Conoscere l’islam
Un dibattito sulla applicazione della sharia in Inghilterra

Riprendiamo dal sito: http://www.ilsussidiario.net/ una intervista al prof. Vittorio Emauele Parsi ed alcuni commenti a questa intervista sul tema della applicazione della sharia in Inghilterra. Lo riportiamo perchè quello della opposizione alla sharia è un tema ricorrente nel dibattito italiano. Il nostro scopo, come è noto ai nostri lettori, è quello innanzitutto di favorire la conoscenza delle diverse realtà religiose esistenti. Siamo quindi sicuramente per il superamento dei pregiudizi che falsano la realtà e contro la sharia ve ne sono molti e spesso del tutto ingiustificati. L’intervista del prof. Parsi ci sembra equilibrata e crediamo possa essere un contributo positivo alla discussione. Invitiamo perciò i lettori interessati all’argomento a partecipare alla discussione utilizzando gli appositi link in fondo alla pagina per esprimere i loro commenti. I commenti che abbiamo riportato sono uno favorevole e l’altro contrario. Crediamo che questo serva ancora di più a stimolare il dibattito. Quindi partecipate.


Parsi: Sharia in Inghilterra e razzismo in Italia, che succede al processo di integrazione?

INT. Vittorio Emanuele Parsi

martedì 16 settembre 2008

Giudici islamici possono sentenziare in Inghilterra secondo la sharia. Questa è la notizia diffusasi da poco tempo, ma a quanto pare relativa a una pratica già in corso dal 2007. Secondo l’Arbitration Act, infatti, si può attribuire agli arbitrati valore legale se entrambe le parti di una disputa attribuiscono al giudice il potere di emanare una sentenza nel loro caso. In base a questa norma il giudizio di una corte islamica risulta valido a tutti gli effetti. Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, spiega di che cosa si tratta

Professor Parsi, qual è la portata di un simile provvedimento?

Da quello che so io il provvedimento inglese recepisce sentenze di tribunali islamici per quel che riguarda il diritto di famiglia nelle relazioni tra musulmani come un matrimonio oppure questioni di eredità. Quindi è una normativa collocata nell’ambito degli “arbitrati”. Se due persone vorranno essere sottoposte a un arbitrato in base a queste norme, e se le norme non contravvengono ai diritti fondamentali sanciti da quella che si può definire impropriamente “la costituzione di Inghilterra”, saranno libere di procedere in tal modo. Questo è il senso di quanto hanno deciso gli inglesi. Non hanno certamente stabilito che la sharia vale quanto la Magna Charta. L’arbitrato fra le questioni private come il matrimonio può essere raggiunto anche se stabilito da un tribunale islamico che in questo caso è equiparato a una corte arbitrale a tutti gli effetti.

Si può dire che questa concessione è legata al fatto che i cittadini musulmani concepiscono il diritto come connaturato alla religione?

Questo può darsi, anzi in un certo qual senso è proprio così.

Già definire una legge “islamica” vuol dire entrare in una dimensione religiosa. Occorre anche precisare che in Inghilterra esiste un sistema di common law che per alcuni aspetti è ancora più stratificato di quello vigente negli Stati Uniti o nel Canada. In poche parole il concetto è: se esiste una cospicua parte di cittadini britannici che sono appartenenti al credo musulmano, tutto quello che possiamo realizzare giuridicamente per integrare nella nostra società quella comunità è da farsi. Per il sistema giuridico italiano questa operazione sarebbe impensabile perché implicherebbe una complicazione enorme.

Qual è l’impatto che un tale modo di procedere potrebbe avere a livello di diritto europeo?

Il sistema continentale, il cosiddetto Civil Law, è sicuramente più rigido da questo punto di vista. Quanto detto per l’Italia vale più o meno per tutto il continente. Noi europei continentali abbiamo un sistema di fonti gerarchiche in cui la legge emana dei codici relativi che non si rintracciano nel tessuto sociale e, soprattutto, nei quali il matrimonio non è principalmente inteso come un contratto. Per poter giungere a trattare il matrimonio come un arbitrato occorre partire dal principio che il matrimonio è sostanzialmente un contratto fra due adulti consenzienti, e poi definire i contenuti di tale contratto.

Il paradosso è che in nome di una visione molto secolare dell’istituto matrimoniale, come quella che si ha nel Common Law, si è in grado di immettere come possibile fonte di regolamentazione interna dei rapporti, una legge religiosa. Quindi la religione in questo caso c’entra, ma se rientra nel diritto lo può fare perché la sua rilevanza religiosa è fondamentalmente derubricata al massimo livello, totalmente svilita nella sostanza.

Il problema di una giusta integrazione rimane di forte attualità. Purtroppo questo è spesso collegato a gravi fatti, come quello recentemente avvenuto a Milano dove un cittadino italiano di colore è stato ucciso a sprangate. Come vede l’evolversi della situazione da noi?

So ancora molto poco sui fatti e sull’innesco della dinamica. Qualunque cosa avesse fatto il ragazzo che è morto sicuramente non giustificava il suo omicidio. C’è un problema generale di integrazione nella società italiana, questo è vero, ma non riguarda solo la nostra nazione. La presenza di persone che appartengono a culture che vengono classificate come troppo “diverse” provoca inevitabilmente uno stress nei meccanismi di integrazione. Ma c’è un secondo elemento. E questo è relativo non soltanto alla questione della sicurezza, che è stata tirata in ballo forse un po’ troppo, bensì alla diffusa sensazione di impunità. Il problema è che ci sono violazioni di norme che di fatto non producono sanzioni.

Ad esempio qualche giorno fa un signore di sessant’anni ubriaco, guidando un’auto di lusso, ha investito una vigilessa che cercava di bloccarlo. È stato inseguito e arrestato in flagranza di reato, ma il magistrato l’ha rimesso subito in libertà e non ha convalidato l’arresto.

Quando la società percepisce, non l’insicurezza, ma il fatto che le norme non vengono applicate col necessario rigore, possono scattare reazioni come quella avuta dal padre e dal figlio che hanno ucciso quel ragazzo di colore. Sono fenomeni che possono avere per soggetto persone di qualunque tipo. Non c’è dubbio che se a livello di opinione pubblica si ritiene che alcune persone sono più facilmente sensibili a un certo tipo di comportamento criminoso può scattare una motivazione in più.

Ma il punto è che le sanzioni devono essere applicate con una serietà maggiore di quanto avviene. Questo è un criterio che non fa distinzioni di culture o discriminazioni, dev’essere valido per tutti.

Esistono a suo avviso delle buone prassi, dei processi virtuosi ai quali rifarsi per ottenere un’efficiente integrazione?

Questo provvedimento preso in Inghilterra è, tutto sommato, un’azione di buon senso.

È pacificamente accettato dal sistema legislativo, dalla mentalità, da un tipo di cultura politica che è molto meno astratta e teorica della nostra. In Inghilterra non si parla di “destra” o di “sinistra” in questi casi, ma di risolvere un problema che si fa urgente.

In generale vedo che chi si è posto il problema dell’integrazione prima di noi italiani, anche per questioni storiche oggettive, ossia inglesi, francesi e olandesi, ha avuto modo di costruire un modello e si è dato da fare. L’impressione è che in Italia ci si muova con la solita confusione dettata dall’astrattezza dei principi che, d’altra parte, faticano a trovare un’applicazione autentica. Occorrerebbe ispirarsi dunque a quei modelli virtuosi che caratterizzano i Paesi che prima di noi hanno avuto a che fare con l’immigrazione e con problemi di integrazione.


Commenti

16/09/2008 - Arbitrato, legge applicabile e ordine pubblico.

Da sempre l’arbitrato è provincia della libertà, e le parti ad un contratto o ad una lite possono scegliere la legge applicabile preferita. Un arbitrato tra italiani può svolgersi a Parigi applicando i principi UNIDROIT. Perché questo non potrebbe accadere con la Sharia? Gli arbitri hanno anche la facoltà di disapplicare la legge scelta dalle parti qualora in contrasto con le regole alla base di un ordinamento, ossia quelle appartenenti al cd. ordine pubblico. In poche parole, Sharia sì, ma poligamia, legge del taglione e frustate no.(Crema Luigi)


INGHILTERRA/ La sharia e la corte di Sua Maestà

domenica 5 ottobre 2008

Caro Direttore,

respingo la liceità di fare ricorso alla giustizia islamica in un paese democratico sia pure limitatamente agli ambiti propri dell’arbitrato. La radicale disparità di condizioni sostanziali tra le parti all’interno di una corte islamica avrebbe dovuto impedire l’introduzione della Sharia, ed evitare qualsiasi richiamo alla Common Law, in questo caso del tutto fuori luogo. Come si sia potuto trascurare che la Sharia prevede la poligamia, il ripudio, l’affidamento dei figli, la facoltà di punire le mogli perfino picchiandole, come diritti maschili, ivi compresa una privilegiata valutazione dei diritti ereditari, è per me un mistero.

Ma la più scandalosa omissione è l’aver omesso di vagliare il requisito fondamentale dell’arbitrato che contempla la libera e concorde volontà delle parti di fare ricorso a un giudizio islamico; scelta incomprensibile se fatta dalla donna, consapevole d’essere garantita nei suoi diritti umani e civili solo dalle leggi inglesi. Scelta masochistica che induce a un ragionevole sospetto di un vizio basilare a spiegazione del consenso femminile.

Eppure è notorio che una musulmana non può rischiare l’accusa d’insubordinazione al marito che troppo le costerebbe, o peggio ancora, di ribellione nei confronti della Sharia. Non è sufficiente richiamarsi al “dovuto rispetto di tutte le garanzie cosiddette costituzionali previste dalla legge inglese” se non si dà risalto, come condizione prioritaria per un giudizio islamico, all’accertamento di una “libera formazione della volontà delle parti e della sostanziale eguaglianza di genere”. Come posso credere che gli uomini di Legge inglesi non conoscano lo stato di fatto della condizione femminile nell’Islam? Che cosa devo pensare della concessione dell’arbitrato alla legge islamica solo perché tecnicamente in regola con le condizioni che regolano gli ambiti dello stesso arbitrato? Come non sospettare l’uso strumentale di un formalismo giuridico che è fatto prevalere su una Giustizia che si definisce eguale per tutti? Come posso credere che s’ignori l’impossibilità concreta se non anche psichica e mentale di una libera scelta di una donna musulmana osservante? Come in coscienza rifarsi a garanzie costituzionali che tengono in assoluto non cale per deliberata disattenzione, la negata autonomia della donna musulmana? (Per fortuna con molte ammirevoli eccezioni, ma qui sono costretta a basarmi più su i luoghi comuni. Che però fanno costume il quale, qualche volta anche in Occidente, può battere in crudeltà anche la più retriva delle leggi).

Eloquente la reiterata motivazione delle fogge femminili tese ad occultare fattezze fisiche, capigliature o anche il volto. Dipenderebbero dal grande rispetto dei Musulmani verso le donne ch’essi considerano delicati e preziosi gioielli da preservare con cura, da proteggere da ogni rischio e da celare a vogliosi sguardi maschili, rimanendo visibili, e disponibili sessualmente, soltanto dal e per il “suo o loro”uomo.

Che cosa rispondere a queste parole pronunciate perfino con orgoglio ed esplicita lusingata espressione? Come spiegare loro che anche un prezioso gioiello non è che un oggetto e che appunto come oggetti di cui si rivendica la proprietà, sono trattate? Non è apparso un parere forte e autorevole su l’incompatibilità con i diritti umani dell’arbitrato secondo la Sharia, necessario se non vogliamo rivedere la portata dei “diritti umani”.

L’aver concesso l’istituto dell’arbitrato alla Sharia è fatto gravissimo perché sostanzialmente rafforza “i privilegi” della supremazia maschile e conferma la presunta inferiorità femminile, causa della privazione di tanti sacrosanti diritti; il tutto notoriamente codificato nell’Islam. Tanto più non è da condividere l’opinione che la decisione inglese potrebbe costituire una “sperimentazione da seguire con molta attenzione” ( incredibile, e non ci si chiede a spese di chi). Termino con un suggerimento: proviamo a lasciare all’uomo la facoltà di scelta di un giudice musulmano, e a imporre alla donna l’obbligo del giudice inglese con un decreto a tutela della parità di genere. Il dibattimento si svolgerebbe tra i due diversi giudici secondo amichevoli intenti evolutivi. Chissà che non potesse funzionare da acceleratore verso un Diritto unificato, cui tutti dovrebbero attenersi.

Utopia certo, ma è proprio coltivando l’utopia che è possibile sperare.

(Gloria Capuano)



Domenica, 05 ottobre 2008