Martin Luther King e Gandhi

di Enrico Peyretti

Un messaggio di Gandhi agli afro-americani; Gesu’ e Gandhi; La scoperta di Gandhi; Spiritualita’ nera; Pacifismo non superficiale; Il modello di Cristo reinterpretato; Religione e storia; La condanna della guerra; Democrazia, violenza, guerra; Originalita’ di Martin Luther King; Parole ultime, supreme



Cerchero’ di vedere, nel suo cammino di formazione, di pensiero e di azione, il rapporto di Martin Luther King con Gandhi, l’influenza di Gandhi sul suo spirito e sulla sua azione.

Ernesto Balducci scrive che il linguaggio dei sermoni di Martin Luther Kimg e’ "piano, empirico, scevro da profondi concetti". Sembra una svalutazione, ma, continua Balducci, essi "nascono da una sintesi profonda e svelano inaspettate possibilita’ storiche" (Presentazione, in King, La forza di amare, Sei, Torino 1967, p. 14). Si potrebbe dire lo stesso dei discorsi, conversazioni, lettere e articoli di Gandhi, anch’egli efficace comunicatore diretto, piu’ che scrittore, di calde verita’ scoperte nell’esperienza. Anche King come Gandhi potrebbe intitolare una sua autobiografia Storia dei miei esperimenti con la verita’.

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Un messaggio di Gandhi agli afro-americani

Si scopre subito un curioso casuale punto di contatto fra Gandhi e King: Gandhi, nel 1929, attraverso una delegazione guidata proprio da Mordecai Johnson (influente maestro di King), invia un messaggio agli afro-americani: "Non lasciate che dodici milioni di neri si vergognino del fatto di essere nipoti di schiavi. Non v’e’ disonore nell’essere schiavo. C’e’ disonore nell’essere proprietari di schiavi. Ma non pensiamo in termini di onore o disonore in rapporto al passato. Rendiamoci conto che il futuro e’ con quelli che vorranno essere veritieri, puri e amorevoli. Giacche’, come gli antichi saggi hanno detto, la verita’ sempre e’, la menzogna non e’ mai stata. L’amore soltanto vincola, e verita’ e amore maturano solo per chi e’ sinceramente umile".

Molti afro-americani andavano in pellegrinaggio da Gandhi. Ad un altro gruppo di loro, sei anni dopo, nel 1935, Gandhi chiese di cantare un inno cristiano, che amava, Were you there when they crucified my Lord? Gandhi era molto sensibile, come dimostro’ anche nel suo passaggio a Roma nel 1931, alla figura di Cristo crocifisso, che in quella occasione contemplo’ nella Cappella Sistina. Dopo quel canto, egli rimase un po’ in silenzio, poi disse: "Forse sara’ attraverso il nero che il messaggio della nonviolenza non adulterato sara’ consegnato al mondo" (cfr. Gabriella Lavina, Serpente e colomba. La ricerca religiosa di Martin Luther King, Edizioni Citta’ del Sole, Napoli 1994, pp. 290-291. Il messaggio di Gandhi del 1929 fu pubblicato nel fascicolo di luglio 1929 di "The Crisis", periodico per la promozione della gente di colore).

Non sembra forse, quel messaggio di Gandhi, un sermone di King? Egli infatti "ne ripetera’ il concetto, fino alla fine, quasi alla lettera" (Lavina, op. cit., p. 310). Ma la coincidenza curiosa, si direbbe addirittura provvidenziale e profetica, e’ che King e’ nato il 15 gennaio 1929, ed e’ un bambino di pochi mesi quando Gandhi, quasi come Simeone nel tempio col piccolo Gesu’ tra le braccia (Luca 2, 25-35), pronuncia queste parole ai neri americani, come per investire Martin Luther King della sua missione, per le vie invisibili dello spirito. Sono entrambi membri di una popolazione assoggettata, privata di diritti, di indipendenza, di autonomia.

Accomuna i due personaggi la condizione di appartenenza ai poveri e oppressi. King, nero, discendente da schiavi, e Gandhi, extraeuropeo, membro di un popolo colonizzato, hanno in comune piu’ di quanto li separa. Prima del metodo di lotta per il loro diritto, prima della coscienza, della cultura, della spiritualita’, della forza della pazienza, hanno in comune la condizione di partenza. E noi cristiani vediamo che quella condizione di servo e’ la condizione umana assunta dal Figlio di Dio: non solo l’umanita’, ma la condizione di servo: "Non stimo’ un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma annichili’ se stesso prendendo natura di servo, diventando simile agli uomini; ed essendo quale uomo, si umilio’ facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Filippesi, 2, 6-8).

Il fatto che Dio assuma l’umanita’ del sevo - scrive Raniero La Valle - significa che "gli uomini considerati piu’ lontani, piu’ dissimili e incommensurabili a Dio in questo mondo, proprio loro non si possono separare dall’amore di Dio, (...) proprio loro, i servi, gli schiavi, i neri, gli indigeni, le donne, i bambini, gli esclusi, gli esuberi, i poveri, i profughi, sono i cittadini del regno" (Se questo e’ un Dio, Ponte alle Grazie, 2008, p. 158).

Appartenendo a popoli di servi, sia King che Gandhi, hanno questa somiglianza col Cristo, e gli somigliano anche perche’, nel servire i loro popoli nel cammino della dignita’, nel "pellegrinaggio alla nonviolenza", anch’essi operano con un amore forte come la morte, che patiscono entrambi, ingiusta e violenta, a vent’anni di distanza l’uno dall’altro.

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Gesu’ e Gandhi

"Gesu’ forniva lo spirito, Gandhi il metodo" (M. L. King, Stride toward freedom. The Montgomery Story, 1958, p. 67; trad. ital. Marcia verso la liberta’, 1968). E’ nota questa sintesi, per King, del rapporto tra Gesu’, il vangelo, la nonviolenza evangelica, e la lezione dell’esperienza di Gandhi. Mentre gli autori afro-americani valorizzano in King la denuncia del razzismo della societa’ bianca, gli autori euro-americani identificano King con la nonviolenza, intesa come ripudio della violenza. Per questi autori, la nonviolenza sarebbe il frutto della tradizione sociale cristiana, e precisamente della cultura teologica protestante di King, che avrebbe preso il concetto da Gandhi, ma solo strumentalmente. Quella formula sintetica di King su Gesu’ e Gandhi darebbe ragione a questi autori.

Pero’ la nonviolenza non e’ automaticamente correlata al cristianesimo storico, che ha trasmesso nella storia il messaggio di Gesu’. King e’ un cristiano che vive il suo cristianesimo nell’esperienza nonviolenta, che e’ gia’ nell’evangelo ma e’ chiarita, riscoperta, applicata alla politica e alla storia, sviluppata nella pratica collettiva, rammemorata da Gandhi agli stessi cristiani, i quali nella storia l’avevano largamente rinnegata (cfr Lavina, op. cit., p. 38).

King dichiara, nel 1963, "Sono felice di dire che il movimento nonviolento in America non e’ derivato da forze secolari ma dal cuore della Chiesa Nera. (...) I grandi principi di amore e giustizia che stanno al centro del movimento nonviolento sono profondamente radicati nella nostra tradizione giudaico-cristiana". Dice "dal cuore della Negro Church". Gabriella Lavina ne deduce che "le fonti del pensiero di King non si esauriscono in quelle incontrate in seminario" (p. 64). Nella tradizione giudaico-cristiana c’era la radice, ma non c’era lo sviluppo, che e’ avvenuto nella impresa dei popoli schiavi di liberarsi dalla violenza evitando di cadere schiavi della violenza.

Scrive King: "La tradizione religiosa del nero gli ha mostrato che la resistenza nonviolenta dei primi cristiani ha costituito un’offensiva morale di una tale devastante forza da far vacillare l’impero romano. La storia americana gli ha insegnato che la nonviolenza, sotto forma di boicottaggi e proteste, ha disorientato la monarchia britannica e posto le basi per la liberazione delle colonie dall’ingiusta dominazione. E, nel corso di questo secolo, l’etica nonviolenta del Mahatma Gandhi e dei suoi seguaci ha fatto tacere le armi dell’impero britannico in India e ha liberato oltre 350 milioni di persone dal colonialismo" (testo citato in King, Il sogno della nonviolenza. Pensieri, a cura di Coretta King, Feltrinelli 2006, pp. 76-77). E scrive anche: "Noi abbiamo un potere, e’ un potere che non si trova nelle bottiglie molotov, ma noi abbiamo un potere. Un potere che non si trova nelle pallottole o nelle pistole, ma noi abbiamo un potere. E’ un potere antico come la sapienza di Gesu’ di Nazareth e moderno come le tecniche del Mahatma Gandhi" (ivi, p. 71).

Dunque, Gandhi aiuta Martin Luther King non solo a riscoprire e valorizzare le radici cristiane della nonviolenza, ma a capirla meglio correggendo un modo errato di pensarla, come vedremo tra poco.

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La scoperta di Gandhi

Quando parla della sua vita, a piu’ riprese, Martin Luther King ne parla come di un pellegrinaggio, e precisamente un "pellegrinaggio alla nonviolenza". Con questo titolo King pubblico’ in successive versioni un testo autobiografico (apparso in italiano in due differenti versioni nel volume citato La forza di amare, e nella rivista "Azione nonviolenta", aprile-maggio 1968, poi, insieme a Lettera dal carcere di Birmingham, del 1963, nel n. 14 dei Quaderni di Azione Nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, 1993, dal quale cito). In esso, King riferisce dei suoi studi superiori in teologia e filosofia, intrapresi nel 1948, delle ampie letture, tra cui il Saggio sulla disobbedienza civile, di Thoreau (che gia’ aveva ispirato Gandhi; e attraverso Gandhi, King capi’ Thoreau piu’ come trascendentalista che come anarchico; v. Lavina, op. cit., p. 240, 262-263); lesse Marx, Nietzsche, gli utilitaristi, Hobbes, Rousseau.

Aveva sentito parlare di Gandhi, ma non lo aveva mai studiato seriamente, quando, nella primavera del 1950 (Lavina, op. cit., p. 287), ascolto’ a Philadelphia un sermone del dottor Mordecai Johnson, che era appena tornato da un viaggio in India e parlo’ della vita e dell’insegnamento di Gandhi. "Il suo messaggio era cosi’ profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi", scrive King. "Fui profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta". "Il mio scetticismo riguardo la potenza dell’amore gradualmente diminui’ e giunsi, per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma sociale".

Aggiunge che, prima, credeva che l’etica di Gesu’ fosse efficace soltanto nei rapporti individuali, "ma, dopo aver letto Gandhi, vidi che ero completamente in errore". "Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesu’ al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace, (...) strumento potente per operare un mutamento sociale collettivo". In Gandhi "scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti mesi". "Giunsi a sentire che questo era l’unico metodo, moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la liberta’" (Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp. 21-22).

Nell’autunno dello stesso 1950, King fa una relazione su Gandhi in un corso sulle "personalita’ religiose", con una bibliografia notevolmente ampia, e ne approfondisce la personalita’ e il pensiero. Tuttavia, il suo interesse per Gandhi non lo fa ancora impegnare, come altri studenti, in nessuna organizzazione "pacifista" (Lavina, op. cit., pp. 286-287 e 308).

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Spiritualita’ nera

Restiamo un momento sulla figura di questo maestro di King, Mordecai Johnson: predicatore battista, personalita’ della cultura afro-americana, conscio di dovere ricostruire una visione del mondo libera dai condizionamenti della schiavitu’, esprime la delusione degli afro-americani al termine della prima guerra mondiale, ma non condivide atteggiamenti di protesta radicale. Negli anni Venti aveva dichiarato: "Un piu’ largo gruppo tra noi crede nella religione e crede nei principi della democrazia, ma non nella religione delliuomo bianco e non nella democrazia delliuomo bianco". Egli e’ persuaso che il credo schiavista e’ il credo tacito dell’intera nazione americana, e che "il nero non puo’ aspettarsi di acquisire liberta’ economica, politica e spirituale in America". All’epoca, partecipava al movimento per la fondazione della Republic of Africa. Anche la concezione di Dio era contrapposta a quella dei bianchi: "un Dio che si oppone allo sfruttamento e che ama tutta l’umanita’". I bianchi affermano i principi, ma nella realta’ li applicano per millimetri e con riluttanza. Mordecai Johnson era persuaso della imminente sconfitta del colonialismo grazie a "un uomo religioso in India che non conosceva violenza". L’abolizione della segregazione avrebbe distrutto le fondamenta stesse della civilta’ americana e della supremazia bianca nel mondo, percio’ era tanto paventata e impedita. Un vero superamento del sistema non poteva venire dalla legislazione, ma da convinzione morale e forza spirituale; non sarebbe bastato l’assenso della maggioranza, ma occorreva un "salto" nella "qualita’ dell’anima" (cfr. Lavina, op. cit., pp. 288-290). E’ evidente l’affinita’ col sentire di King. Grazie a queste correnti spirituali che incontra, King trova nella comunita’ afro-americana un interesse e una disponibilita’ allo spirito di Gandhi.

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Pacifismo non superficiale

King fa anche lui un viaggio in India nel 1959, per studiare le tecniche nonviolente di Gandhi, ed e’ ospite di Nehru. Scalzo, rende omaggio al mausoleo di Gandhi, nel punto in cui fu eretto il rogo funebre, a Delhi (strano errore quello di Lavina, che parla della "tomba" di Gandhi, a p. 62).

Continuando a narrare il suo "pellegrinaggio alla nonviolenza", King ci dice di aver letto la critica che al pacifismo rivolgeva Reinhold Niebuhr (che pure era stato presidente del Mir, Movimento per la Riconciliazione). Niebuhr rifiutava il pacifismo soprattutto perche’ esso "non era in grado di rendere giustizia alla dottrina della Riforma sulla giustificazione per fede, sostituendo ad essa un perfezionismo settario, che crede che ’la grazia divina realmente solleva gli uomini fuori dalle immorali contraddizioni della storia e pone l’uomo al di sopra dei peccati del mondo’". Niebuhr giudicava che Gandhi avesse avuto buon gioco con gli inglesi perche’ questi possedevano una coscienza morale. Noi pero’ sappiamo che il dominio inglese fu anche assai duro, fino a casi estremi come la strage di Amritsar (1919) e i bombardamenti dei villaggi (cfr Eknath Easwaran, Badshah Khan il Gandhi musulmano, Sonda, Torino 1990, pp. 14-15): il bombardamento aereo sistematico di obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalalabad nel 1919 dalla Royal Air Force, e su villaggi della Frontiera, sostenendo che con quelle popolazioni non si poteva condurre la "guerra civilizzata". Alla conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento aereo su civili. Dapprima confuso dalla critica di Niebuhr, King ne vide poi piu’ chiaramente gli errori, e scrive: "Egli interpretava il pacifismo come una specie di non-resistenza passiva al male" e una "ingenua fiducia nel potere dell’amore". Questo era un "grande fraintendimento", scrive King: "Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero pacifismo non e’ non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al male. Fra le due posizioni c’e’ enorme differenza".

Pero’, Niebuhr influenzo’ su diversi punti il pensiero di King, in maniera costruttiva: egli riconosce che il grande contributo di Niebuhr consiste nel "rifiuto del falso ottimismo" teologico nella concezione dell’uomo. Questo aiuto’ King "a riconoscere le illusioni di un superficiale ottimismo concernente la natura umana, e i pericoli di un falso idealismo". Egli vedeva che molti pacifisti "avevano un ottimismo infondato riguardo all’uomo e tendevano inconsciamente verso l’ipocrisia". Per questo motivo King non entro’ mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive ancora: "Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi morali che i non-pacifisti cristiani affrontano" (Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp. 22-23).

Concludendo questo testo con la descrizione di sei aspetti fondamentali della nonviolenza, King dimostra di avere studiato e compreso a fondo lo spirito e i metodi di Gandhi, che vede in armonia con l’agape cristiana, l’amore fino ai nemici (ivi, pp. 25-28).

Quando ancora, negli anni ’50, King e’ occupato nell’approfondimento del pensiero di Niebuhr, incontra quel suo interrogativo, confermato dalla storia, relativo alla Realpolitik: "Se per distruggere una forza [un egoismo] ce ne vuole un’altra [altri egoismi], che garanzie ci sono che la seconda forza possa essere resa piu’ morale della prima?". Niebuhr si accontenta della proposta di contenere la coercizione necessaria nei limiti minimi compatibili con i fattori morali e razionali. King, avvicinandosi a Gandhi, comprende che il problema si sposta dal dilemma irrealistico coercizione/persuasione a quello "tra coercizione violenta e coercizione nonviolenta" (cfr Lavina, op. cit., pp. 353-354). La nonviolenza, infatti, e’ una forza, e’ anche una forza che piega e costringe l’avversario. Ma e’ una costrizione che non infligge sofferenza ingiusta, non viola la liberta’ altrui, ma certamente preme sull’oppressore col rendergli, mediante la resistenza, piu’ costosa la continuazione dell’oppressione che il suo abbandono o attenuazione (v. il mio Esperimenti con la verita’. Saggezza e politica di Gandhi, Ed. Pazzini, 2005, pp. 48 e 51-52, e Giuliano Pontara, Il pensiero etico-politico di Gandhi, saggio introduttivo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. CII-CIV). Questa e’ la coercizione nonviolenta, che non e’ una violenza mascherata, non e’ affatto costringere l’avversario a fare la mia volonta’ per mezzo della sofferenza che gli infliggo; e’ invece mettere l’avversario nella condizione di vedere che, se infligge a me sofferenza ingiusta, anche lui deve incontrare un costo, un prezzo, che gli conviene evitare. La parte che lotta per la giustizia resiste all’ingiustizia accollandosi la sofferenza invece di infliggerla; ma cosi’ il dominare e far soffrire uno che non subisce passivamente, fa spendere piu’ energia e mezzi al dominatore, fino a indurlo, per convenienza se non per coscienza, a scendere a patti e negoziare una relazione meno ingiusta o piu’ giusta.

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Il modello di Cristo reinterpretato

L’affinita’ "intima, e non presuntuosa o ’strategica’" tra King e Gandhi si era stabilita sulla base di una reinterpretazione del modello di Cristo: non piu’ il modello della acquiescenza umile e passiva, della sua disposizione alla sofferenza (Lavina, op. cit. p. 295). Secondo il teologo Howard Thurman, frequentato da King, le chiese cristiane avevano "tradito gli ultimi, con la loro enfasi sul paradiso, il perdono, l’amore e simili". Addirittura, diceva che "trovava molto poco di significativo o intelligente negli insegnamenti della chiesa concernenti Gesu’ Cristo".

Thurman aveva personalmente chiesto a Gandhi: "Qual e’ il piu’ grande ostacolo che Gesu’ ha in India?". E Gandhi aveva risposto "istantaneamente": "Il cristianesimo" (Lavina , op. cit. p. 297). E’ noto che Gandhi, profondo ammiratore di Gesu’, era convinto che il cristianesimo ortodosso "ha travisato il messaggio di Gesu’. (...) Quando ebbe l’appoggio di un imperatore romano, esso divento’ una fede imperialista, quale rimane tutt’ora. Naturalmente ci sono nobili seppur rare eccezioni, ma l’orientamento generale e’ quello che ho indicato" (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunita’, 1965, p. 83). Thurman possedeva una lettera di Gandhi indirizzata a Muriel Lester, nella quale leggeva lo stesso atteggiamento di "completa e devastante sincerita’", di devozione alla verita’, che fu di Gesu’ col discorso del "si’ se e’ si’, no se e’ no", senza modifiche ne’ aggiunte.

Sicuramente Gandhi ha, come Gesu’, la capacita’ di soffrire per gli altri e di testimoniare con questa forza coraggiosa la verita’ del suo messaggio, ma, contro ogni collaborazione passiva al male, esorta a ribellarsi anche con la violenza piuttosto che subire l’ingiustizia, ma ricorda sempre che c’e’ una terza migliore possibilita’, che e’ la forza della nonviolenza. In prima istanza deve esserci la risposta attiva al male, in seconda istanza deve esserci la scelta della risposta nonviolenta invece che violenta (cfr. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press, 2004, pp. 287-288). King ha insegnato e ha vissuto il coraggio di saper soffrire per la giustizia, insieme alla franca "assertivita’", come viene definito l’atteggiamento che Erich Fromm chiama "aggressivita’ benigna", azione costruttiva, differente dalla aggressione maligna, distruttiva (cfr. tutta la terza parte di Anatomia della distruttivita’ umana, Mondadori 1979).

Il "potere su se stessi" e’ l’insegnamento piu’ forte che Thurman raccoglie da Gandhi, e che, attraverso la mediazione gandhiana, vede anche piu’ lucidamente in Gesu’. La coscienza interiore di Gesu’, la sua totale comunione con Dio, sono quel "potere di", e non "potere su" qualcun altro, che gli consente di resistere alle tentazioni, di sostenere la sua missione fino al coraggio di morire per amore, di amare totalmente l’umanita’ e la verita’. Cosi’, come scrive Benjamin Mays (un’altra personalita’ influente su King), se anche si volesse giudicare fallita la campagna nonviolenta di Gandhi, "il fatto che Gandhi abbia dato alle masse indiane una nuova concezione del coraggio, nessuno puo’ onestamente negarlo. Disciplinare la gente a guardare in faccia la morte, a morire, ad andare in carcere per la causa, senza paura e senza ricorrere alla violenza, e’ un risultato di prima grandezza. E quando una razza oppressa smette di avere paura, e’ libera. I principi cardinali della nonviolenza sono amore e impavidita’" (cfr Lavina, op. cit., p. 307).

Analogamente, scrive Galtung: "Una rivolta del tipo auspicato da Gandhi ha inizio dall’acquisizione di un forte potere su se stessi, e la chiave e’ il rispetto di se stessi, connesso con un forte sistema di credenza" (Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, 1987, p. 175, citato da Lavina, p. 373).

A questi aspetti cruciali dell’insegnamento e dell’esperienza di Gamdhi, Martin Luther King mostrera’ di consentire profondamente, anzitutto con le sue decisioni, le azioni personali e gli incoraggianti esempi agli altri, poi anche in alcune grandi pagine, come, per esempio, il capitolo "Antidoti per la paura", ne La forza di amare (gia’ citato), e, in questo stesso libro, quella specie di intimazione d’amore agli avversari: "Noi faremo fronte alla vostra capacita’ di infliggere sofferenza con la nostra capacita’ di sopportare le sofferenze, andremo incontro alla vostra forza fisica con la nostra forza d’animo. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. (...) Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacita’ di soffrire. Un giorno, noi conquisteremo la liberta’, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello al vostro cuore e alla vostra coscienza che alla lunga conquisteremo voi, e la nostra vittoria sara’ una duplice vittoria" (La forza di amare, p. 87).

Quando traccia un bilancio dell’esperienza di Montgomery, King intreccia costantemente l’insegnamento di Gandhi con quello di Gesu’. Sempre piu’ chiaramente, ai suoi occhi, l’amore di cui parlo’ Gesu’ si e’ andato identificando con la nonviolenza e la disponibilita’ al sacrificio di Gandhi (cfr. Lavina, op. cit., p. 557).

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Religione e storia

Abbiamo visto, dunque, che l’interesse per Gandhi aveva radici profonde nella comunita’ afro-americana, e che King lo mutua anzitutto dal suo ambiente, anche se vi aggiunge un’attenzione viva e personale. Ma solo piu’ tardi, nel vivo dell’azione diretta, questo impatto verra’ alla luce piu’ pienamente, e sara’ pienamente compreso dallo stesso King. Da Gandhi si sente affascinato. Ne studia le campagne sudafricane, poi le lotte indiane. Dichiara "profondamente significativo" per lui il concetto di Satyagraha che, eguagliando verita’ (satya) e amore, egli traduce immediatamente in "forza della verita’, ovvero forza dell’amore", espressione sua caratteristica. Come abbiamo gia’ sentito, riconosce in Gandhi "la prima persona nella storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesu’, al di sopra della semplice interazione tra individui, a forza sociale potente ed efficace su una larga scala. Per Gandhi l’amore era uno strumento potente per la trasformazione sociale e collettiva". Dice che grazie a Gandhi scopri’ "nell’amore e nella nonviolenza (...) il metodo per la riforma sociale di cui ero stato alla ricerca per tanti mesi" (Cfr. Lavina, op. cit., p. 319 e 338).

"Qualsiasi religione che professa l’interesse per le anime degli uomini e non per le condizioni sociali ed economiche che sfregiano l’anima, e’ una religione spiritualmente moribonda in attesa del giorno della sepoltura. E’ stato affermato giustamente: ’Una religione che finisce con l’individuo, muore’" (Pellegrinaggio alla nonviolenza, p. 18).

"Io non riesco a vedere alcun conflitto tra la nostra devozione a Gesu’ Cristo e la nostra azione presente. In effetti, io vedo una relazione necessaria. Se si e’ veramente devoti alla religione di Gesu’ si cerchera’ di liberare la terra dai mali sociali. Il vangelo e’ sociale tanto quanto personale. Stiamo soltanto facendo in tono minore quello che Gandhi fece in India, e certamente egli e’ considerato da molti un santo" (Stride toward freedom, citato, p. 98; in Lavina, p. 477).

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La condanna della guerra

Sappiamo che King passo’, nell’ultimo periodo, dalla lotta per i diritti civili dei neri, alla condanna della guerra, che era allora la guerra del Vietnam. Probabilmente fu questo che gli costo’ la vita. In un discorso del 4 aprile 1967, un anno esatto prima di essere ucciso, diceva di condurre "un processo appassionato alla mia amata nazione", di essere "costretto a vedere sempre piu’ nella guerra il nemico diretto dei poveri", di dover denunciare "il piu’ grande produttore di violenza del mondo d’oggi: il governo della mia stessa nazione". Il problema era "salvare l’anima dell’America".

Ripercorre la storia del Vietnam, fino al momento presente, in cui "siamo stati vittime della nostra omicida arroganza occidentale, che avvelena da tanto tempo la scena internazionale". "Il vero senso, il valore reale della compassione e della nonviolenza e’ aiutarci a comprendere il punto di vista del nemico, ascoltare le sue ragioni, conoscere il modo con cui ci giudica". "Siamo noi che abbiamo cominciato la guerra. Sta a noi prendere l’iniziativa per fermarla. (...) L’immagine dell’America non sara’ mai piu’ l’immagine della rivoluzione, della liberta’ e della democrazia, ma della violenza e del militarismo". "Un’autentica rivoluzione dei valori significa, in ultima istanza, che le nostre fedelta’ debbono divenire ecumeniche, e non semplicemente parziali, perche’ e’ sviluppando una fedelta’ primordiale all’umanita’ tutta intera che le nazioni preserveranno il meglio della loro originalita’" (Martin Luther King, Oltre il Vietnam, La Locusta, Vicenza 1968, pp. 9, 11, 14, 19, 27, 32, 45).

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Democrazia, violenza, guerra

In queste parole molto gravi di King si vede pure l’influenza implicita di Gandhi.

Sulla "vera democrazia" Gandhi aveva scritto il 12 novembre 1938: "La democrazia e la violenza non possono coesistere. Gli stati che oggi sono formalmente democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire nonviolenti" (Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, pp. 270-271).

Nell’appello del 7 luglio 1940 aveva proposto all’Inghilterra, aggredita dalla Germania nazista, un coraggioso metodo alternativo di resistenza nonviolenta, che non avrebbe comportato la contaminazione ma la piu’ radicale resistenza al nazismo: "Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. (...) La guerra non puo’ essere vinta in altro modo. In altre parole voi dovrete divenire piu’ crudeli dei nazisti", se vorrete contrastarli con la guerra (ivi, pp. 248-251).

E prima ancora, il 18 maggio dello stesso 1940, con un severo giudizio che non si puo’ liquidare in fretta, Gandhi affermava cio’ che e’ piu’ grave, cioe’ che questa contaminazione non e’ soltanto l’effetto della guerra, ma e’ gia’ nella concezione politica alla base delle democrazie che non escludono la violenza: "La democrazia, finche’ e’ sostenuta dalla violenza, non puo’ fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia e’ che sotto di essa il piu’ debole deve avere le stesse possibilita’ del piu’ forte. Questo puo’ avvenire soltanto attraverso la nonviolenza. (...) Nel vostro paese [gli Stati Uniti] la terra appartiene a pochi capitalisti. Lo stesso avviene in Sud Africa. Queste grandi proprieta’ possono essere mantenute soltanto con la violenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, e’ una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al piu’ e’ un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. (...) Le vostre guerre non riusciranno mai a salvaguardare la democrazia" (ivi, pp. 140-141). Sono giudizi severi, che possiamo anche discutere, noi occidentali, ma dobbiamo ascoltarli per esaminarci. Martin Luther King e’ una delle poche voci occidentali che hanno osato prendere in esame gli avvertimenti di Gandhi sulla qualita’ delle nostre democrazie cosi’ attrezzate per la guerra, nelle menti, nelle economie e nelle armi.

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Originalita’ di King

Si potrebbero osservare altri aspetti del rapporto tra King e Gandhi. Mentre Gandhi fece del suo ascetismo, sebbene sereno e gioviale, una condizione necessaria per la pratica della nonviolenza, King era "empaticamente vicino alla terra. Egli conosceva il valore della preghiera e del digiuno, ma non era da meno di nessun uomo negli ordinari piaceri della vita. Non sentiva alcuna necessita’ di rinunciare a un abbigliamento elegante, al buon cibo o al sesso per essere efficacemente nonviolento" (William Robert Miller, che ha scritto Gandhi and King, un articolo del 1969, cit. da Lavina, op. cit., p. 524). Si sa che King fu spiato dalla polizia in qualche avventura sentimentale, per ricattarlo. Coretta affermo’ di essere certa che Martin Luther non aveva mai mancato di amare la sua famiglia.

King non considera negativo o immorale il potere, il quale "inteso in modo corretto, non e’ altro che la capacita’ di realizzare uno scopo" (citato in Lavina, op. cit., pp. 524-525). In questo senso ammira anche Nietzsche, ma e’ evidente che King pensa al "potere di", che deve essere di tutti (la "omnicrazia" di Aldo Capitini), e non al "potere su", di alcuni su altri, che non puo’ essere di tutti ed e’ percio’ sempre vicino alla violenza. In questo ordine di idee, King, come gia’ Gandhi, suggerisce una importante distinzione tra forza e violenza: la forza e’ una qualita’ della vita, e’ costruttiva, moralmente e’ la virtu’ della fortezza, mentre la violenza e’ distruttiva e offensiva, immorale. Questa distinzione e’ occultata, artatamente confusa e persino capovolta dalla cultura violenta, che affida assurdamente alla distruzione la difesa della vita.

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Parole ultime, supreme

Gandhi, colpito con una pistola Beretta italiana, il 30 gennaio 1948, mori’ invocando il nome di Dio: "He Ram", che da vent’anni aveva l’abitudine di ripetere mentalmente, anche durante il sonno. Martin Luther King, il 3 aprile 1968, il giorno prima di essere ucciso, disse in un discorso: "Non so quel che accadra’ ora. Abbiamo giorni difficili davanti a noi. ma davvero non ha importanza per me adesso, perche’ sono stato sulla cima della montagna. E non mi preoccupo. Come chiunque altro, mi piacerebbe vivere a lungo: la longevita’ ha un suo valore. Ma non mi importa di questo, adesso. Voglio solo fare la volonta’ di Dio. E lui mi ha concesso di salire sulla montagna. E io ho guardato oltre. E ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci insieme a voi. Ma stasera voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. E stasera sono felice. Non mi impensierisco per nulla, non temo alcun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria dell’avvento del Signore" (dall’ultimo discorso a Memphis, Tennessee, 3 aprile 1968, in Martin Luther King, Il sogno della nonviolenza, citato, p. 92).

Tratto da
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
Supplemento settimanale del martedì’ de
La nonviolenza è in cammino

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Numero 165 del 5 aprile 2008



Domenica, 06 aprile 2008