante tutta la Seconda Guerra mondiale. Inoltre gli aerei spargevano sostanze velenose per distruggere gli alberi e ogni tipo di vegetazione: fu irrorata di veleno unarea di estensione pari a quella dello stato del Massachussetts. Il 12 agosto 1965 King chiede la moratoria dei bombardamenti sul Vietnam per facilitare la soluzione negoziata del conflitto. Dirà: «Per tutto il corso della mia vita ho rifiutato la violenza e la guerra come soluzione dei problemi dellumanità. Sono fermamente persuaso del potere creativo della nonviolenza, come di una forza capace di condurre a una fraternità durevole e significativa a alla pace. Per me è talmente evidente il rapporto che lega il mio ministero pastorale al dovere di costruire la pace, che talvolta mi stupisco che mi si domandi come mai parlo contro la guerra. Comè possibile che i miei interlocutori non sappiano che la “Buona Novella” si rivolge a tutti gli uomini: ai comunisti e ai conservatori, ai loro figli e ai nostri, ai neri e ai bianchi, ai rivoluzionari e ai conservatori? Hanno dimenticato che il mio ministero è istituito in obbedienza a colui che ha amato i suoi nemici al punto di morire per loro? E allora, che cosa posso dire ai Vietcong, o a Castro o a Mao, in qualità di ministro fedele di costui? Posso minacciarli di morte, o dovrò invece condividere con loro la mia vita?». King, nei sei mesi precedenti il suo assassinio, intensificò i suoi interventi contro la guerra. Affiancò in questa battaglia altri due importanti personaggi, entrambi nati in una famiglia battista, Malcom X e Cassius Clay, il primo figlio di un pastore battista ucciso dal Ku Klux Klan. Nel dicembre del 1967, il Fronte di liberazione vietnamita lanciò una contro offensiva a sorpresa (nei giorni del Tet, il Capodanno vietnamita), che lo portò a ridosso di Saigon. Loffensiva fu respinta ma le perdite americane furono ingenti. Lesercito tentò di nascondere allopinione pubblica lepisodio, ma nel marzo del 1968 la crudeltà della guerra cominciò a turbare la coscienza di molti cittadini. Quarantamila giovani erano già morti e duecentocinquantamila erano stati feriti. Lamministrazione americana non poteva tollerare le critiche, sempre più condivise dallopinione pubblica americana, da parte del predicatore battista. Uomo bersaglio King divenne allora un bersaglio prioritario per lFbi che intercettava le sue telefonate, gli inviava lettere false, lo minacciava, lo ricattava e una volta lo invitò con una lettera anonima a suicidarsi. Documenti interni dellFbi accennano alla necessità di trovare un leader nero che rimpiazzasse King. Un rapporto al Senato avrebbe rivelato che nel 1976 lFbi tentò di «distruggere in tutti i modi il dottor Martin Luther King», anche attraverso pettegolezzi infondati. Il 18 luglio 1968 LEuropeo pubblica delle rivelazioni di un ex agente dellFbi, William W. Turner. Lagente si ricorda di una delle tante fotografie scattate sulla collinetta che sovrasta la Dealey Plaza, dalla quale secondo molti testimoni, fu sparato il presidente Kennedy. Nella fotografia si vede un uomo circondato da poliziotti. Quelluomo è James Earl Ray, lassassino di King. Appare subito strano che lassassino del ministro battista fosse riuscito da solo a organizzare con tanta cura lomicidio. Non fermarsi mai Il leader nero decise solo allultimo momento di fermarsi a Memphis e di dormire proprio in quellalbergo. Solo chi ascoltava di nascosto tutte le telefonate dello staff di King poteva conoscere perfettamente i suoi movimenti. Nessuno sa realmente ciò che attraversò la mente di King quella sera al Mason Temple. Disse: «Non ci sarebbe tragedia peggiore che fermarsi a questo punto, a Memphis. Dobbiamo andare fino in fondo». Nessuno sa perché quella sera parlò diverse volte della sua morte. Cominciò a parlare dimenticando gli appunti del discorso che aveva preparato: «Anche noi, come Davide, - disse - in tante circostanze della vita dobbiamo arrenderci ai fatti: i nostri sogni non si sono realizzati». Cinque anni prima ai piedi del monumento di Abramo Lincoln aveva convinto la folla dicendo: «I Have a dream». In quel caldo giorno di agosto ad ascoltarlo erano andate più di duecentocinquantamila persone. Quella fu la prima e ultima protesta civile trasmessa in diretta dalle televisioni statunitensi. Il «discorso del sogno» è diventato un evento universale per tutte le generazioni contemporanee e successive come lo sbarco in Normandia, labbattimento del muro di Berlino o lo studente cinese davanti ai carri armati a Tienanmen. Da allora quel sogno appartiene a ciascuno di noi. King annunciando il suo sogno raggiunse lapice della popolarità. Diventò la coscienza morale dellAmerica. Cinque anni dopo il suo più famoso discorso, cominciò invece parlando di sogni infranti. Aveva chiesto al suo Paese di essere allaltezza di quegli ideali e ora si rendeva conto che quel sogno era ancora lontano. Disse: «Così è la vita. Quello che mi rende felice è che attraverso la prospettiva del tempo riesco a sentire una voce che grida: forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore. È bene che tu ci provi. Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare. È bene che sia stato nel tuo cuore». Qualche ora più tardi apparirà come se egli avesse saputo esattamente ciò che stava per accadere. Terminò quella sera dicendo: «Ci aspettano giorni difficili. Ma davvero, per me non ha importanza perché sono stato sulla cima della montagna. Come chiunque, mi piacerebbe vivere a lungo: la longevità ha i suoi lati buoni. Ma adesso non mi curo di questo. Voglio fare la volontà di Dio. E Lui che mi ha concesso di salire fino alla vetta. Ho guardato al di là, e ho visto la terra promessa. Forse non ci arriverò insieme a Voi. Ma stasera voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. E stasera sono felice. Non ce niente che mi preoccupi, non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria del Signore (…). Se riesco a fare il mio dovere come dovrebbe fare un cristiano, se riesco a diffondere il messaggio come il Maestro ha insegnato, allora la mia vita non sarà stata invano». Uscì nella pioggia incoraggiato dagli applausi, lasciando a neri e bianchi la propria speranza e la prefigurazione di un futuro di armonia tra le razze, la sua visione di una umanità restituita. Qualche ora più tardi una mano premerà un grilletto di un fucile. Quel pomeriggio Robert Kennedy stava parlando a Indianapolis, quando gli passano un biglietto. Diventa pallidissimo, mormora con voce commossa: «Ho una notizia gravissima da darvi. Martin Luther King è stato assassinato. Anche mio fratello è stato ucciso in questo modo… Tocca a noi che rimaniamo realizzare il sogno per cui hanno sacrificato la vita, la giustizia e lamore tra gli uomini». Due mesi dopo toccherà a lui.
Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 144 - numero 14 - 4 aprile 2008. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo
Domenica, 06 aprile 2008
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