Lettera
«Un mio desiderio»

di Giovanni Carbone

Gentili signori della redazione,
sono sulla terra dal 14 agosto 1947. Non so dire da dove vengo né se ho scelto di nascere. Provo in ogni modo a realizzare il mio progetto di vita, forse un po’ già programmato e un po’ assoggettato alle mie intenzioni.

È incontrovertibile: esiste il bianco e il nero, il più e il meno, il giorno e la notte, il non importa che e il suo contrario. Allora esiste la politica costruttiva e la distruttiva, la retta volontà del popolo sovrano e il suo opposto, l’uomo onesto e …disonesto, come l’iniquo e …l’equo. Insomma, ogni medaglia presenta il proprio rovescio.

Ho tentato fin dalla mia giovinezza a praticare il giusto lasciandomi guidare dal buon pastore. Poi ho capito che per fruire di una conveniente salute non è necessario vivere in una struttura sanitaria accanto ai medici, così che per seguire il percorso diretto al sublime è inutile poltrire tra gli scanni di un tempio a recitare ripetitive filastrocche.

Ho preferito perciò avventurarmi allo sbaraglio in cerca d’autentici segmenti d’amore da raccogliere nel bagaglio che mi dovrà servire quanto più pieno durante il viaggio del trapasso.

Mi sono ritrovato in un dedalo di contrasti. Ho vissuto esperienze appaganti e deludenti. Ho incontrato dominatori e dominati, liberali e solidali. Ho soccorso e sono stato aiutato. Insomma ho dato e ricevuto, opportunamente e inadeguatamente.

Sul posto di lavoro ho avversato il prepotente e incoraggiato lo sprovveduto. Sono stato ligio ma all’occorrenza infedele per un vantaggio migliore. Ho prestato poca attenzione ai risultati perché ho ritenuto più edificanti gli obiettivi.

In Togo ho avviato la costruzione di una Casa Famiglia per trenta bambini. La struttura doveva rappresentare la crescita del villaggio. Con l’attacco della corrente elettrica e l’acqua sarebbero stati possibili la conduzione di un piccolo bar ristorante, la coltivazione dei campi e l’allevamento degli animali. Le Autorità, contrarie allo sviluppo, hanno rifiutato la risorsa, favorendo le regole dell’accattonaggio, dell’elemosina, della mediazione. Per la mia tenacia, l’impegno ad agire con proprietà per un fine vantaggioso a degli esseri umani “le ultime ruote del carro”, ho subito minacce di morte, sono stato sequestrato due volte, sono stato portato ripetutamente davanti al giudice. Ho scritto a diciotto autorità italiane internazionali senza ottenere alcun riscontro. Potevo pure crepare! La Casa sta lì incompleta. I quattro container, ciascuno di 12 metri, sono stati derubati del loro stracolmo contenuto. Il mio lavoro di braccia e intellettuale menato all’aia. Qual è l’inevitabile aspetto confortante della storia? Il villaggio ha preso coscienza della politica dominante. Oggi cammina meglio con le proprie gambe rinunciando a falsi sostegni.

Rassegnato, ho accantonato il sogno di vedere recuperato il mio progetto finalizzato all’autosufficienza di un gruppo di diseredati africani. Magari potesse essere possibile risollevarne le sorti! Sono pronto a portare a termine la vacillante iniziativa.

Ho anche un desiderio alternativo.

Oggi non ragiono più come prima: sono contro il gratuito, l’assistenzialismo, il volontariato, l’intermediazione. Sono pure contro l’integrazione forzata. Non posso però abbandonare l’idea di non operare per l’altro con l’altro in riverenza della mia formazione psicologica e sociale.

A tavola io mangio il primo pasto, a parte il secondo e poi la frutta. Non mescolo tutto a scapito della perdita distinta dei sapori.

Sono un napoletano costretto per lavoro a trasferirmi al nord. Incontro serie difficoltà climatiche e sociali nell’adattarmi al nuovo ambiente. Non ne trovo se sul posto m’accolgono altri meridionali, già da tempo, integrati attraverso un adagio itinerario.

So che in Italia vi sono dei paesi disabitati. Il mio sogno: avere l’opportunità di individuarne almeno uno, poco lontano da un equipaggiato centro abitato; invitare un nutrito gruppo - di una qualunque etnia presente in Italia - ad occuparlo in piena autonomia nel rispetto delle reciproche regole prevalenti.

Per integrazione deve intendersi un buon rapporto di vicinanza, il rispetto reciproco. Non si mescola tutto a scapito degli usi e costumi, del riguardo per la personalità, della religione d’appartenenza. Per integrazione deve intendersi una collaborazione tra le parti che tenda a colmare una mancanza, una conciliazione finalizzata ad un’armoniosa convivenza, ma non l’appiattimento delle strutture psichiche e sociali: insomma creare sì una colonia, facendo però attenzione ad eliminare gli effetti negativi del colonialismo. Forse queste colonie già si sono formate in alcuni centri, prive però di un appropriato meccanismo integratore.

Il mio sogno è quello di vedere discutere il progetto in maniera spontanea, libera dell’abito politico e clericale, tra uomini esperti distanti dal partito e dal tempio. In caso di riscontro positivo e della proposta accolta dalla politica mi darei da fare a reclutare i nuovi residenti e, per ultimo, portarvi gli italiani interessati a conoscere l’etnia non nel paese di origine ma nel centro a quella dedicato. L’Italia potrebbe diventare una Nazione multicolore, con molto attrazioni etniche…

Questo staff dovrebbe lanciare l’idea, affidarla agli esperti selezionati e proporla ai suoi lettori.

Se Vi piacerà, l’altro mancante lo aggiungerete Voi. Grazie per l’attenzione. Affettuosi saluti.
13 nov. ’07


Giovanni Carbone



Venerdì, 07 dicembre 2007