Chi ha paura di Ramadan?

di GIAN ENRICO RUSCONI

Lo accusano di essere un "cattivo maestro" ma così si perde il senso vero del suo impegno


Riprendiamo questo articolo dal quotidiano La Stampa del 10 settembre 2007: http://www.lastampa.it/


La ripresa dell’attenzione polemica attorno a Tariq Ramadan rischia di mancare il senso vero del suo impegno intellettuale. Lui si rivolge ai musulmani europei, in particolare ai giovani, con l’obiettivo di farli sentire «a casa» loro in Occidente, di farli diventare «cittadini di confessione musulmana». Il suo linguaggio è quello «laico» della cittadinanza occidentale, ma la motivazione profonda, il fine è quello della «testimonianza di fede». Siate buoni musulmani - dice ai suoi correligionari - e sarete buoni cittadini occidentali. Soltanto indirettamente Ramadan cerca e stabilisce un confronto attivo («un ponte», come si dice) con gli occidentali stessi, siano essi laici o religiosi.

Che la cittadinanza occidentale sia una condizione ottimale anche per la fede islamica, è una posizione che suona rivoluzionaria - soprattutto a fronte del risentimento, del rifiuto, della contrapposizione, del senso di estraneità che caratterizza molta cultura islamica in Occidente. Ma parecchi degli interlocutori di Ramadan rimangono sostanzialmente indifferenti alle sue argomentazioni religiose, anzi ne diffidano. Le sospettano di mascherare posizioni politiche che rimangono fortemente ambigue, se non inaccettabili in tema di terrorismo, sul conflitto israelo-palestinese, sugli aspetti più controversi dell’etica e della politica islamica. Da qui l’accusa a Ramadan di essere un «cattivo maestro» - in questo caso un «cattivo teologo».

Sono valutazioni legittime e ben motivate. Ma non devono esonerare dall’entrare nel merito della proposta di Ramadan di rideclinare in modo originale fede islamica e civismo politico.

Il confronto tra le culture - di cui tanto si parla - è scarsamente produttivo se consiste nel far parlare tra loro i laici di provenienza islamica e quelli di matrice euro-occidentale, da una parte, e dall’altra, in separata sede, i religiosi delle due culture. Gli uni con l’illusione che il processo di secolarizzazione (concepito all’occidentale) alla fine modificherà lentamente ma inesorabilmente anche il mondo islamico. Gli altri con la certezza che soltanto le verità religiose, dogmaticamente ereditate, possiedono le chiavi per aprire o tenere bloccate le trasformazioni sociali e politiche. Ciò che è essenziale invece è proprio la ridefinizione di laico e di religioso. Ovvero che cosa vuol dire «essere islamici» in un’Europa che è irreversibilmente laica senza essere ostile alle religioni - quindi neppure all’Islam.

A questa tematica Ramadan ha dedicato i suoi libri più importanti (Essere musulmano europeo e L’Islam in Occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana) che combinano in modo singolare la fedeltà all’ortodossia religiosa con la lealtà politico-istituzionale all’Europa. L’afflato della spiritualità coranica, la puntigliosa esegesi dei testi sacri coesistono - apparentemente senza contraddizioni - con il discorso e il linguaggio della cittadinanza democratica (appresa soprattutto nel clima del repubblicanesimo francese). Ramadan dice ai giovani musulmani: voi siete dentro all’Occidente, anzi siete il nuovo Occidente. Non dovete rinunciare a nulla della vostra identità religiosa; non dovere guardare culturalmente e storicamente indietro o geopoliticamente fuori dall’Europa (nei paesi di origine dei genitori o dei nonni). L’Occidente è la vostra «casa», non è «terra ostile» o «terra d’esilio». Le opportunità offerte dallo Stato di diritto democratico sono al servizio del buon musulmano. Si tratta di un atteggiamento strumentale o è qualcosa di più serio? È difficile dirlo. Apparentemente quello di Ramadan non è un invito alla mera legalità, ma il tentativo di assimilare o tradurre le categorie civico-politiche democratiche dentro al codice islamico-religioso. Anzi è la pretesa di dedurle da un Islam autenticamente inteso. Ramadan non dice apertamente che l’Islam non ha nulla da imparare dall’Occidente - come affermano tutte le varianti dell’Islam ufficiale, fissato sulla propria «diversità» trasfigurata in superiorità spirituale sull’agnostico e materialista Occidente. Ma considera il contesto occidentale un’occasione straordinaria per una nuova creatività dell’Islam.

È un discorso molto seducente, soprattutto se rivolto ai giovani musulmani. Nati, cresciuti, scolarizzati, inseriti irreversibilmente nei meccanismi societari occidentali, sono frustrati nel sentirsi pur sempre «stranieri» e quindi posti davanti all’alternativa tra la mimetizzazione totale nella società occidentale e la ribellione diretta e frontale, sul cui sfondo si profila la violenza religiosamente legittimata. Contro tutto ciò Ramadan suggerisce la strada della «cittadinanza religiosa».

È concetto interessante, meticciato tra due culture, ma non è chiaro dove porti sul piano pratico. Tanto è affascinante l’appello a una nuova spiritualità («Parlare di Islam significa principalmente parlare di fede, di spiritualità, di etica»), tanto sono elusive le conseguenze nei comportamenti pratici che da essa discendono e che sono spesso motivo di contrasto se non di incompatibilità tra la cultura occidentale e quella islamica. L’elenco è noto: dallo status giuridico della donna al giudizio sul terrorismo, alla questione della legittimità o sulla punibilità della conversione/apostasia. Quest’ultima questione è cruciale perché mette in gioco in concreto il principio della libertà di coscienza. Fondamento dell’Occidente. Significativamente su queste problematiche Ramadan è reticente.

Rigorosamente ortodosso sul piano dottrinale, spesso gli sfuggono affermazioni sulla cultura occidentale che sono in contrasto con la sua tesi della «comune casa» occidentale. Fanno sospettare un uso meramente strumentale della legalità democratica. Quando insiste nel dire che il ruolo dell’Islam è quello di fornire «spiritualità profonda e intelligente, spirito critico e indipendente, volontà libera», Ramadan lascia intendere che l’Europa non li possiede. E gli scappano talvolta anche gli stereotipi negativi del «predominio della razionalità \ e della tecnologia» in Occidente.

Personalmente ho imparato molto sull’Islam dai libri di Ramadan (compresa la biografia su Maometto). Ma ho l’impressione che il brillante professore ginevrino e oxfordiano, disinvoltamente in contatto con i più importanti intellettuali e studiosi occidentali, conosca l’Occidente meno profondamente di quanto non faccia credere.

IERI A MANTOVA, NEL GIORNO CONCLUSIVO DI FESTIVALETTERATURA Per l’intellettuale islamico polemico confronto a sorpresa con Christopher Hitchens, il nemico radicale di tutte le religioni Doveva essere un confronto a distanza, invece i due si sono affrontati davvero, proprio nel giorno conclusivo del Festivaletteratura. Christopher Hitchens, dopo il suo incontro con il pubblico, è andato a quello di Tariq Ramadan per fare all’ormai celeberrimo intellettuale islamico qualche domanda da critico radicale di religioni e atteggiamenti basati su credenze non razionali. Ramadan ha risposto piccato e torrenziale, accusando il suo interlocutore di non accettare il dialogo ma di partire da preconcetti: sul velo, per esempio, o quando lo scrittore inglese gli ha chiesto se davvero ritiene il Corano un testo dettato da Dio lettera per lettera. Ramadan ha affermato che si tratta di parola rivelata. E del resto, poco prima, proprio in tema di laicità dello Stato, aveva giustificato il diritto delle donne a divorziare ricorrendo alle parole del Profeta (ora, verrebbe da osservare, uno ha tutto il diritto di essere religioso, ma in uno Stato laico le decisioni pubbliche non dovrebbero prescindere dai testi sacri?). Ramadan, di cui Einaudi ha appena pubblicato Maometto (e anche Dio non è grande di Hitchens) non ha comunque deluso i suoi ammiratori, sostenendo che l’Islam non ha problemi con le donne - ma i musulmani sì, ha aggiunto -, che lui si batte contro l’imposizione del velo, che la laicità delle istituzioni non si discute e che i problemi sociali non devono diventare problemi religiosi. Un vero liberal? Chissà.



Sabato, 15 settembre 2007