Cari compagni e care compagne, vi rubo due minuti per cercare di spiegarvi come mai – pur avendo avuto sollecitazioni da amici torinesi – quest’anno ho
deciso con vivo rammarico di non andare a Torino per il Salone del libro.
A mio avviso, nella breve storia d’Israele l’aspetto più degno in assoluto d’attenzione sta nella capacità dimostrata da
una neonata, piccola ma estremamente complessa, composita e variegata società civile, di ricuperare nell’uso quotidiano
l’ebraico, cioè una lingua morta o entrata in letargo da oltre duemila anni. Ma al di là di ciò, il vero ‘miracolo’
consiste nel fatto che in quella lingua – in soli sessant’anni – un numero ragguardevole di romanzieri, poeti, saggisti,
storici, pedagogisti, politologi, filosofi, biblisti, talmudisti, critici del costume, donne e uomini di cultura dei più
svariati orientamenti e con le più diverse competenze ha trovato ampio spazio d’espressione: a dimostrazione del fatto che,
anche in un contesto profondamente precario, o forse proprio grazie a tale contesto, una società civile gelosa della
propria libertà espressiva può dare vita a una singolare creatività intellettuale, con ‘prodotti’ di valore universale nei
quali quella società rispecchia, spesso spietatamente, se stessa, con le sue enormi difficoltà, con le sue intime
contraddizioni e lacerazioni.
Questo, secondo me, sarebbe dovuto essere il principale nucleo tematico della fiera del libro dedicata ai 60 anni di
Israele: un nucleo tematico attorno al quale avrebbero potuto utilmente lavorare critici letterari, cultori di scienze
religiose, antropologi culturali, sociologi, storici della cultura e così via (israeliani, italiani, arabi palestinesi e
non, ebrei, cristiani, musulmani, uomini e donne religiosi e non), nell’intento di avviare a carte scoperte un fitto
dialogo e rendere così un po’ più conosciuta e comprensibile per il pubblico italiano una realtà – Israele, la sua cultura
e i suoi infiniti problemi – di cui molto si parla, da noi, senza che davvero si sappia di che cosa si parla.
Ma come spesso accade nel nostro Paese, le vicende del Salone del libro hanno purtroppo preso la piega che tutti
conosciamo. Per l’ennesima volta, il palcoscenico è stato conquistato e saldamente occupato dai propagandisti, ossìa da
coloro che, quando c’è di mezzo Israele, da sponde opposte altro non sanno fare se non osannare o scagliare anatemi o,
quando càpita, ostracizzare. Tutti costoro, qualsiasi sia la loro appartenenza, sono incapaci di staccarsi dagli stereotipi
e hanno in uggia la dimensione della complessità.
Per quanto mi concerne, il risultato è che ho deciso di starmene alla larga giacché ciò che da sempre e per sempre mi
interessa è cercare di capire che cosa posso/possiamo fare per aiutare, da qui, le sventurate popolazioni del Medio
Oriente a individuare sentieri percorribili di riconciliazione. E se lavorando in questa prospettiva, che considero
prioritaria, mi piace confrontarmi civilmente con chiunque mi offra spunti di riflessione e occasioni per dare maggior
vigore ed efficacia all’impegno per la pace, deploro e mi tengo scrupolosamente a distanza dalle risse. E a Torino, in
questi giorni, temo che il clima prevalente sia stato proprio quello della rissa. Bruno Segre
Lunedì, 12 maggio 2008
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