Sulla vittoria di Hamas e le prospettive in Palestina

di Michelguglielmo Torri

Il presente articolo ci è stato inviato da "Edizioni Al Hikma" [alhikma@uno.it]


da Apriti_sesamo

Cari amici,
così Hamas ha vinto le elezioni legislative in Palestina. I nostri media si strappano i capelli e ci propongono interviste illuminanti. Ho appena sentito il giornale radio delle 8,45: sono stati intervistati un giornalista di Ha’aretz e il noto ideologo neocon Daniel Pipes. Evidentemente, il ventaglio delle possibili interpretazioni passa fra una sinistra, rappresentata da un giornalista israeliano, e una destra, rappresentata da un neoconservatore americano. Quest’ultimo ha fatto un’affermazione rivelatrice (di cui, però, solo la prima parte è stata riportata dai giornali, almeno nella lettura che ne è stata data a "prima pagina" di oggi). "La vittoria di Hamas alle elezioni in Palestina - ha detto Pipes - sono come quelle di Hitler in Germania nel 1933 o come quelle di Savador Allende in Cile nel 1970". Naturalmente è la parte in corsivo che non viene riportata. Dopo tutto, se la leggessero, molti di noi "rizzerebbero le orecchie". Allende era un Hitler? O era un democratico che voleva sottrarre il suo paese all’egemonia politica ed economica americana? Allora, la vittoria di Hamas è come quella di Hitler o è come quella di Allende? Spero che converrete con me che la differenza non è poca.
Ciò detto, dato che tutti "riflettono" sulla vittoria di Hamas e che tutti dicono la loro, che ne abbiano titolo o meno, lasciate che anch’io dica la mia. Come storico incomincerei con una riflessione storica. Le trattative di Camp David del 2000 fallirono perché gli israeliani, sostenuti dagli americani, non erano disposti ad accettare il minimo richiesto da Arafat. Cioè la costituzione di uno stato palestinese sui territori di Gaza e della Cisgiordania occupati da Israele nel 1967. Arafat era disponibile a scambi di territorio su basi paritarie, a lasciare a Israele i quartieri ebraici di Gerusalemme Est (illegalmente costruiti dopo il 1967), a cedere il quartiere ebraico e, probabilmente, anche quello armeno della città vecchia e, infine, a cedere il muro del pianto a Israele. Inoltre, Arafat chiedeva un’accettazione di responsabilità da parte di Israele per il ruolo nel determinare la creazione del problema dei profughi nel 1947/49 e nel 1967, una richiesta a cui si accompagnava una sostanziale elasticità sulla questione concreta del ritorno di tali profughi in Israele.
Arafat, nel prendere queste posizioni, aveva già esplicitamente riconosciuto che il 78% della Palestina mandataria, compresa Gerusalemme Ovest, era ormai parte integrante dello stato di Israele. Voleva quindi avere il restante 22%. Gli Israeliani e gli americani, invece, impostarono Camp David sull’idea che l’argomento del contendere fosse come spartire quel 22% della Palestina mandataria che formava i territori occupati nel 1967. Un’impostazione che faceva a pugni con il diritto internazionale (che, evidentemente, non vale né per gli americani, né per gli israeliani). In base a questa peculiare impostazione, le condizioni capestro di Barak (che, fra l’altro, comportavano, per riconoscimento dello stesso Barak, una Cisgiordania palestinese priva di continuità territoriale) poterono venir presentate come la "generosa offerta" che solo l’irragionevolezza di Arafat poteva rifiutare.
Il risultato di questo modo di procedere è stato che il nazionalismo laico palestinese è stato umiliato e sconfitto. Ci sono state, è vero, alcune voci isolate che, anche in Israele, ricordavano che, se non ci si accordava con il nazionalista laico Arafat, il risultato sarebbe stato che al suo posto, ci si sarebbe trovati come controparte gli islamisti di Hamas. Ma, naturalmente, nessuno ha mai dato retta a tali voci. Si è preferito, invece, demonizzare Arafat e delegittimare al-Fatah. Secondo l’illustre storico Benny Morris, di fatto non c’è mai stata alcuna differenza fra Arafat e al-Fatah da un lato e gli islamisti di Hamas e del Jihad islamico dall’altra: entrambi hanno sempre voluto distruggere israele.
Insomma, i palestinesi hanno a suo tempo tentato una trattativa partendo da posizioni di ovvia ragionevolezza. La risposta è stata, come si è appena ricordato, la demonizzazione e l’emarginazione del leader che incarnava quell’ovvia ragionevolezza e, subito dopo, la guerra ad oltranza condotta da Sharon contro i palestinesi.
Ora, i palestinesi, hanno deciso di cambiare cavallo. Hanno votato per Hamas, che non riconosce lo stato di Israele. Fallita, cioè, la via della moderazione perseguita da al-Fatah, la risposta dei palestinesi è stata di passare la mano ai massimalisti di Hamas. Ma, al di là delle posizioni teoriche, Hamas ha sempre dimostrato un alto grado di pragmatismo (in caso contrario non sarebbe ora dove si trova). Hamas, quindi, tratterà con Israele. Ma lo farà partendo da zero, non con la concessione a priori del 78% della Palestina. Personalmente non ho alcun dubbio che l’obbiettivo reale che Hamas si pone sia lo stesso di Arafat: uno stato palestinese sui territori occupati da Israele nel 1967. Ma sarà una trattativa in cui nulla sarà dato per scontato. A quel punto, forse, l’irragionevolezza della posizione degli israeliani, che si ostinano a mantenere 440.000 coloni nei territori occupati, che rivendicano la parte araba di Gerusalemme, che vogliono rosicchiare parti ulteriori di quel misero 22% di Palestina che i palestinesi rivendicano come loro, che si rifiutano di accettare le loro responsabilità per la pulizia etnica del 1947/48 risulteranno essere ciò che sono: non posizioni di grande generosità, bensì posizioni irragionevolmente e meschinamente estremiste.
Nella situazione che è oggi venuta in essere in Palestina, quali alternative vi sono? Schiacciare Hamas con strumenti militari? Sharon ha certamente cercato di farlo negli ultimi cinque anni. Con il risultato che ora si è visto. L’unica via all’eliminazione di Hamas sarebbe l’eliminazione del popolo palestinese. Il che, però, allo stato attuale delle cose, sembra ancora un obiettivo po’ difficile da raggiungere (ma, chissà?, forse col tempo ci si arriverà). Quindi, al momento, rimangono solo due possibilità: la continuazione della guerra all’infinito (o fino al genocidio dei palestinesi) o la pace con Hamas. Sia gli israeliani, sia i loro amici americani e europei, che con il loro incondizionato appoggio politico e conomico sono corresponsabili dell’avventurismo israeliano, farebbero bene a rendersene conto e a trarne le conclusioni logiche.
Che poi non si tratti con i "terroristi" era un’obiezione che venne fatta anche a De Gaulle al tempo della guerra d’Algeria. Il nazionalista francese De Gaulle rispose: "Si tratta con chi ci combatte"; e non solo accettò l’indipendenza dell’Algeria, ma liberò la Francia dall’incubo di un’atroce guerra coloniale.

Michelguglielmo Torri

È nato il 18 ottobre 1945 a Novara. Si è laureato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino il 30 giugno 1971. È stato Harkness Fellow presso l’Università di California a Berkeley negli a.a. 1973/75. Attualmente è professore di Storia moderna e contemporanea dell’Asia presso l’Università degli Studi di Torino,Dipartimento di Studi Politici.Le sue attività di ricerca si sono incentrate soprattutto sulla storia dell’India moderna e contemporanea. A partire dal 1982, all’interesse per la storia dell’India si è aggiunto quello per la storia contemporanea del Medio Oriente, con particolare riguardo alla questione palestinese dalle origini (1882) ad oggi.



Venerdì, 27 gennaio 2006