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Da Il
Mattino di Napoli di Domenica 4 Novembre 2001 |
A distanza di una settimana da quell'11 settembre che ha cambiato la
nostra storia proposi dalle colonne di questo giornale una riflessione sulla necessità di
indirizzare la sete di giustizia, accesa dalla violenza subita, verso l'impegno per una
più grande giustizia, volta soprattutto a sradicare le cause dell'odio che nei deboli e
negli oppressi è motivato dall'egoismo e dall'indifferenza dei potenti del «villaggio
globale». Mi sembrava che questo fosse il nome attuale del perdono e di quel «Porgi
l'altra guancia» che fa la differenza del Vangelo rispetto a ogni logica solo mondana.
Allora come oggi la via bellica mi appariva la peggiore, soprattutto se a pagare sarebbero
state vittime civili, innocenti già tartassati da anni di soprusi e di miseria. Ritornare
su queste idee alla luce dei fatti avvenuti mi sembra più che mai necessario e urgente:
mi conforta tra l'altro il continuo, incessante richiamo del Papa, vero - e purtroppo
spesso inascoltato - profeta della pace. L'occasione del centenario della nascita di Lanza
del Vasto (che sarà celebrato domani in un Convegno alla Facoltà Teologica e
all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) mi invita a partire da una sua pagina:
«Ogni male e ogni ingiustizia - scrive il Fondatore dell'Arca - cominciano con
l'errore... Chi è dunque il cattivo? Chi è quello che mi strappa i miei averi, che
calpesta i miei diritti, che vuole la mia morte o quella dei miei cari? Chi è costui? È
un uomo che si sbaglia. Questa constatazione è di grande importanza, è su di essa che si
poggiano le fondamenta della nonviolenza. La prima conseguenza che ne deriva è che mi
trovo dispensato dal doverlo odiare. In effetti, sarebbe vano, ridicolo, inopportuno e
assolutamente ingiusto odiare un uomo perché si sbaglia. La seconda conseguenza è che io
ho il dovere elementare e pressante di fargli aprire gli occhi...
La terza conseguenza è che ho
davanti a me il mio compito e la mia battaglia come una pianta disegnata: devo far cadere
una dopo l'altra le giustificazioni del mio nemico, le giustificazioni che lo difendono,
che l'accerchiano e che lo accecano, fino a metterlo, solo e nudo, di fronte al suo stesso
giudizio. La Verità avrà ragione di lui. Avrò trovato la soluzione del conflitto» (Che
cos'è la nonviolenza, Milano 1990, 17s). Vorrei provare a verificare le tre conseguenze
indicate in quanto sta avvenendo nello scenario del mondo.
Mi sembra che nonostante tante dichiarazioni di principio sulla «guerra giusta», l'odio
stia avendo il sopravvento sul perdono e sulla ragione: e ciò non solo nella cieca follia
dei fondamentalisti islamici che si ispirano a Bin Laden e ai suoi proclami farneticanti,
ma anche in tanti protagonisti del potere e in tanta parte dell'opinione pubblica
occidentale. L'odio non è solo volere il male altrui fino alla distruzione dell'altro:
odio è anche il non voler ragionare, il non cercare a tutti i costi vie che siano
alternative alla barbarie delle bombe, il puntare sulla guerra dotata dei più sofisticati
strumenti di morte come se fosse l'unica strada percorribile. Questo è sbagliato: e lo è
soprattutto perché contravviene manifestamente alle altre due conseguenze indicate. Non
mi sembra che i bombardamenti abbiano conseguito finora l'effetto di far aprire gli occhi
a chi è in errore, né mi sembra che essi esprimano la scelta che già un mese fa
indicavo come la più urgente e necessaria, quella di puntare con tutta l'energia
possibile su un rinnovato impegno di giustizia verso i poveri della terra e i dimenticati
della storia. A costo di parere utopico, mi sembra che questo discorso sia l'unico
veramente convincente: la riprova è che l'aver perseguito la via bellica come l'unica
percorribile sembra aver prodotto finora una crescita esponenziale di consenso verso
l'errore in tante masse arabe e un aumento del potenziale di odio che alimenta la barbarie
terrorista, a quanto pare essa stessa crescente su tutti i fronti. Veramente, come
ricordava un altro grande Papa alle soglie dell'ultimo conflitto mondiale, «con la guerra
tutto è perduto, con la pace tutto è possibile». Perché allora non decidersi a trovare
altre vie per affrontare il nemico comune dell'umanità, che è il fanatismo, e aiutarlo a
stanarsi dall'errore di cui è prigioniero? È questo il fronte dove tutti i credenti
dovrebbero sentirsi accomunati, a qualunque credo appartengano: è qui che musulmani e
cristiani dovranno lavorare insieme. E se ai discepoli del Corano è chiesto oggi più che
mai di seguire quei precetti del loro testo sacro che li invitano alla misericordia e al
rispetto dell'altro e del diverso, ai cristiani è chiesto non di meno di testimoniare con
radicalità e convinzione le esigenze del Vangelo, il primato del perdono, l'amore del
nemico, il conseguente impegno per la giustizia più grande. Non è tempo di mezze misure
e di equilibrismi diplomatici. Un grande popolo, come è quello americano, in larghissima
parte cristiano, deve essere aiutato a fare la sua grande scelta secondo la via dell'amore
più grande e non secondo quella della paura e dell'odio. Perciò va bandito ogni
pacifismo ideologico e strumentale, e perciò va invocata la testimonianza pura e
credibile di chi su questi valori del Vangelo ha giocato la vita e la spende nella carità
per gli altri. Il Papa insegna. L'importante è non lasciarlo solo. |