Le paure dell’Islam (2)

L’imam e le sue paure


di Rosario Amico Roxas

Prosegue l’itinerario delle paure dell’Islam con l’imam, che è diverso da come ci viene presentato dai media occidentali, troppo frettolosi nel giudicare e spesso troppo interessati a condannare.


L’imam e le sue paure

Nella tradizione coranica l’imam non è l’uomo forte che i media ci hanno mostrato; quello è il frutto della disinformazione e dell’arroganza del potere che l’intero occidente ha contagiato ai popoli musulmani.
L’imam sunnita è un leader vulnerabile, sfidabile, contestabile; elementi questi che spesso ne hanno causato la morte.
Si concretizza una figura nuova di imam, è l’imam dei media, come ce lo presentano le fonti di informazione che necessitano di un avallo credibile; forniscono, quindi, all’imam una credibiltà e un’autorità che non ha mai avuto.
L’imam della tradizione vive della sua autorevolezza, ma non ha autorità; esercita il suo ministero di guida della comunità, perché dalla stessa comunità ha ricevuto il “consenso”.
Ma il consenso non è un riconoscimento ab aeternum, può essere revocato se la guida non si manifesta più all’altezza del compito.
Ma questo accade nei paesi musulmani sunniti, dove vige una sorta di “democrazia” interpretativa del Corano, nelle nazioni a prevalenza sciita il discorso è diverso.
L’imam sciita trae autorità dall’essere considerato discendente del profeta e, quindi, in diretto rapporto con Dio; la sua parola ha ben altro peso. Non per nulla la figura dell’ayatollah è emersa tra gli sciiti; una figura anomala, una infenzione del XX secolo.
Non risulta né facile né possibile valutare l’identità musulmana in quanto taluni basano la loro legittimità sul passato, sulla tradizione, altri cercano l’adeguamento alla evoluzione della storia, pur limitatamente a ciò che è ammissibile seondo “l’analogia” interpretativa.
Lo studio della storia, idoneo a capire il presente, non è certamente incoraggiata, se non addirittura scoraggiata. La storia musulmana che conosciamo è quella ordinata dai visir per soddisfare le esigenze di potere, per cui spesso il politico dava a se stesso l’attribuzione di imam, per raccogliere l’autorità necessaria ad esercitare una maggiore severità e negare al popolo quei diritti che contrastano con gli interessi del potere.
Scaturisce da ciò la doppia paura dell’imam; la paura che riesce ad incutere e la paura che deve subire; molte sette minoritarie sostengono che l’imam che viola taluni limiti può e deve essere ucciso, sconvolgendo l’idea tutta occidentale di un imam onnipotente.
Oggi l’imam viene presentato in Occidente come un baluardo della religione e anche del dispotismo, perché c’è l’urgenza di fornire spiegazioni e improvvisare chiarimenti da parte dei media occidentali, che non intendono scendere nei particolari che la storia ci fornisce.
La differenziazione del potere degli imam ha origini antiche, che coincidono con la stessa nascita dell’islam. Fa riferimento allo scontro tra Mu’taziliti e Kharigiti I primi aperti al confronto e alle idee che provengono anche da altre culture e per questo condannati con l’accusa di essere al servizio degli stranieri.
Fu innanzitutto la condanna dello spirito umanistico che i Mu’taziliti volevano introdurre nel complesso mondo musulmano; una condanna che continua ancora adesso, dopo avere attraversato i secoli. Ma la cultura occidentale non intende aiutare questa larga parte del mondo musulmano, prefersisce ascoltare i Khagiriti per poterli criticare e combattere, assimilando in questa categoria l’intero Islam.
Secondo i Khagiriti “il potere appartiene solo a Dio”, per cui diventa doveroso ribellarsi all’imam che non protegge i diritti del credente; questio slogan, portato alle estreme conseguenze, ha causato nei secoli òla condanna e spesso la morte di imam e uomini di potere.
Lo stesso Anwar Sadat subì una condanna a morte, che l’Occidente liquidò come attentato terroristico, evitando di capire e intervenire con forme diverse di dialogo, incontrando e dialogando con i Mu’taziliti, che invece furono ignorati.
La tradizione ribelle dei Khagiriti è quella che coniuga la dissidenza al terrorismo.
Si spiegano così gli attentati in Iraq contro gli stessi iracheni; è la dissidenza alla politica di connivenza con le forze straniere che stimola attentati terroristici; in questo modo la violenza diventa un corollario della ribellione e della dissidenza.
L’uso della forza per stroncare gli atti terroristici alimenta una spirale contraria; non c’è margine per la paura, ma si accentua quello della dissidenza che esclude ogni dialogo: all’uso della forza si risponde con il terrorismo, che diventa anche un messaggio contro i popoli, non contro i governi che hanno deciso l’uso della forza.
Sono i popoli che devono subire lo stato di paura.
Anche gli imam si devono adeguare per non essere inclusi tra i dissidenti interni e subire la condanna.
La chiusura al dialogo e al confronto, provocata dall’uso indiscriminato della forza, non genera quella paura che l’Occidente si dichiara soddisfatto di provocare, ma alimenta il dissenso e la reazione, e svilisce ogni ipotesi differente, poiché non trova alcun sostegno.
L’opposizione intellettuale alla violenza reattiva è stata repressa e messa a tacere dallo stesso Occidente, così la ribellione politica, che si concretizza nel nazionalismo, si è fusa con la ribellione religiosa, rappresentata dal fondamentalismo; questa simbiosi ha formato una miscela di enorme potere distruttivo, che si alimenta con le paure che lo stesso Occidente ha generato e continua a generare.



Lunedì, 22 ottobre 2007