Islam e cattolicesimo
L’intervista al Cardinale Scola di Marco Politi

La Repubblica del 30-7-2007


la Repubblica 30-07-2007
Per il Patriarca di Venezia gravi le persecuzioni dei cristiani, ma la fede chiama anche al martirio

"’Pronti al dialogo con gli Islam ma rispettino i nostri valori"

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DAL NOSTRO INVIATO MARCO POLITI

VENEZIA-Il confronto tra Croce e Mezzaluna, lo ha ricordato il se­gretario del Papa, sta in cima all’ a-genda di Benedetto XVI. Per la Chiesa cattolica, per l’Europa è la questione che caratterizza il XXI secolo. Dal Patriarcato di Venezia il cardinale Angelo Scola vede un filo rosso che si snoda dall’Indo­nesia al Marocco fino all’Europa: «C’è una crisi dell’Islam, una crisi di identità provocata dalla globa­lizzazione. C’èlapretesa della tec­no-scienza occidentale, che noi esportiamo, di costruire lafelicità, di essere padrona del futuro sal­tando la dimensione spirituale dell’uomo. E questa logica sta mettendo a dura prova anche l’I­slam tradizionale».

Cardinale Scola, si tratti del ra­pimento di padre Bossi o dell’ar­senale terroristico scoperto in una moschea umbra, la questio­ne Islam entra quotidianamente nelle nostre vite.

«Per questo è importante capi­re e conoscere. Io parlo da cittadi­no europeo medio, non come esperto. Quello che so, lo appren­do dai vescovi e religiosi incontra­ti nei paesi del Medio Oriente, da­gli studiosi di varie parti del mon­do presenti alle riunioni del comi­tato scientifico della nostra rivista Oasis che da sei anni si occupa dei cristiani nei paesi musulmani, dando spazio anche alle loro lin­gue: l’arabo e l’urdù. E per prima cosa ho imparato che è meglio parlare degli Islam, al plurale».

Qual è il profilo della crisi che attraversa quel gran corpo com­posto da un miliardo di seguaci di Maometto?

«Dall’Indonesia al Marocco, anche se non in maniera univoca in tutti i paesi, è in corso una dia­lettica tra radicalismo e am­modernamento. Qual­cuno reagisce in chiave fondamenta­lista: si va dai gruppi estremi ed inaccet­tabili dei terrori­sti al radicali­smo identità-rio rigido sep­pure non vio­lento. Altri, ma spesso sono solo singole perso­nalità, si sforzano di operare la di­stinzione tra sfera civile e religio­sa. Ma è un processo che non è riu­scito ancora a sfondare a livello di popolo. Però insisto, c’è una gran­dissima varietà di situazioni. In Turchia milioni di persone aderi­scono alle correnti Sufi, veramen­te pacifiche, che hanno una com­ponente mistica molto profon­da».

E’ questo il tipo di Islam con cui dialogare?

«Intanto va superato il concetto ambiguo di Islam moderato. Io credo che, con realismo, bisogna dialogare con tutti».

Ritiene ambigua l’idea di un Islam moderato?

«Perché spesso questo Islam moderato viene identificato con certe figure di intellettuali, che magari hanno passato moltissi­mo tempo in Occidente e che mol­te volte dagli stessi musulmani non sono più sentiti come appar­tenenti al loro mondo con il ri­schio che rappresentino solo se stessi. E’ certo utilissimo parlare con loro, forniscono contributi positivi, ma non pensiamo che esista un Islam moderato da op­porre a un cosiddetto Islam radi­cale».

Con chi confrontarsi allora?

«Sono convinto che esiste un Islam di popolo, che vive le istan­ze elementari di ogni uomo, co­muni a tutti noi: come viviamo gli affetti, il lavoro, il riposo, come vi­viamo la nascita e la morte, la cre­scita e l’educazione, come vivia­mo il rapporto con Dio. Su queste basi, cristi aniemusulmaniposso-no entrare pazientemente in rap­porto. Conoscendosi, interrogan­dosi, ascoltandosi. Sapendo che per gli Islam l’unica via per supe­rare il radicalismo è un ammoder­namento che si integri nelle loro fisionomie religiose. E’ un proces­so che andrà avanti per decenni».

In questo processo tra Occi­dente e mondo islamico lei intra­vede anche un "meticciato".

«Indubbiamente è in atto un processo violento, rapido, dolo­roso, di grande mescolanza, che provoca anche ferite tra gli Islam e l’Europa. Si intuisce che i concetti di identità e di integrazione non sono sufficienti. Noi siamo già im­mersi in un meticciato di culture e civiltà. Sia ben chiaro: il meticcia­to non è un obiettivo da costruire, è unprocesso in atto da orientare. Dobbiamo mettere in comunica­zione esperienze, culture, popoli, imparando ad apprezzare la reli­giosità dell’altro, confrontandoci senza operare confusioni. Penso, ad esempio, al grande lavoro che fanno i missionari soprattutto at­traverso le scuole e gli ospedali in paesi a maggioranza musulmana. E’ questalastradalungaepazien-te,marunicaveramentepercorri-bile».

C’è chi paga per questo impe­gno. Padre Bossi è stato rapito e appena liberato, altri sono stati assassinati. In certe regioni è in atto una persecuzione dei cristia­ni.

«E’ un problema molto doloro­so e grave, che noi cristiani dob­biamo riuscire a valutare con l’in­tegralità del realismo della fede. Cristiano è colui che sta immerso nella realtà. Come dice il bellissi­mo Prefazio dei Martiri: il martirio è donato agli inermi e ai deboli è datalaforzadelmartirio. Natural­mente non dobbiamo cercare il martirio e dobbiamo agire in tutti i modi per salvaguardare le nostre comunità cristiane, specialmente in Terra Santa e nel Medio Orien­te, lì dove sono i luoghi che Gesù ha calcato. E i governi devono svolgere con decisione il loro ruo­lo. Ma dobbiamo anche compren­dere-è tremendo doverlo dire- che il martirio può essere doman­dato e può diventare il seme dei cristiani. Fulgida in questo senso è la testimonianza di padre De Chergé, priore di Thibirine».

In Italia si costruiscano mo­schee, mentre in certi paesi mu­sulmani un cristiano non può nemmeno pregare. La Chiesa non deve esigere reciprocità?

«Chiedere la libertà religiosa e la possibilità di esprimerla in tutti i paesi arabi è sacrosanto, ed im­plica un certo concetto di recipro­cità di cui anche a livello di politi­ca internazionale si deve tener conto. Ma subordinare il dialogo a questo è sbagliato. Lamiaposizio-ne è molto netta e chiara. La Chie­sa non lega la sua forza testimo­niale a questo, tanto più che noi cattolici non siamo dei proseliti-sti. La nostra strada è proporre in termini realistici ed oggettivi la bellezza, la verità e la bontà del­l’incontro con Gesù che abbiamo fatto».

Nel nostro Paese si pone la que­stione di un accordo tra Stato e cittadini musulmani. Il mondo cattolico cosa ha da dire?

«C’è da distinguere bene l’azio­ne della Chiesa dal compito dello Stato e della società civile. Pren­diamo gli immigrati. Sbarcano col barcone, si vaia di corsa a dare una mano: la comunità cristiana sente l’urgenza di un intervento imme­diato di accoglienza. Lo Stato, in­vece, deve fare un lavoro diverso: regolare il flusso migratorio a monte, lavorando a livello inter­nazionale per evitare questi sbar­chi. E la società civile è il luogo pri­vilegiato dove operare quel con­fronto da esperienza a esperienza, come stanno facendo le nostre scuole, i nostri quartieri, le nostre parrocchie».

E quando sono in gioco i nuovi diritti chiesti dai musulmani?

«Lo Stato, oltre al doveroso compito di garantire con estrema decisione la sicurezza nazionale, deve fare una politica molto reali­stica, distinguendo bene i diritti fondamentali dagli altri diritti o dalla pretesa di diritti. La poliga­mia, ad esempio: non discuto se facciaparte o no dellapropostare-ligiosa islamica. So che in diversi stati a prevalenza musulmana la poligamia è sconsigliata o addirit­tura vietata. Quindi uno stato oc­cidentale può e deve domandare questo sacrificio a chi desidera stare qui. I diritti fondamentali so­no inalienabili, vanno sempre da­ti. Per altre richieste si può do­mandare benissimo ad una mino­ranza che vi rinunci».

Concorda con l’insegnamento del Corano nelle scuole?

«Per questo e per quanto riguar­da i luoghi di culto c’è un’istanza di principio giusta. Però voglio ve­dere dove sta la comunità reale che lo chiede. Non basta che l’Ara­bia Saudita chieda di costruire moschee dappertutto».

E il velo?

«Tutti comprendiamo che non sarebbe adeguato riprodurre in Europa modelli sociali in contra­sto con la nostra storia. Questo è il criterio con cui affrontare anche questioni come quella del velo».

Eminenza, cosa restadelsogno di papa Wojtyla di una preghiera comune di ebrei, cristiani e mu­sulmani sul monte Sinai?

«Il gesto di Benedetto XVI nella Moschea Blu è già stato un avan­zamento spettacoloso. Nella mo­schea di Istanbul il Papa, certa­mente ispirato da Dio, si mise a pregare in silenzio vicino al Gran Muftì che a sua volta pregava in si­lenzio. Ad Assisi con Giovanni Paolo II si disse: non siamo qui per pregare insieme, ma siamo qui in­sieme per pregare, e lo si fece in di­versi luoghi e momenti. Ad Istanbul il Papa ed il Gran Muftì hanno pregato inventando una nuova via. Hanno pregato gomito a go­mito l’unico Dio; mal’hanno fatto in silenzio perché la preghiera è il supremo atto della libertà. Perciò bisogna rispettare l’identità di chi prega».



Martedì, 31 luglio 2007