Conoscere l’Islam
Nonviolenza e Islam

di Elvio Issa Arancio

Riprendiamo dal sito www.islam-online.it, che ha da poco riorganizzato la sua struttura, con molti più servizi per gli utenti desiderosi di conoscere la realtà dell’islam, questo interessante articolo di Elvio Issa Arancio, presidente del Centro Studi Europeo Ibn Sina su un aspetto, quello della nonviolenza, assai poco noto, soprattutto in questi tempi di islamofobia cronica.


Da alcuni anni e ancor prima dell’11 settembre, in Occidente, da parte di alcune componenti politiche e diversi mezzi d’informazione vi è la tendenza a soffiare sul fuoco della paura che si originerebbe dall’Islàm, dalla sua aggressività violenta e dal suo assolutismo, che si vogliono far passare come sue intrinseche ed ineliminabili  caratteristiche. Non vi è dubbio che esistano gruppi di musulmani che praticano la violenza, ma andrebbe anche ricordato che la comunità dell’Islam  attualmente sul pianeta è di circa un 1.350.000.000 di persone, presenti in tutti i continenti. Questo dato, da solo,  dovrebbe far riflettere l’opinione pubblica: i musulmani delle cui gesta, quotidianamente, veniamo informati rappresentano un’assoluta minoranza. Ovviamente non significa non porsi il problema: come musulmani abbiamo il dovere di intervenire su una questione che è all’ordine del giorno. Ritengo opportuno, per affrontare proficuamente il contrasto che si genera nell’accusa di gran parte dell’Occidente al mondo islamico, definire alcuni aspetti dottrinari inerenti la violenza nell’Islam.

Il testo sacro dei credenti musulmani, il Corano, indica con dettami ben precisi, sia la situazione in cui è ammesso l’uso della forza, sia il modo in cui metterla in atto.

Sinteticamente potremmo definire che la risposta violenta è consentita solo di fronte a palesi situazioni di rischio per la comunità, ad esempio tentativi di occupazione illecita della  terra da parte di forze conquistatrici o dell’impossibilità di vivere liberamente la propria fede in Dio nel proprio Paese.

L’uso della violenza è quindi una risposta, mai dovrebbe essere un aggressione, inoltre la pratica violenta non può essere  protratta più del necessario, in quanto non vi deve essere accanimento o vendetta: “non esercitare la prevaricazione”, ma “cerca la riappacificazione“ dice il Corano. La Sunna poi vieta di colpire, nelle forze nemiche, le donne, i bambini e gli anziani, proibisce il danneggiamento delle terre agricole e l’inquinamento delle acque.

Da questa succinta introduzione si può dedurre che il tema della violenza con tutte le sue implicazioni non è affatto sottaciuta, ma è parte essenziale dell’etica islamica.

Milioni di musulmani vivono oggi la condizione che legittimerebbe la risposta violenta per l’usurpazione della loro terra o dei loro diritti (vedi Iraq, Cecenia, Palestina, Afghanistan), ma non sono certo milioni coloro che la mettono in atto.

Se non si appartiene alla categoria, nefasta, degli export di democrazia o ai fautori  dello scontro di civiltà, si possono agevolmente comprendere le ragioni che sottostanno al ricorso della violenza in questi paesi, ma che comunque, a mio avviso, non la possono giustificare pienamente.

Considero necessario dedicare alcune poche righe al termine jihad, comunemente tradotto con “guerra santa“. Nella tradizione islamica “jihad fi sabil Allah”,  significa “impegnarsi sulla via di Dio” e non contiene alcuna implicazione di natura violenta o aggressiva. Lo sforzo, questo è il significato di jihad, più importante, è quello che implica un’esistenza  armoniosa, un’evoluzione di se stessi, un superamento delle proprie debolezze, un’ applicazione dei dettami divini.

Vi sono  hadith, detti del Profeta, che ben illustrano questa interpretazione dello sforzo sulla via di Dio, tra i quali ad esempio:

 

 “Il jihad più meritevole è un pellegrinaggio compiuto con devozione” o ancora “ Il più eccellente jihad mira alla conquista di se stessi”.

 

Un’analisi più attenta delle dinamiche politico-sociali del mondo musulmano contemporaneo implica un approfondimento storico,  un’osservazione necessaria, al periodo coloniale europeo. 

La penetrazione  dell’Occidente in quasi tutti i paesi musulmani, subita da questi per alcuni secoli, ha determinato, in diversi pensatori islamici dell’epoca, una rilettura del significato di jihad, in termini di “resistenza all’ingerenza straniera”.

L’offesa provocata dal colonialismo ha messo in discussione i tre elementi fondanti della concezione islamica di comunità: l’unità della Umma al-Islamiyya (la comunità islamica), la sacralità di Dar al-Islam (la Casa dell’Islam, intesa come terra, nazione )  e l’alta dignità dell’etica islamica. Il mondo musulmano contemporaneo rappresenta l’esito dello sconquasso prodotto dal colonialismo, che influenza tutto l’andamento di queste società, in termini storici, sociali, ma anche economici e politico-istituzionali.

Il jihad acquisisce dunque in questa fase storica il significato di resistenza all’invasore, in un contesto in cui l’Occidente neo- coloniale viene vissuto come oppressore, persecutore e portatore di valori non condivisibili. Vogliamo dar torto ai musulmani che percepiscono  in tal modo  la presunta civiltà occidentale ?

Ritengo che le ragioni che vedono in varie parti del mondo gruppi di musulmani difendere la propria autonomia politica ed economica,  il riconoscimento dei loro diritti d’indipendenza, la salvaguardia della propria civiltà, siano legittime e da sostenere, ma, al contempo, la questione che è urgente porsi all’interno del mondo islamico è quale risposta attuare nei confronti di queste politiche  neo-colonialiste, quale forma di lotta adottare,  in altri termini quale jihad? Se da una parte considero legittime le ragioni che spingono alla difesa dei propri diritti le popolazioni palestinesi, cecene, afgane e irachene, considero, dall’altra, inopportuna, non islamica e perdente la strategia della violenza.

 

Tenterò di spiegarne i motivi.

Dalla prima guerra mondiale ad oggi, i conflitti sono caratterizzati da un aumento esponenziale delle vittime civili (bambini, donne e anziani soprattutto), vogliamo noi musulmani  partecipare e sostenere questo tragico e doloroso dato? Accettiamo il linguaggio furioso delle armi, ben diverse da quelle utilizzate al tempo della rivelazione coranica? Se considerassimo unicamente le indicazioni del testo sacro sulla guerra, i razzi Hezbollah o palestinesi, le auto-bombe che colpiscono nel mucchio, bambini, donne, vecchi (fra gli altri anche musulmani) sono una offesa al Corano, non consola e non giustifica che americani o israeliani lo facciano su larga scala,  noi dovremmo essere d’altro segno. La violenza praticata dai musulmani deve essere regolata secondo le norme contenute nei testi sacri, su questo credo si sia tutti d’accordo, ma se gli strumenti di violenza oggi utilizzati non consentono di discriminare tra combattenti e civili inermi, il loro uso non è islamicamente  ammissibile, è altresì evidente che le moderne tecnologie di distruzione rendono tale scelta effettivamente impossibile.

 Nell’era contemporanea, per un musulmano, non ci sono le condizioni per il ricorso legale, in senso sharaitico, alla violenza.

I musulmani dovrebbero considerare le potenzialità della lotta nonviolenta, della sua etica e del suo intrinseco valore.

L’aveva capito un grande personaggio del ‘900, Badshah Khan, il "Gandhi della frontiera", "il musulmano soldato di pace ", un afghano della regione di Peshawar che si unì giovanissimo al movimento di Gandhi e che dedicò tutta la sua vita a convincere la sua gente, i pashtun, una delle etnie più bellicose della terra, a rinunciare alla violenza e al loro antico codice d’onore che impone ad ognuno il badai, l’obbligo di vendicare col sangue ogni omicidio o anche un semplice insulto subito dall’etnia, dal clan, dalla famiglia: un codice di vendetta, questo, che ha macchiato per secoli la storia afgana.

Badshah Khan arrivò a mettere assieme un esercito di oltre 100.000 uomini, i "Servi di Dio", dediti alla nonviolenza. Alla testa di questi soldati disarmati, il nonviolento afgano partecipò alla lotta contro l’imperialismo inglese per l’indipendenza. Figura inconfondibile, forte, alto quasi il doppio del Mahatma, Badshah Khan, fu al fianco di Gandhi in tutte le sue grandi battaglie, ultima quella contro la spartizione del continente in India e Pakistan. Lui, che pure era un fervente musulmano, non credeva nell’idea di uno Stato fondato sull’esclusività religiosa. Non credeva neppure che i pashtun dovessero accettare la linea Durant, quell’artificiale frontiera stabilita dal colonialismo britannico, che li lasciava, come sono ancora oggi, divisi: una parte in Pakistan e una parte in Afghanistan. Per questo, quando morì nel 1988, all’età di 98 anni, dopo aver passato un terzo della vita nelle galere inglesi prima e in quelle pakistane poi, volle essere sepolto a Jalalabad.

L’Afghanistan, occupato allora dai sovietici, era in piena guerra, ma lui ancora sul letto di morte continuò a ripetere che la nonviolenza era l’unica forma di difesa possibile e la sola via per salvare il mondo.

Il suo ultimo messaggio, fu una semplice domanda. " Perché si producono ancora delle armi di distruzione di massa? ".

La domanda che dovremmo porci oggi, come credenti nell’Islam, è: “perché accettiamo l’altrui logica demoniaca delle armi?”. Non ne siamo neanche produttori.

Quando, pur con tutta la comprensione possibile, sento musulmani affermare: ”faremo a loro, quello che hanno fatto ai nostri figli, alla nostra gente” considero questa la perdita della nostra civiltà, dei nostri valori, dell’etica islamica, significa che un germe  maligno si è insediato nella nostra comunità. Mi sembra ovvio che tale germinazione è in atto anche altrove, non mi stupisce, ma  non ci giustifica. .

Se la dichiarata guerra al terrore di matrice islamica (in realtà progetto di occupazione ed egemonia politica-economica americana e dei suoi alleati) necessita di un nemico disponibile, tutti i musulmani che, pur con tutte le differenze possibili, reagiscono con atti di terribile violenza, diventano complici del sinistro programma.

Questa perdita dell’etica e il conseguente ricorso alle armi, alle auto-bombe, ai kamikaze è esattamente quello che auspicano i governi neo-colonialisti, il musulmano violento corrisponde perfettamente al copione  in atto :   occorrono comparse barbute che guerreggino in nome di Allah e che  di conseguenza giustifichino gli interventi militari a largo raggio, per liberare le donne dal burka, per contrastare inesistenti alleanze tra il dittatore Saddam e Al Qaeda, per favorire l’esportazione della libertà e della democrazia (Iraq) o il persistere dell’occupazione in Palestina motivata dal perdurare del fenomeno terrorismo (razzi Kassam, kamikaze ).

 

Naturalmente la corsa all’accaparramento delle risorse energetiche del pianeta o l’egemonia politico-economica non è dichiarata tra gli scopi di queste democrazie benefattrici, ma i musulmani dovrebbero non rimanere intrappolati in questo gioco! Il dispiegamento delle forze in campo è tale che non esiste controinformazione, buona volontà, coraggio, resistenza irachena, afgana, kamikaze, Hezbollah che tengano, anzi, tutto ciò finisce con il sostenere il demoniaco disegno altrui. La scorsa estate in seguito al pesante attacco israeliano al Libano, in molte capitali, anche europee, molti manifestanti e non solo musulmani inneggiavano “siamo tutti Hezbollah “, confesso che non riuscii a partecipare al coro, provai un disagio profondo, precisamente per il motivo di cui sopra. Cioè perché  i combattenti sciiti libanesi, finiscono per rappresentare al meglio la parte per la quale sono stati scritturati a loro insaputa, scritturati per un copione che non dovrebbe, come musulmani,  appartenerci. Il coraggio, il martirio, non bastano, ma soprattutto non servono: se questa è la trama che si vuole imporre, i musulmani dovrebbero avere la lucidità, l’intelligenza di non assecondarla rifacendosi proprio al testo coranico, che ponendo precisi  limiti e condizioni all’uso della forza, ci vuole, in tutto il suo valore profetico, ammonire a non partecipare all’escalation di follia omicida che ha caratterizzato la storia umana dell’ultimo secolo. Restiamo fuori dai copioni diabolici, lo scontro armato,  la lussuria delle armi va rifiutata, non è nel solco tracciato dal Corano e dal Suo Inviato (pbsl).

La realtà tragica di questi conflitti è una continua fonte di dolore per i musulmani di tutto il mondo, sono anni di sofferenza che si sommano tra loro. Rabbia e tristezza riempiono i cuori di milioni di persone: sentimenti questi che paralizzano le coscienze. La maggior parte dei musulmani è in realtà confusa, impotente, incredula di fronte a questa condizione: l’Islam è il nemico, questo è il messaggio che gran parte dell’Occidente proclama.

Smarrimento e turbamento serpeggiano tra i musulmani, ma il ricorso alla violenza ci svilisce, ci snatura ed è quel che serve ai nostri nemici, auspicano il nostro imbarbarimento per giustificare la loro presunta superiorità morale e civile.

La rabbia e la tristezza, a differenza di altri sentimenti, richiedono tuttavia una loro elaborazione, una trasformazione positiva, si potrebbe dire proficua, capace di indirizzare più chiaramente ed efficacemente l’agire dei musulmani. Rabbia e dolore se non trasformate in questa direzione possono sfinire, ma soprattutto annebbiare le intelligenze, l’etica islamica e di conseguenza le scelte strategiche. Si rende necessario un vasto e profondo dibattito all’interno del mondo islamico.

Ogni bomba o razzo o kamikaze rafforza l’immagine di un Islam violento, folle, spaventoso, consolidando l’idea  che in questi anni un’ accurata propaganda ha voluto instillare nell’inconscio collettivo: il prototipo generalizzato del musulmano, cattivo, irragionevole, fanatico.

Occorre capire che abiurare la violenza, anche se mossa da posizioni di giustizia, è necessario per dare più forza e credibilità alle proprie posizioni, riflettere e comprendere che l’uso della violenza indebolisce senza eccezione, non sostenendo mai i propri giusti diritti, anzitutto perché insudicia le proprie ragioni, occultando e deprimendo il proprio diritto umano con azioni disumane.

E’ necessario aggiungere che vi è un pericolo connaturato nell’uso degli strumenti di guerra oggi in dotazione agli eserciti: un inasprimento, un’escalation del conflitto con esiti nefasti e catastrofici per tutta l’umanità.

Ai credenti nell’Islam compete testimoniare la loro fede, svelare le ingiustizie, combatterle con il coraggio della verità e l’amore per la creazione di Dio, che li vede in compagnia d’altre creature.

Ricordare che esistono, anche fuori della comunità dei musulmani, uomini e donne che ci sono vicini o che possono diventarlo, con cui costruire alleanze, cooperare per costruire un futuro possibile di collaborazione e di pace.

Elvio Issa Arancio

 

Presidente Centro Studi Europeo Ibn Sina



Mercoledì, 25 luglio 2007