Per il dialogo cristianoislamico

La scelta del perdono

di Bruno Forte, teologo

 

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Da Il Mattino di Napoli di Domenica 4 Novembre 2001

A distanza di una settimana da quell'11 settembre che ha cambiato la nostra storia proposi dalle colonne di questo giornale una riflessione sulla necessità di indirizzare la sete di giustizia, accesa dalla violenza subita, verso l'impegno per una più grande giustizia, volta soprattutto a sradicare le cause dell'odio che nei deboli e negli oppressi è motivato dall'egoismo e dall'indifferenza dei potenti del «villaggio globale». Mi sembrava che questo fosse il nome attuale del perdono e di quel «Porgi l'altra guancia» che fa la differenza del Vangelo rispetto a ogni logica solo mondana.
Allora come oggi la via bellica mi appariva la peggiore, soprattutto se a pagare sarebbero state vittime civili, innocenti già tartassati da anni di soprusi e di miseria. Ritornare su queste idee alla luce dei fatti avvenuti mi sembra più che mai necessario e urgente: mi conforta tra l'altro il continuo, incessante richiamo del Papa, vero - e purtroppo spesso inascoltato - profeta della pace. L'occasione del centenario della nascita di Lanza del Vasto (che sarà celebrato domani in un Convegno alla Facoltà Teologica e all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) mi invita a partire da una sua pagina: «Ogni male e ogni ingiustizia - scrive il Fondatore dell'Arca - cominciano con l'errore... Chi è dunque il cattivo? Chi è quello che mi strappa i miei averi, che calpesta i miei diritti, che vuole la mia morte o quella dei miei cari? Chi è costui? È un uomo che si sbaglia. Questa constatazione è di grande importanza, è su di essa che si poggiano le fondamenta della nonviolenza. La prima conseguenza che ne deriva è che mi trovo dispensato dal doverlo odiare. In effetti, sarebbe vano, ridicolo, inopportuno e assolutamente ingiusto odiare un uomo perché si sbaglia. La seconda conseguenza è che io ho il dovere elementare e pressante di fargli aprire gli occhi...

La terza conseguenza è che ho davanti a me il mio compito e la mia battaglia come una pianta disegnata: devo far cadere una dopo l'altra le giustificazioni del mio nemico, le giustificazioni che lo difendono, che l'accerchiano e che lo accecano, fino a metterlo, solo e nudo, di fronte al suo stesso giudizio. La Verità avrà ragione di lui. Avrò trovato la soluzione del conflitto» (Che cos'è la nonviolenza, Milano 1990, 17s). Vorrei provare a verificare le tre conseguenze indicate in quanto sta avvenendo nello scenario del mondo.
Mi sembra che nonostante tante dichiarazioni di principio sulla «guerra giusta», l'odio stia avendo il sopravvento sul perdono e sulla ragione: e ciò non solo nella cieca follia dei fondamentalisti islamici che si ispirano a Bin Laden e ai suoi proclami farneticanti, ma anche in tanti protagonisti del potere e in tanta parte dell'opinione pubblica occidentale. L'odio non è solo volere il male altrui fino alla distruzione dell'altro: odio è anche il non voler ragionare, il non cercare a tutti i costi vie che siano alternative alla barbarie delle bombe, il puntare sulla guerra dotata dei più sofisticati strumenti di morte come se fosse l'unica strada percorribile. Questo è sbagliato: e lo è soprattutto perché contravviene manifestamente alle altre due conseguenze indicate. Non mi sembra che i bombardamenti abbiano conseguito finora l'effetto di far aprire gli occhi a chi è in errore, né mi sembra che essi esprimano la scelta che già un mese fa indicavo come la più urgente e necessaria, quella di puntare con tutta l'energia possibile su un rinnovato impegno di giustizia verso i poveri della terra e i dimenticati della storia. A costo di parere utopico, mi sembra che questo discorso sia l'unico veramente convincente: la riprova è che l'aver perseguito la via bellica come l'unica percorribile sembra aver prodotto finora una crescita esponenziale di consenso verso l'errore in tante masse arabe e un aumento del potenziale di odio che alimenta la barbarie terrorista, a quanto pare essa stessa crescente su tutti i fronti. Veramente, come ricordava un altro grande Papa alle soglie dell'ultimo conflitto mondiale, «con la guerra tutto è perduto, con la pace tutto è possibile». Perché allora non decidersi a trovare altre vie per affrontare il nemico comune dell'umanità, che è il fanatismo, e aiutarlo a stanarsi dall'errore di cui è prigioniero? È questo il fronte dove tutti i credenti dovrebbero sentirsi accomunati, a qualunque credo appartengano: è qui che musulmani e cristiani dovranno lavorare insieme. E se ai discepoli del Corano è chiesto oggi più che mai di seguire quei precetti del loro testo sacro che li invitano alla misericordia e al rispetto dell'altro e del diverso, ai cristiani è chiesto non di meno di testimoniare con radicalità e convinzione le esigenze del Vangelo, il primato del perdono, l'amore del nemico, il conseguente impegno per la giustizia più grande. Non è tempo di mezze misure e di equilibrismi diplomatici. Un grande popolo, come è quello americano, in larghissima parte cristiano, deve essere aiutato a fare la sua grande scelta secondo la via dell'amore più grande e non secondo quella della paura e dell'odio. Perciò va bandito ogni pacifismo ideologico e strumentale, e perciò va invocata la testimonianza pura e credibile di chi su questi valori del Vangelo ha giocato la vita e la spende nella carità per gli altri. Il Papa insegna. L'importante è non lasciarlo solo.


"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

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