Lettera
La mia prima indelebile delusione

di Giovanni Carbone

Ricordo di aver tolto i pantaloncini corti con l’inizio della scuola media. L’aspetto fisico, nella fase puberale velocemente mutevole, e l’imminente ciclo scolastico esigevano un impegno diverso e un consequenziale modo di porsi nel nuovo ambiente. All’unico maestro della scuola elementare si avvicendavano gli insegnanti delle varie materie. Per ogni materia vi era uno o più testi da studiare, non più il sussidiario e il libro di lettura. Con quale profitto ho conseguito il diploma di scuola media inferiore? A stento sufficiente! Non credo di aver mai avuto l’attitudine agli studi. Volentieri sarei stato a vita un globe-trotter, oppure un circense, o forse un addetto alle giostre. Aggiungo però di non essere stato neanche favorito dalla sorte a frequentare in quel periodo e nel mio circondario una scuola promettente e proficua. Ho a mente un insegnante di lettere, tarchiato e chiatto, prossimo al pensionamento, spesso assente anche quand’era presente. Solo se provo a mettere bene a fuoco quei tempi, mi appare nitida l’immagine della professoressa di francese. Aveva a sua disposizione, per l’insegnamento della lingua, appena due ore settimanali. Che peccato! Era la persona giusta al posto giusto. In sintesi i miei tre anni di scuola media sono stati piuttosto poveri di ricordi di qualità.

La mia filosofia mi fa escludere che quest’esistenza si origina e si evolve per caso: secondo me tutto avviene per un progetto di un Uno che crea e non è creato. Non è per caso che sono nato in Italia nel ventesimo secolo. Da più parti sento sostenere: “Ogni individuo ha l’opportunità e la libertà di crearsi il proprio destino!”. Per quanto mi riguarda non ho scelto d’essere maschio, né il colore della pelle o dei capelli, né ho scelto la mia altezza, la materia grigia che mi ritrovo, i miei genitori e tanto ancora. O forse ho potuto scegliere tali presupposti prima di nascere, gli stessi che mi devono essere utili nella presente dimensione per rendere possibile la vita da fronteggiare tra il più e il meno, tra il giorno e la notte, tra il bene e il male, tra ciò che costruisce e ciò che distrugge. Soprassiedo sul prima di questa condizione terrestre, sul perché e la necessità di essa, soprattutto per incapacità ad aggiungere all’attuale scibile umano chissà quale novità. Trovo già infinite difficoltà a considerare il presente, figuriamoci semmai sarebbe possibile salare un lago con un pizzico di sale! Escludo il caso. Ammetto una volontà divina. Credo pertanto di essere dotato di un modestissimo libero arbitrio, d’essere titolare di un potere decisionale ridotto al lumicino.

Valutato il potenziale assegnatomi in sorte, considerate le proposte, provenienti dalla mia famiglia e da chi mi era vicino, idonee a costruire il mio futuro, mi sono avviato agli studi classici. Con il senno di poi non mi è sembrato di aver operato chissà quale scelta in quella fase così delicata della giovinezza. Piuttosto mi è parso di aver rispettato chi vedeva più lontano di me e, in ultima analisi, il percorso del mio arco vitale. In pratica ho proseguito gli studi con una labile vocazione, alimentata dalla voglia di far coincidere quello che gli altri volevano di me con i miei putativi futuri progetti.

Erano gli anni del ginnasio. Al “Gianbattista Vico” era raccomandato indossare giacca e cravatta, per le femminucce il grembiule. I compagni di classe più facilmente si distinguevano da quelli precedenti. I docenti mi apparivano convenientemente severi e pieni di pretese. Lo stesso mastodontico edificio, colorato in ocra e bande e fregi in grigio, s’imponeva ai miei occhi: una vecchia megastruttura di quattro piani pari agli otto di quelli moderni, con aule molto ampie e bene areate da finestre smisurate. Esse, molto capienti, erano attrezzate ad ospitare poco più di una ventina di studenti. Quest’ ulteriore passaggio ad un livello superiore e questo stesso spiazzante complesso scolastico mi mettevano ansia. Ero costretto ad essere maggiormente responsabile per sentirmi all’altezza della situazione. Potevo riuscirci? Superai l’impatto grazie soprattutto all’insegnante di lettere. Ricordo di lei molto eloquenti anche i suoi silenzi. Era capace di riempire il minuto con sessanta secondi di lavoro compiuto bene. Difficilmente assente, nello svolgere adeguatamente i previsti programmi necessari a condurci con ragione al liceo, coglieva ogni occasione per essere la guida nel nostro sentiero esistenziale. Era attenta ad ascoltare ognuno della classe. All’occorrenza era tollerante, sempre composta, coerente e decisa. Soprattutto riusciva a spronare i nostri interessi in ogni campo ed aveva conoscenza per soddisfare le nostre più varie richieste.

Forse ho avvertito d’essere più soggetto di storia negli anni del liceo. L’insegnante di matematica era quella del ginnasio, mentre la Professoressa di lettere con la p maiuscola aveva ceduto la cattedra ad altri docenti. Il determinato professore di latino e greco pretese fin dall’inizio il lei che ricambiava. Era convinto che la nostra fosse l’età di preparazione alle relazioni con il mondo adulto attraverso forma e cultura. Dovevamo salutare la nostra adolescenza e dare il benvenuto alla nostra maturità in erba. Non ricordo se qualche altro insegnante si adeguò per riflesso o tanto fosse dettato dal vigente sistema scolastico. Intanto il sociale in quel periodo cambiava vorticosamente mettendo a dura prova la già precaria stabilità emotiva dei giovani. Di giorno in giorno venivano a mancare i necessari punti di riferimento. L’insegnante di matematica era convinta che lo studio appropriato della sua materia costituisse l’esercizio a creare ordine non importa in quale aspetto della vita. A distanza di tanti anni non ho ancora del tutto dimenticato le formule di prostaferesi, le funzioni trigonometriche, la geometria analitica. L’insegnante con la p maiuscola, che con il suo benestare rivedevo periodicamente, mi suggeriva di fare a meno per il possibile di ricorrere a chissà chi, di trovare invece in me la forza e le motivazioni utili a rispettare il percorso a me destinato e, ai bivi, a saper ben individuare la direzione da seguire. Il professore di filosofia insisteva sull’universalità dei valori umani.

No, non ero portato agli studi. Avrei preferito non tanto “una vita spericolata” ma di buon grado avrei tallonato l’edonismo meglio appagante. Non posso, però, negare la validità della conseguita maturità classica che mi ha forse condotto al soddisfacente eclettismo. In sintesi posso sostenere che un soggetto guidato ad hoc e ben indirizzato può raggiungere traguardi inaspettati, chiaramente proporzionati alle proprie possibilità. Nell’attuale momento storico è proprio la guida che viene meno come vengono meno i valori universali e l’ordine, e sono scarsi per quantità e qualità i punti di riferimento. Ma anche quando sembra vada tutto per il verso giusto, se non altro nel proprio orticello, alcuni fatti possono sconvolgere completamente il regolare andamento degli eventi.

Era in atto la campagna elettorale. Non riesco a precisare esattamente l’anno né se io fui chiamato al voto. Era forse l’anno della maturità. Mi rivolsi alla professoressa con la p maiuscola per affrontare il tema sulla politica. Non mi sembrò esauriente come per il passato. Anch’io ero divenuto più critico ed esigente. “La politica è una brutta bestia” mi disse. “C’è differenza tra una politica ideale e quella partitica. Poco importante è eleggere Tizio o Caio. Tra loro anche il più saggio è costretto ai compromessi e soggetto agli interessi. Fruttuoso è votare il più popolare ed entrare nel suo territorio al fine di ottenere il proprio pro. Chi io voterò? Il più affermato tra quelli da me meglio raggiungibili. Ho due figli orfani di padre. Devo pensare al loro futuro. Così vuole la cultura dominante. La cultura della raccomandazione. Quando questa sarà sostituita con la cultura del merito, del bastone e della carota, del rispetto delle vocazioni e dei ruoli, agirò diversamente”. Tanto mi espose la professoressa con la p maiuscola nel nostro ultimo incontro che rappresentò per me la mia prima indelebile delusione! Una vera catastrofe. Avevo idolatrato la professoressa con la p maiuscola. Avevo modificato il mio indirizzo di vita per il mio e il bene comune. Avevo forzato anima, cuore e nervi per incoraggiare la mia pallida vocazione agli studi. Avevo stretto i denti per rimanere nel ruolo di studente per svariati anni. Avevo creduto in chi? Avevo lottato profondamente per essere diverso dalle mie inclinazioni, sostenuto da chi aveva saputo ben predicare e ora razzolava male, per quale ragione? “Chi deve modificare la cultura della raccomandazione se non i colletti bianchi, chi ha cervello e preparazione?”mi chiedevo. Niente di più facile, sarei rimasto fuori dai miei progetti, se non avessi suffragato la democrazia cristiana condotta da Andreotti e compagnia cantando… “Mai e poi mai lo voterò” pensavo a quei tempi. Oggi addirittura vorrei che neanche lo 0,0000000001% delle tasse che verso occorresse per il suo
funerale di Stato. Mi auguro che lui stesso rinunci alla pompa funebre prima del suo addio.

La mia professoressa del ginnasio è stata una professoressa con la p maiuscola ed è stata la stessa professoressa la mia prima indelebile delusione. Poi ho incontrato un teologo francescano con i piedi scalzi, grande esempio di vita, carismatico oltre misura. “Fra Sempronio hai ragione da vendere, quando affermi che… Perché non provi a far valere queste idee auspicabili perché condivisibili ed opportune?” “Non posso. Ho fatto voto d’obbedienza! Non posso remare contro”. Poi ho incontrato i colleghi, tutti all’altezza dei compiti, tutti pronti a sostenere il Capo a torto o a ragione. Una caterva di lecchini. Un militare fu chiamato dal direttore d’Istituto penitenziario per minorenni a testimoniare per un fatto nel quale ero il protagonista. A parte mi disse: “Educatore, ha onestà da vendere. Io rischio il trasferimento su un muro di cinta di un carcere per adulti. Pur riconoscendo che la ragione è dalla sua, testimonierò contro di Lei, che in ogni caso penerà danni modesti. Mi perdoni e si faccia dare un consiglio: diventi più amico del direttore dittatore”. Poi sono stato in Togo dove volevo che la Casa Famiglia da me costruita per trenta bambini bisognevoli rappresentasse lo sviluppo socio-economico del villaggio previo la fornitura dell’acqua e della corrente elettrica. Con questi elementi sarebbero stati possibili la coltivazione dei campi e l’allevamento degli animali. “Lo sviluppo qui non s’ha da fare”. Tale era la volontà delle Autorità locali. “Deve valere la politica del pietismo, del volontariato, dell’accattonaggio, dell’elemosina, dell’ipocrisia, del facile arricchimento sulla pelle degli svantaggiati”. Tale la sintesi della politica dominante. Sono stato sequestrato, condotto più volte in tribunale e ho anche subito minacce di morte.

Poi ho capito che mi trovo all’Inferno. Qui non voglio stare con i piedi ben piantati per terra. Facciano gli altri ciò che ritengono più opportuno, anch’io. Ho al momento un unico ambito progetto. Raggiungere meritevolmente la prossima dimensione. Ci riuscirò? 19 marzo ’07.

Giovanni Carbone



Mercoledì, 28 novembre 2007