Spiritualità francescana
Il "San Francesco dell’Islam"

di Frate Sole

su segnalazione del prof. Gabrile Mandel Riprendiamo questo articolo su Rùmì, ad opera della nota scrittrice Cristina Bolla, dalla rivista francescana "La Squilla". In fondo all’articolo ci sono le immagini dell’articolo così come impaginato sulla predetta rivista. Chi volesse scaricarle clicchi su ogni immagine con il pulsante destro del mouse e scelga poi "salva con nome"


Tra le amicizie più care a "frate sole" ce n’è una che fa un po’ pensare a san Francesco e al sultano, se è permesso - come dice il poeta - paragonare le piccole cose alle grandi.  E oggi più che mai un’amicizia cristiano-musulmana è qualcosa di immensamente prezioso. Nevvero, professor Gabriele Mandel Khan, vicario generale (khalifa) per l“Italia  della Confraternita sufi Jerrahi Halveti?

   Ha il volto barbuto di un saggio orientale, Gabriele (o Gabriel: ma è nato a Bologna). Un personaggio incredibile. Violinista, poeta, pittore, ceramista, studioso di mille discipline, docente universitario di non so quante facoltà, autore di una miriade di libri su una miriade di argomenti, impegnato in un mare di conferenze, mostre, lezioni, cerimonie, corrispondenza con i milleduecento indirizzi della sua mailing list. Forse ha il dono dell’ubiquità, che Dio concede a certi mistici. E anche il dono di sdoppiare, anzi di diluire il tempo, in un anticipo di eternità. Altrimenti, dove troverebbe il tempo di tradurre un poema di cinquantamila versi?

   Si tratta del Mathnawì, l’immenso capolavoro poetico di un immenso poeta mistico sufi, Jalāl ālDīn Rūmī, "il San Francesco dell’Islam".

  Anche Mandel è un mistico. Un sufi. Ormai perfino il popolo della televisione - grazie soprattutto a Franco Battiato -  sa vagamente chi sono i sufi. Vagamente. Su Internet, potete trovare che "le confraternite sufi sono ordini religiosi, come i nostri frati". Non è proprio così. Un sufi può anche essere sposato e padre. Come Mandel,  validamente aiutato della moglie Carla "Nur" a tradurre il Mathnawì.  Come Rūmī  stesso. Il sufi vive di nostalgia, la nostalgia di Dio, e cerca con tutti i mezzi di riavvicinarsi a quella divina Origine. Tra i "mezzi", non è detto che non trovi posto una moglie.

   A novecento anni dalla nascita (1207), l’UNESCO ha dichiarato "anno mondiale di Rūmī" quello che si è appena concluso, con molte manifestazioni, pubblicazioni, incontri, omaggi al grande mistico e poeta. Mettiamoci in coda anche noi.  D’accordo, professor Mandel, se dedichiamo queste due pagine di "spiritualità francescana" al "San Francesco dell’Islam"?

  Avrebbero potuto benissimo incontrarsi, Rūmī e san Francesco. Erano più o meno contemporanei. E quanto si sarebbero voluti bene! C’è, in quel simpaticissimo "santo" musulmano, un’incredibile quantità di tratti in comune col poverello di Assisi. Non solo l’amore di Dio, la preghiera fatta vita, la "santa follia", l’ispirazione poetica, ma il rispetto per gli altri (anche per le altre religioni), la simpatia cosmica per tutte le creature. Rūmī amava persino i cani, animali maledetti per eccellenza nella tradizione islamica.

   C’è anche, per entrambi, quello che i tedeschi chiamano l’Erlebnis, l’avvenimento unico e capitale che sconvolge una vita. Per Francesco fu il bacio al lebbroso. Per Rūmī fu l’incontro con un misterioso personaggio, Shams i-Tabriz (o Shams Tabrīzī, o… Diciamolo una volta per tutte: la trascrizione dei nomi arabi, persiani, turchi, varia moltissimo).

   Jalāl ālDīn (Djalāl ad-Dīn, Gialaladdin, Dschelaleddin ecc.: vedi sopra) era un uomo colto e raffinato, giurista,  figlio di un avvocato e teologo di fama. Era nato a Balkh, nel Khorasan, in una regione  anticamente dominata dai romani (di qui il suo soprannome, “Rūmī”, romano). Ottimi studi, il matrimonio, amici prestigiosi, una brillante carriera davanti a sé: tutto sembrava ben programmato. Ma Dio aveva altri programmi.

   Un bel giorno, dunque, Rūmī incontra Shams. Ed è un terremoto. Chi è questo Shams? Un "folle di Dio", un derviscio errante. Derviscio, darvish,  vuol dire "povero", ma anche "che chiede, che prega": è uno che ha rinunciato a tutti i beni terreni per guadagnare la "perla" inestimabile. (Sì, lettore proprio come dovrebbero essere i frati).  Rūmī si prende un’autentica "cotta" per questo santo errante, e diventa suo discepolo.

    E’ facile malignare su quella "cotta". Ma chi lo fa - non esclusi critici illustri - dimostra di non capire assolutamente niente dell’amore mistico. Anzi, dell’amore e basta, che è Dio. Il legame tra maestro e discepolo può essere uno specchio luminoso, folgorante, dell’amore divino. Un’ebbrezza che fa miseramente scomparire quella del vino, della droga, della carne. Una follia di cui il nostro san Francesco potrebbe raccontarci qualcosa. Rūmī e Shams la vissero in due.

   La "santa follia a due" durerà fino al 3 dicembre 1247, giorno in cui Shams "sparisce". Come? Di nuovo ramingo? Ucciso da discepoli gelosi? O addirittura mai esistito, pura astrazione, come qualcuno sostiene?

   Comunque, niente meglio di quella perdita può "insegnare" a Rūmī la vera,  grande sofferenza dei mistici, quella nostalgia, quel dolore di lontananza dalla Fonte divina che un giorno ispirerà la "liturgia del flauto".

    E l’inizio del Mathnawì, dove il flauto di canna, col suo lamento, canta il dolore della separazione dal  canneto natio. Così l’anima aspira inguaribilmente a tornare al suo Creatore, ad essere una sola cosa con lui. E al suono del flauto danzeranno i "dervisci rotanti" della confraternita fondata da Rūmī. Li avrete visti, almeno in immagine, quei danzatori in abito lungo bianco, che si apre come un fiore nel roteare della danza sacra, il samā.

   Ma Shams e Rūmī, il maestro e il discepolo, sono tanto in simbiosi, tanto identificati l’uno con l’altro, che in fondo poco importa chi sia vivo e chi sia morto. Shams continua a vivere nell’amico e nelle sue opere, tanto è vero che Rūmī firma le poesie del suo "Canzoniere" (Diwan) col nome del maestro.  Altra sterminata opera di poesia, questo canzoniere, più o meno come il Mathnawì. Altro canto di folle amore divino, oceano di parabole, invocazioni, insegnamenti, che ora possiamo leggere in italiano grazie a Gabriel Mandel (l’ha pubblicato Bompiani, in sei volumi).

    Nel 1273, a Konya, dov’è oggi il suo santuario, muore Jalāl ālDīn Rūmī, circondato dai suoi discepoli che lo chiamano devotamente "Mevlana" (signore, mio signore). Konya oggi è in Turchia, Balkh in Afghanistan, la lingua di Rūmī è il persiano. Cittadino del mondo. Soprattutto di quel mondo di lassù dove i confini non esistono più, e Dio accoglie tutti i suoi, tutti quelli che l’hanno amato. Speriamo di andarci anche noi, e di incontrarci Rūmī e san Francesco che leggono insieme il Mathnawi e il Cantico delle creature.









Sabato, 23 febbraio 2008