Le idee
Se nel Nordest il Ramadan è costretto a nascondersi

di RENZO GUOLO

Riprendiamo questo articolo da la Repubblica del 12-09-2008.
Renzo Guolo è docente di Sociologia e Sociologia delle Religioni presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste. Si occupa in particolare dei movimenti fondamentalisti islamici, dell’Islam italiano ed europeo, dei rapporti tra attori politici e sociali nazionali con l’Islam italiano, della geopolitica del mondo musulmano. Su questi temi collabora, tra le altre, con riviste come Il mulino, Limes, MicroMega, Religioni e Società.

MA ESISTE la libertà di culto nei comuni amministrati dalla Lega? A guardare quanto accade nel Nordest in que­sti giorni di Ramadan non sembre­rebbe. Tale libertà pare relegata essenzialmente alla sfera privata. Almeno per i musulmani. "Preghi­no pure, ma a casa loro! A Treviso non si può, vadano in altri comuni, non qui!", affermano perentoria­mente primi e secondi cittadini in cravatta verde del capoluogo della Marca, divenuto città-simbolo dell’intransigenza antislamica del Carroccio. Da tempo nelle città venete i musulmani sono impediti collettivamente nel loro esercizio del culto, anche in locali che pure avevano acquistato o affittato. E costretti o all’umiliante pratica della "moschea itinerante", ospiti temporanei di comuni guidati dal centrosinistra, che hanno conces­so loro degli spazi. O a pregare po­lemicamente all’aperto, sollevan­do le dure reazioni dei sindaci-sceriffi.

Dunque, nel delirio quotidiano che demolisce ogni residua sovra­nità, e autorità, dello Stato centra­le a favore del nuovo, e invasivo, autoritarismo disciplinare locale, i sindaci leghisti decidono anche se gli appartenenti a una confessione possono o meno pregare insieme. Incidendo non solo sulla pratica religiosa ma anche sul concreto esercizio delle libertà costituzio­nali, sancite dagli articoli 3, 8 e 19 della Carta. Omaggio estremo al nuovo "federalismo religioso", ispirato alla nostalgia, regia e litto­ria, dei "culti ammessi". Un’inter­pretazione, quella del "tutto il po­tere ai sindaci" in materia di culto, sposata anche dal ministro dell ’In­terno. Maroni ha adottato formal­mente un basso profilo, preferen­do rivendicare a sé le sole compe­tenze in materia di ordine pubbli­co sulla "questione islamica".
In realtà il ministero dell’Inter­no si occupa istituzionalmente degli affari di culto. E, come dimostra l’operato di due suoi autorevoli predecessori, espres­sione di diverse maggioranze, co­me Pisanu e Amato, quel dicaste­ro può, anche attraverso un orga­nismo come la Consulta per l’islam, essere il motore di un’ini­ziativa tesa a includere i musul­mani nella vita collettiva. Di
quell’esperienza, sia pure con i li­miti che ha mostrato, con la nuova guida leghista, non pare essere ri­masta traccia. La parola è, di fatto, passata ai sindaci: divenuti gli ar­bitri, per i soli musulmani, della piena libertà religiosa in Italia. In un gioco delle parti, che in assen­za di volontà politica o dell’intervento di altri poteri di garanzia, consente agli amministratori lo­cali leghisti di usare attivamente i loro strumenti d’interdizione.

Certo, nessuno può obbligare un comune a adibire uno spazio a luogo di culto. Formalmente, il di­niego è possibile perché la legge urbanistica consente ai comuni di individuare le zone che possono ospitare tale luoghi. Uno stru­mento nato come elemento di pianificazione territoriale in una società non ancora pluralista dal punto di vista religioso, è divenu­to così il grimaldello con cui si im­pedisce l’esercizio di una libertà costituzionale. Mettendosi al ri­paro anche da eventuali ricorsi al­la giurisdizione. L’alternativa, per i "non ammessi", è quella di ac­quistare un edificio, e chiedere il mutamento della destinazione d’uso. Una prassi che, in un terri­torio presidiato in chiave etnico-identitaria dalla Lega è impossibile, come dimostra lo stesso caso trevigiano.

La seconda confessione per nu­mero di fedeli in Italia - un milio­ne e trecento mila persone, nu­meri destinati a crescere -, senza tutele a causa della mancanza di un’intesa con lo Stato e di una leg­ge sulla libertà religiosa, sempre più lontane in questa legislatura ostaggio del Carroccio, incontra, così, seri ostacoli all’esercizio del culto. Con una serie di conseguen­ze destinate a generare tensioni. Sulla comunità islamica, divisa sull’atteggiamento da tenere ver­so una situazione che si configura ormai come aperta vessazione, ma non solo. La leopardizzazione dei diritti imposta da questa politica di esclusione è destinata, in prospettiva, a ridisegnare la stessa mappa georeligiosa del Nordest: a parità di offerta di lavoro i musul­mani saranno attratti verso i cen­tri in cui potranno pregare col­lettivamente, come Padova ad esempio, anziché verso luoghi in cui non potranno farlo. Per­sino le reti migratorie rischia­no, dunque, di essere ridefini­te secondo le linee della libertà religiosa locale, convogliando la manodopera verso i comuni religiosamente meno ostili. Sviluppo cui i leghisti guarda­no con favore, perché "libera­no" il territorio da un fattore percepito come "inquina­mento etnico" e permette di sfruttare le tensioni che ne possono derivare nei centri in cui sono ancora all’opposizio­ne.

La posta in gioco nella " bat­taglia delle moschee" è chiara. Il Carroccio liscia e solletica il pelo dell’elettorato custoden­do, a denti digrignati, quel ruolo di "imprenditore politi­co della paura" che gli ha con­sentito di mietere voti. Del resto, nel senso comune i musul­mani sono un capro espiatorio perfetto: macchiati, nel clima dello "scontro di civiltà", dalla "colpa collettiva" dell’11 settem­bre; litigiosi e divisi al loro interno; guardati con diffidenza dai laici, perché titubanti nel sciogliere no­di come il rapporto tra politica -religione e i diritti delle donne, e da molti cattolici che temono la loro "fede forte". Pochi sono disposti a mobilitarsi per loro. In più, non votano. Né, secondo la Lega,vote­ranno mai.

Il Carroccio non ha alcuna in­tenzione di concedere agli immigrati il diritto di voto. Nemmeno alle amministrative. I "padani" preferiscono far votare alle politi­che gente che da generazioni è lontana dal Paese, come gli italia­ni all’estero, anziché chi vive qui da anni e paga regolarmente le tas­se contribuendo allo sviluppo del­la collettività nazionale. I leghisti sono rigidi fautori del principio dello ius sanguinis e non si curano certo del principio, liberale e de­mocratico, che collega la tassazione alla rappresentanza. Per il Car­roccio non esistono musulmani integrabili: moschea eguale automaticamente terrorismo. Una di­storsione focale che non permette di analizzare ciò che si muove dentro al complesso mondo della Mezzaluna, precludendo qualsia­si ipotesi di costruire una politica verso i musulmani, come fanno tutti gli altri Stati europei.

È funzionale questa politica dello scontro? No, di certo. La negazione dell’esercizio del culto non può che rafforzare quelle componenti della comunità islamica che teorizzano la necessità di non integrarsi nella società per meglio proteggere un’identità in chiave fondamentalista. E dal momento che l’immigrazione è un dato strutturale, non un fenome­no provvisorio, questo muscolare approccio prepara un futuro gra­vido di conflitti etno religiosi.

Mentre la realtà si fa sempre più complessa , e le politiche diplo­matiche e di sicurezza a livello centrale devono tenere conto di vincoli che agli amministratori lo­cali fingono di ignorare, i "padani" agitano lo spadone di Alberto da Giussano. Menando fendenti sul­la convivenza civile. Ma alla Lega questo sembra interessare poco. La società della paura, e dell’or­mai impossibile "purezza" etno-religiosa, è il capitale sul quale lu­cra una rendita politica sicura. La Costituzione? Può attendere!



Venerdì, 12 settembre 2008