Il sindacato siamo noi.

di Renzo Coletti

In questo particolare momento storico, il “Sindacato siamo noi.” Sembra una barzelletta, ma c’è o non c’è del vero in tale affermazione? Tempo fa mi è accaduto di assistere ad una conferenza il cui programma era discutere su un libro il cui titolo dice tutto:” Ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese”.
Cosa potrebbe motivare un sindacalista a livello regionale, a partecipare ad un tale dibattito? Forse una forma congenita di masochismo? Il desiderio di una rissa? La Stupidità più totale?
Ebbene assistendo sino all’ultimo al dibattito, la motivazione è risultata molto più grave e squallida. Come spesso mi accade, senza attendere che mi venisse data la parola, ho iniziato il mio intervento con calore. L’organizzatrice della conferenza, un po’’ obbligata un po’’ complice, mi ha lasciato un certo spazio. La cosa su cui mi sono particolarmente scatenato, sono stati gli applausi che come sempre non sono mancati a nessun oratore. In quel momento, effettivamente mi sono sentito umiliato di appartenere ad un genere umano che applaude alla propria sconfitta sia politico sindacale sia alla sconfitta più grave che è la perdità della dignità. Ho evidenziato il ruolo della mano e del pollice verso nell’evoluzione umana, legata a filo diretto con la lingua e la mente. Direi molto incongruamente, gli applausi si sono scatenati, ma soprattutto molte strette di mano hanno salutato il mio intervento e la mia uscita dalla scena.
Ancora una volta la domanda: “Il Sindacato siamo noi?”

Chi è il sindacato? Quello che applaudiva alla propria sconfitta politica, opure erano le mani che si sono strette alle mie? Oppure erano entrambe le cose? L’esperienza mi ha insegnato che in due o tre persone in sintonia, possono modificare una assemblea di molte persone e ribaltare delle situazioni ormai disperate e apparentemente perse in partenza. Se una popolazione di 50 milioni di persone diventa gregge e si annulla, quante persone possono ribaltare la situazione? Il 3 o 4% che incide in una assemblea, può essere efficiente oltre le mura di un salone o una qualsiasi sala riunioni e infine una piazza? Pensate bene, perché è il problema dei problemi e l’unica soluzione proponibile. Le analisi possibili sono moltissime e accomulative, ma tenterò di tirare qualche somma. In un locale dove si svolge una conferenza, le condizioni assomigliano molto ad una sala cinematografica o comunque predisposta per l’ascolto e la visione. Questo da al quadro di fondo, una atmosfera propensa al rilassamento e allo scorrere degli interventi, quasi fossero apparizioni su uno schermo di cui si coglie spesso l’immagine, ma la parola viene catturata dal visivo e perde la sua forza di convinzione. La stessa posizione risulta adatta all’applauso, visto le ancore psicologiche che si collegano ad una poltroncina, una fila e più stratificazioni e distanze dal palco, che può essere uno schermo virtuale a cui porsi a debita distanza. Le prime file, sono spesso occupate e prenotate per un certo ceto politico e sindacale, quindi una ulteriore separazione dalla scena.
Questo di per sé, può condizionare come tutte le ancore psicologiche, sia l’applauso che l’indifferenza o la formalità che ne scaturisce. Un intervento contrario e appassionato, soprattutto fatto con un microfono per amplificare non solo la voce, ma lo stesso impatto, riesce spesso a trainare il pubblico che vede in colui che ribatte e animatamente, un leader momentaneo da seguire e che ha il coraggio delle proprie idee. Se la cosa è poi concordata con un altro paio di persone, la tensione del pubblico oscilla e può infine trovare nei ribelli all’uniformismo formale, un nuovo uniformismo più emotivo da seguire.
Questo non significa che i contenuti e la situazioone non abbia il suo peso, ma è certamente qualcosa che può fare la differenza.
Ora usciamo da luoghi chiusi e veniamo alla piazza. La piazza dovrebbe essere anch’essa elemento di scelta fatta con la dovuta attenzione, poiché una piazza molto vasta, se non si riempe al giusto punto, fa sentire poco uniti e poco forti. L’Uomo da molta importanza alle distanze, quindi un gruppo compresso, tende a sentirsi omogeneo e supera senza volerlo o con consapevolezza, la propria diffidenza verso l’altro e si muove come un tutt’uno se orchestrato da un professionista della communicazione. Guadagnare il palco, quindi significa tenere in bilico una folla che può trasformarsi in massa e la massa in azione non sempre pacifica, anzi più tendente al violento e all’emotivamente indotto. Oggi assistiamo a concerti o spettacoli che riducono le ricorrenze storiche, ad una festa che spesso nulla o poco si identifica con la celebrazione dell’evento. Questi trucchi da avanspettacolo, sono oggi il pane quotidiano che ci nutre. IL giuoco sottile del linguaggio, Pace, tolleranza, fratellanza, comprensione, dialogo, bene comune, sono ancora una volta moneta sonante che acquista le coscienze e le plasma a piacimento del potere. Quanto siamo consapevoli di questo? Quanti riescono a non farsi incantare dal flauto della sottomissione spontanea e calcolata a tavolino? Solo chi usa le stesse tecniche, perché come nel caso di Beppe Grillo è un uomo di spettacolo e un comico, può farsi seguire come un altro leader quindi creare un movimento. La logica del “sono tutti uguali”, che un tempo poteva essere definita qualunquismo, non può aver più la stessa tradzione, perché è un fatto reale e sin troppo evidente che stiamo parlando di una verità incontestabile. Questo facilita l’operazione di qualsiasi personaggio di fatto già conosciuto e leader in qualsiasi campo, quindi crea rapport e seguaci convinti. Convinti di COSA? Se interpellati, ognuno avrà una risposta per quante sono le parole d’ordine incamerate e interpretate dall’inconscio.
Ancora la domanda: “Il sindacato siamo noi?” “Il partito siamo noi?” “la Chiesa siamo noi?” infine e concludendo la serie: “Il Popolo siamo noi?”
La risposta non può che essere un “Si”. Ora invertiamo l’ordine dei fattori e domandiamoci: “noi chi siamo?”
Invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia? Oppure…
Ecco che la domanda amletica ritorna nella sua primitiva e originaria forza e ampiezza. Eric Fromm certamente ci riproporrebbe il suo “Avere o Essere”. Lo sguardo ancora una volta si alzerà al cielo e ancora una volta i piedi inciamperanno sul non visto e il sole accecherà i nostri occhi.
Forse in questo testo, finalmente abbiamo trovato la risposta alla domanda che qualcuno si è posto e si pone: “perché il pesce degli abissi sceglie di non vedere?”.


Renzo Coletti



Lunedì, 15 ottobre 2007