Mondo Sciita
Iraq: Vietnam di Bush, un incubo da esorcizzare

di Ali Azizmohammadi

La crisi in Iraq vista da Tehran. Ali Azizmohammadi è il responsabile della corrispondenza di Radio Italia

26/08/07

Difficile dire se il Presidente Bush, nel suo discorso di Kansas City di mercoledi scorso , avesse idea di cosa stava dicendo quando ha parlato della guerra di Corea e del giornalista I.F. Stone. Bush ha affermato che nel 1950, Harry Truman fece bene a difendere la Corea del sud attaccata dal Nord, benché gli stessi repubblicani fossero esitanti e I.F. Stone sostenesse che "l’invasione" era soltanto un pretesto.

Ma Bush, nel suo discorso, ha fatto anche di peggio paragonando il ritiro dal Vietnam a quello dall’Iraq e suscitando aspre polemiche in cui senatori democratici come John Kerry e storici di professione come David Hendrickson lo hanno accusato di riscrivere la storia. Parlando dei boat people e dei massacri di Pol Pot, il presidente americano ha omesso di ricordare che i kmer rossi non sarebbero mai andati al potere se non ci fosse stata l’invasione americana della Cambogia nel 1970. Non solo: dopo l’intervento militare dei vietnamiti per mettere fine al genocidio, gli Stati Uniti cosa fecero? Forse che applaudirono in nome delle ragioni umanitarie ben reali in quel caso? Per nulla. L’amministrazione Carter, e poi Reagan, sostennero diplomaticamente e militarmente Pol Pot nella sua guerriglia contro i vietnamiti.

In realtà il discorso di Bush suonava come un esorcismo della sconfitta che, 35 anni dopo, brucia ancora. Sono stati proprio i repubblicani a elaborare la tesi di una guerra che si sarebbe potuta vincere in pochi mesi, magari «trasformando l’intero Vietnam del nord in un parcheggio», come disse Ronald Reagan: "È tempo di mostrare il nostro orgoglio per coloro che combatterono in Vietnam... Sono tornati a casa senza una vittoria non perché siano stati sconfitti ma perché fu negata loro la possibilità di vincere".

La realtà fu completamente differente: gli Stati uniti persero la guerra perché non erano in grado di sostenerne il costo militare: dopo il Tet ci fu un progressivo crollo nel morale delle truppe di terra, con innumerevoli casi di diserzione (il 20% dei richiamati), di rifiuto di combattere, di autolesionismo: qualsiasi cosa pur di tornare a casa. Nel solo 1970 disertarono 65.643 soldati e i generali dovevano fare i conti con centinaia di casi di fragging, il lancio di bombe a mano contro le tende degli ufficiali che mettevano a rischio la vita dei propri uomini.

Soprattutto, la guerra stava mettendo a dura prova il bilancio federale, creando inflazione e danneggiando l’economia americana. Per questo, dopo il 1968 si iniziarono a confrontare costi e benefici e l’amministrazione Nixon decise a favore il ritiro dopo un "decente intervallo" che fu terminato nel 1973. Esattamente ciò che George W. Bush sta cercando di ottenere in Iraq: un decente periodo di tempo prima che la guerra venga definita "perduta", preferibilmente dal suo successore.



Martedì, 04 settembre 2007