Un'immagine della Mecca

Conoscere l'Islam  

DIRITTO ISLAMICO:

UN PONTE TRA DOGMA ED UMANESIMO

Quando qualche autentico islamista nostrano ci viene a parlare di diritto e di legge nell'Islam, diciamo la verità, non ci crediamo. Proviamo a capire qual è invece la realtà.

di Carlo Cresciteli

Islam Il Dialogo Home Page Scrivici

 Sommario
  1.  
  2. Introduzione: l'Islam e la legge.
  3.  
  4. Legge ebraica, cristiana, islamica.
  5.  
  6. Le caratteristiche della legge islamica.
  7.  
  8. Mahmud Taha e il "doppio Corano".

1. Introduzione: l'Islam e la Legge.

Si ode spesso, sulla scorta delle conoscenze frettolosamente acquisite da parte di divulgatori e commentatori disinformati, ribadire il luogo comune secondo il quale non esiste, all'interno del pensiero politico islamico, una reale autonomia del concetto di "legge". A dire il vero, libri e giornali sono sovente infarciti di dissertazioni tese a negare addirittura l'esistenza di una filosofia politica islamica distinta dalla dottrina religiosa. Ciò ottiene l'effetto di ingenerare nella pubblica opinione una serie di equivoci che, uniti agli inevitabili pregiudizi connessi alla "lontananza" culturale ed ideologica della materia, producono ulteriore errata informazione.

Proviamo allora subito a riassumere. Tutti noi, da qualche lettura fatte per caso o da altre notizie sporadicamente ed indirettamente orecchiate, ci siamo andati abbastanza stabilmente convincendo come il mondo dell'Islam assomigli molto ad una casbah cupa e violenta dove la legge e i diritti dell'uomo sono sopraffatti e negati da un fanatismo secolare ed invincibile che permea di sé e dei propri arbitrii ogni aspetto della vita quotidiana, tormentando l'esistenza delle popolazioni ad esso soggette con restrizioni di stampo medievale, puritanesimi ultravittoriani, crudeli e sadiche pene corporali, bestiale intolleranza, retrograda segregazione dei sessi, terrificanti fronde dinamitarde.

Le esperienze quotidiane dell'isolamento e della marginalità prodotte dalla triste situazione sociale degli immigrati islamici africani e mediorientali nel nostro paese ci rafforzano in queste nostre convinzioni, e così, come i nostri avi che andavano alle Crociate, ci siamo abituati a sorridere di scherno quando qualche autentico islamista nostrano ci viene a parlare di diritto e di legge nell'Islam. Diciamo la verità, non ci crediamo. Non ci crediamo perché tutto sembra argomentare il contrario, e addirittura se proviamo ad approfondire riceviamo subito ulteriori conferme dai nostri primi approcci al Corano.

Non esistono allora vere leggi nell'Islam, non esiste un sistema giuridico, non esistono diritti dell'uomo, non esistono garantismi, non esiste tolleranza, non esiste giurisprudenza né - in altre parole - civiltà e progresso intellettuale? Viene davvero tutto risucchiato e annullato da questo mostro onnivoro e cannibale che è il senso islamico di Dio e del Divino?

E' proprio vero, no, non esiste niente di tutto ciò, se ci fermiamo all'apparenza delle cose, se le interpretiamo secondo schemi e metri di giudizio rigidi e precostituiti, se non abbandoniamo le nostre idee preconcette.

E invece sì, esistono una compiuta civiltà ed una tradizione islamica nella legge e nel diritto, se sappiamo riconoscerle per quello che sono, fonti diverse ed eterogenee rispetto alle nostre ma comunemente ispirate dalla volontà dell'uomo di applicare al mondo le proprie idealità etiche, universali proprio come il senso ed il valore della legge, della tolleranza e del progresso.

In questa logica, la dottrina islamica può accompagnarci allora anch'essa, insieme alle grandi utopie laiche, nel cammino ideale verso la felicità del genere umano nella pacifica e rispettosa convivenza e comunità di intenti: la storia, la conoscenza, la cultura, i valori irrinunciabili, la civiltà ed il progresso sociale sono patrimonio comune dell'intera umanità antropologicamente intesa, e non esiste scuola di pensiero né dottrina religiosa che possa andare in direzione diversa. Tantomeno quelle islamiche. I dotti islamici orientali del Medioevo studiavano con passione Platone ed Aristotele, ed il segno delle loro Repubbliche rimane indelebile ad oggi nelle evoluzioni e nei rivolgimenti politici che l'Islam elabora e sperimenta. Noi occidentali non abbiamo mai mostrato la stessa attenzione intellettuale, eppure avremmo dovuto e dovremmo.

Come un po' tutti i libri veicolari della storia dell'uomo, anche il Corano può presentare, se avvicinato a mente sgombra da pregiudizi, una diversa chiave di lettura, una doppia anima che ci introduce alla comprensione dell'essenza più vera, intima ed imperitura del messaggio di civiltà universale in esso racchiuso, intelligibile e fecondo per i credenti come per gli "infedeli": è la tesi di chi oggi, nell'Islam e al di fuori dell'Islam, prova a riscoprire l'autentica eredità del pensiero islamico ed a metterne in luce i grandi insegnamenti contro il cancro e le perversioni di quest'epoca buia di fanatismo e terrore, figlia non del Profeta ma del postimperialismo, non della Fede ma della stessa violenza che, altrove nel mondo e ad opera di altri fanatici invasati da altre fedi o da altre ideologie, semina la morte ed il panico in nome di ideali che invece dovrebbero indurre alla vita.

E' la tesi di chi crede che esiste un futuro di civiltà e di progresso per l'Islam nel mondo di oggi, al quale l'Islam può portare il valido ed immutabile insegnamento delle proprie sane tradizioni: sento di condividerla in pieno, per empatia oltre che per logica, e l'augurio è quello che questa scuola di pensiero riesca presto ad assumere la forza dirompente necessaria a sconfiggere tutte le deviazioni violente che ne minano l'efficacia dialettica.

Le pagine che seguono sono per l'appunto una illustrazione, una dimostrazione ed una appassionata difesa di queste tesi. Al lettore la valutazione: se esse non susciteranno la sua adesione, mi soddisferà già l'essere riuscito, se non altro, a stimolare delle comunque utili riflessioni.

2. Legge ebraica, cristiana, islamica.

La nostra indagine sull'idea e la pratica della legge nell'Islam deve necessariamente prendere le proprie mosse dai riferimenti religiosi e dottrinari: lo faremo comparando i vari differenti apporti che le singole grandi religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo, islamismo - hanno dato allo sviluppo della complessa questione del rapporto tra prescrizione divina e volontà umana.

In anni nei quali l'Islam è divenuto un abusato soggetto di facile conversazione, un altro luogo comune vige nei salotti della pseudocultura: quello secondo il quale le tre religioni monoteiste disegnano sistemi di relazione uomo-Dio tutto sommato analoghi. E invece sono proprio le diversità di questi tre sistemi di relazione a darci una prima, interessante chiave di lettura del significato e del valore dell'idea di legge nell'Islam.

Anzitutto il ruolo attivo esercitato da Dio verso l'uomo. Per gli ebrei, Dio è soprattutto sommo arbitro e giudice, come praticamente l'intero Vecchio Testamento sta a dimostrare. Egli consegna all'uomo la Sua legge - immutabile e inappellabile, scolpita per l'eternità su dodici tavole di pietra - e resta a vigilare sulla correttezza delle applicazioni operate dagli uomini, esaltando i saggi e punendo gli empi. La legge di Dio, dunque, è la Giustizia applicata in terra. L'uomo non deve interpretare, né valutare né agire: il suo compito è obbedire, e di ciò sarà ricompensato.

Gesù ed il Cristianesimo introducono due aspetti opposti a tale granitico sistema di relazione. Il primo è quello della ripartizione dei poteri, "a Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare". Ciò sta a significare, si badi bene, non tanto una vera ufficializzazione del potere secolare, quanto un certo mistico disinteresse per le cose del mondo, che non era certo del presentissimo Javhé ebraico, ben più simile in questo alle divinità classiche dell'Olimpico che al Suo figlio enigmatico ed introverso, e non a caso gli ebrei vollero Gesù crocefisso come un pericoloso eversivo. Questo misticismo poco ossequioso della legge è la prima significativa diversità tra le concezioni ebraica e cristiana. La seconda è l'insegnamento del perdono contro quello della giustizia imperturbabile ed implacabile. Il cristiano chiama Dio "padre", gli altri uomini "fratelli": non è forse questo un sistema di relazione già radicalmente diverso?

Ma veniamo all'Islam, derivazione e sviluppo di entrambe queste fedi. Allah viene descritto nel Corano con tanti nomi e tante qualità: ebbene, nessuna di esse è "padre", e non ne esistono neppure di lontanamente simili. 1) Per i musulmani, Dio è inavvicinabile, inaccessibile, a volte oscuro e incomprensibile. La Sua stessa rappresentazione figurativa costituisce inaudita vanità e blasfemia.

Da questo punto di vista, bene potremmo descrivere l'Islam come la religione del vuoto, dello spazio e del silenzio; è la prima sensazione del visitatore di una qualunque moschea. Nessuna rassicurante dolcezza di figure, nessuna emozione di melodie o canti, soltanto i severi moniti delle iscrizioni del nome di Allah e delle sure coraniche scolpite ed incise ovunque: sono queste, osserva Bernard Lewis, "gli inni, le fughe, le icone dell'Islam". 2)

E allora l'Islam unisce sinteticamente, nella propria peculiare idea di legge, la rigidità ebraica con il misticismo cristiano, giungendo a definire un sistema di relazione uomo-Dio nel quale è sì pregnante il riferimento alla immutabile e eterna giustizia divina, predefinita e scritta dall'alba dei secoli, annunciata agli uomini per bocca quasi inerte del Profeta, ma la dinamica del perseguimento della giustizia e della felicità del consesso umano passa per un travaglio spirituale ed esistenziale del tutto sconosciuto all'ebraismo ed anzi tipico del primo cristianesimo: l'uomo diventa attore sofferto del senso della propria esistenza, interpretando con le proprie forze la volontà lontana di un Dio che gli appare assente ma della cui guida sente l'intima urgenza, e allora il sistema giuridico è il risultato del complesso impegno, tutto umano, di conciliare storia ed eterno, secolo e fede, tradizione e modernità, intransigenza e tolleranza, giustizia ed amore per la vita.

Può già essere in questo, un umanesimo islamico, nel ruolo attivo svolto dall'intelligenza dell'uomo per trovare la propria strada nel mondo.

3. Le caratteristiche della Legge islamica.

In che cosa le leggi di ispirazione islamica possono essere definite realmente differenti da quelle prodotte in altri contesti politici e religiosi? In che cosa sta la loro vera peculiarità? Si sa che, bene o male, tutte le leggi tutelano, promuovono e sanzionano più o meno gli stessi tipi di comportamenti, è logico e chiaro che in qualche modo tutte tendono all'obiettivo del conseguimento del bene comune, e normalmente con riferimento specifico a quello della comunità all'interno della quale sono state emanate e per la quale sono vigenti: e allora, che cosa può avere di radicalmente diverso un corpus giuridico islamico? In altre parole, che cosa può caratterizzarlo e distinguerlo da altri costrutti istituzionali e regolamentari in misura tale da poterne definire -come di fatto siamo già per luogo comune abituati a fare- la "islamicità", cioè la fonte esterna ed eteronoma che lo pervade? Non parliamo, di solito, di legge cristiana o ebraica o buddista o induista.

Una prima risposta a tale quesito potrebbe essere formulata segnalando il paradosso apparente che genera questo tipo di situazione, e che è il seguente: esiste una legge islamica perché non esiste uno Stato islamico.L'Islam non ammette una reale autonomia della politica dalla religione se non negli angusti limiti da essa stessa prefissati, ed allora -ecco la natura solo apparente del paradosso- è la legge sacra ad acquistare rilievo centrale nella articolazione della socialità comunitaria.

Mi è capitato, una volta, di sentirmi rivolgere la domanda: "come si dice in arabo 'diritto'?" e di rimanere per un attimo perplesso, perché, per la parola "diritto", un vero e proprio equivalente arabo non c'è. Ma per "legge" sì.

La definizione che più su avvicina alla nostra idea di diritto e giurisprudenza insieme è fiqh, che sta ad indicare la globalità sia degli hadith (versetti di integrazione ed interpretazione delle sure coraniche formulati o raccolti per tradizione orale dalla bocca del Profeta ad opera dei primi imam e dei primi saggi) che delle fatwa (vere e proprie sentenze emesse da autorità o tribunali islamici). Non il nostro diritto, dunque, ma qualcosa di più ampio e più ristretto al tempo stesso: non vere leggi ma semplici regolamenti o giudizi, non solo questi ma anche riferimenti normativi tanto strettamente connessi al Corano da risultarne inscindibili. No, non si può parlare esattamente di "diritto", almeno non nel senso proprio del termine.

Diverso si fa il discorso se parliamo della legge. Qui possiamo trovare una precisa equivalenza, a patto di abbandonare il terreno strettamente giuridico per trasferirci in quello, mistico e affascinante, della filosofia e dell'etica giuridica. Vediamo subito come.

La parola araba che indica la Legge è "shari'ah", che vuol dire letteralmente, con bello ed esotico simbolismo, "via verso un punto d'acqua". 3) La shari'ah è ovviamente solo e soltanto la Legge islamica rivelata nel Corano, anzitutto perché l'Islam non concepisce la possibilità di altre, ma noi possiamo bene ravvisare anche il senso etico ed universale che la qualifica come l'unica Legge possibile.

Legge dunque non dell'uomo ma di Dio, all'uomo rivelata e che l'uomo osserva e diffonde, sulla base della quale egli viene giudicato oggi come lo sarà alla fine dei tempi, quando í buoni verranno separati dai malvagi per ricompensare gli uni e dannare gli altri. Non è la legge del diritto positivo, non può essere quella del giusnaturalismo né quella del contrattualismo; assomiglia molto di più ad un imperativo categorico kantiano, più di tutto alle utopie platoniche, non a caso da sempre studiate dall'Islam con molto interesse. Non è dunque la concrezione dei disposti legislativi sintetizzata e dedotta, ma l'idea stessa di legge suprema a connotare la shari'ah, l'alta valenza etica della quale non resta in secondo piano neanche quando essa descrive e prescrive í minimi comportamenti della socialità quotidiana; anche in essi, e forse soprattutto in essi, la presenza del messaggio divino di redenzione deve essere fondamentale, affinché l'uomo perso nel deserto del mondo riesca a ritrovare giorno per giorno la sofferta "via all'acqua" della propria identità umana, religiosa e sociale.

4. Mahmud Taha e il "doppio Corano".

Come appare ormai evidente, il dibattito vivo ed attuale, all'interno del mondo musulmano, sul ruolo reciproco e sul rapporto tra Legge e Tradizione può senz'altro costituire la chiave per decifrare i risvolti e la sostanza delle varie posizioni ideologiche che sviluppano quelli che abbiamo visto essere veri e propri sistemi autonomi di filosofia giuridica.

Tanto per cominciare, è proprio il legame che ogni musulmano stabilisce con gli elementi essenziali, i fondamenti della Tradizione religiosa, sociale, politica e giuridica, a definirne il livello di fondamentalismo, cioè di purezza interpretativa della Fede, secondo una terminologia nata ed universalmente accettata all'interno dell'Islam. E in effetti, letteralmente parlando, tutti i musulmani sono fondamentalisti, né potrebbe essere altrimenti, visti i postulati sanciti dallo stesso Corano e dal rapporto con il mondo che esso prescrive; in realtà, ieri come oggi, però, i fondamenti dell'Islam sono soggetti ad interpretazione come ogni altra dottrina, con effetti a dir poco imprevisti.

Tanto per cominciare, ci sono gli integralisti, per i quali il richiamo ai fondamenti della Fede vuol dire integralità della Tradizione. Per la maggior parte sciiti - cioè seguaci della shi'a, vale a dire del ramo dell'Islam che riconosce la linea di successione di Ali, genero del Profeta ed apostata sconfitto ed ucciso a Kerbala, e che ha prodotto il khomeinismo e l'architettura politica del governo del giurisperito islamico nell'attesa del ritorno del dodicesimo imam da un periodo di occultamento - gli sciiti sono considerati pericolosi fanatici dal resto dell'Islam, a causa della loro concezione della vita esasperatamente teocentrica ed antioccidentale (di ispirazione sciita sono, in molti casi, í nuclei combattenti islamici dediti alla guerriglia ed al terrorismo internazionale). In sostanza, però, gli sciiti non sono, letteralmente parlando, più o meno fondamentalisti dei sunniti o dei musulmani "illuminati". Cerchiamo di spiegare perché, sgombrando con l'occasione un altro diffuso equivoco su Islam e dintorni.

Tutti i musulmani sono fondamentalisti, dunque, perché ispirati dai fondamenti della Tradizione, eppure le idee su come viverla ed applicarla possono essere molto diverse. Oliver Carré, nel suo lavoro "L'Islam laico", ce ne fa un quadro così lucido ed anticonvenzionale da risultare estremamente interessante.

Carré prende le mosse delle proprie valutazioni da tre pensatori islamici contemporanei praticamente non tradotti né divulgati e dunque misconosciuti: l'egiziano Sayyd Qutb, il francese Mohamed Arkoun, ed il sudanese Mahmud Taha, per giungere ad una rivalutazione del potenziale progressista contenuto in quello che Egli definisce spirito di "laicità" dell'Islam, al di là ed in beffa di quanto comunemente asserito. 4)

Sayyd Qutb, ci informa Olivier Carré, è sostanzialmente un mistico che rifiuta ogni critica scientifica testuale del Corano, in particolar modo gli studi orientalistici condotti in Occidente dagli occidentali, Ma proprio per questo, in virtù della propugnata possibilità di un approccio alla lettura del Libro che sia scevro da sovrastrutture religiose, semiotiche, politiche, storico-sociali, Qutb teorizza una interessante apertura alla comprensione della reale sostanza del Corano rivolta anche ai non musulmani, purché attenti a cogliere l'essenza filosofica ed umanistica della Rivelazione al di là delle applicazioni e delle concretizzazioni nelle quali essa si esplica. A causa di questa sua concezione sì mistica e contemplativa ma soprattutto anche illuminata e tollerante, Qutb è stato giustiziato nel 1966 dietro pressioni dei Fratelli musulmani.

Mohamed Arkoun è anch'egli un fondamentalista nel senso stretto del termine, visto che prende considerazione nelle sue analisi soltanto il testo religioso primordiale, e sottolinea l'importanza di non partire da schemi teologici successivi per interpretarlo, in modo da poterne cogliere il senso profondo ed originale. Anche qui laicità senza antireligiosità, in una ottica razionalista senza essere però troppo trasgressiva.

A cogliere in pieno l'eredità del pensiero di Qutb ed Arkoun, operandone una sintesi innovativa e feconda di prospettive di sviluppo - ci fa capire Carré - è stato però il sudanese Mahmud Taha, che più degli altri due ha insistito nel porre l'attenzione sulla già peraltro nota "doppia natura" del testo coranico.

Ed eccoli qui descritti, i "due" Corani secondo Taha. Il primo è il Corano "meccano", cioè quello trascritto nei dieci anni precedenti l'Egira, e si presenta spiccatamente profetico, mistico, dogmatico, morale ed esortativo: alla Mecca Allah rivela per bocca del Profeta niente altro che la Sua unicità e natura di Creatore, e la servitù dell'uomo nei Suoi confronti, appunto l'Islam, la sottomissione a Dio.

I1 Corano "medinese", poi, dà forma a questi grandi principi dogmatici con leggi e gesta, collegando il messaggio alle circostanze sociali nelle quali Esso viene predicato, che sono la necessità di fondare un nucleo politico ed amministrativo in grado di sostenere gli assalti dei nemici di Maometto e dei suoi seguaci.

Sulla base di questi semplici, universalmente accettati presupposti Taha, con brillantissima intuizione, passa subito a sconvolgere il meccanismo classico dell'interpretazione del Corano, quello dell'abrogazione del versetto storicamente anteriore da parte di quello storicamente successivo, e ne sostiene, in forma dirompentemente originale, il totale rovesciamento: deve essere il testo posteriore - cioè quello medinese - ad essere abrogato da quello anteriore, che è quello puro ed originale concepito alla Mecca, e quindi non ancora deviato e corrotto da esigenze politiche. Ed ecco dunque la grande sorpresa: il Maometto della Mecca predica un verbo universale, aperto, tollerante, umanista, illuminato, per niente rivolto a regole pratiche ma anzi tutto teso ad una via etica della vita dell'uomo, secondo modelli praticamente condivisibili da qualunque spirito nobile, al di dentro o al di fuori dell'Islam. Tornano alla memoria, a noi occidentali, le tesi di Martin Lutero, e tutta la forza eversiva in esse contenuta: anche qui è il presunto deviante che taccia di devianza l'ortodossia ufficiale...

E si tratta di un parallelo proponibile e coerente anche nel suo epilogo: questa lettura del Corano regressiva ai fondamenti - eccola, un'altra interpretazione di questa strana parola: - della Fede fa sì che Taha rifiuti la sharí'a come sovrastruttura oppressiva e distorta per il Credente, e ha fatto anche sì che l'autore di questo rivoluzionario impianto teosofico abbia dovuto subire un processo per apostasia nel 1985. La sentenza è stata la condanna a morte, e Taha è stato giustiziato in spregio alla Dichiarazione Islamica Universale dei Diritti dell'Uomo, della quale, per ironia della sorte, egli stesso aveva posto in rilievo il carattere limitato e deludente. Secondo gli schemi di giudizio applicati dalla Corte di Giustizia islamica che in Sudan ha condannato a morte Taha, osserva mestamente Olivier Carré, "Gesù avrebbe potuto essere condannato e forse anche giustiziato tanto da Roma quanto dal Consiglio Ecumenico delle chiese o dal patriarca ortodosso di Costantinopoli, e Maometto e il suo Corano avrebbero potuto essere condannati dal congresso degli ulema, dalla Lega islamica mondiale, dall'Organizzazione della Conferenza islamica, da Khomeini e dallo stato rivoluzionario iraniano, pachistano, saudita o sudanese o, ancora, da tutti coloro che si proclamano 'islamici' ". 5)

Morto il suo autore, questo messaggio di ecumenismo islamico resta vivo a costituire modello d1 riferimento per quelli i quali, nell'Islam o al di fuori, credono nella possibilità di un dialogo e di una crescita comune nel mutuo obiettivo, che è dell'umanità intera, da elevarsi ad un costume di rapporti sociali aperto, eticamente sano e teso a promuovere il progresso nella pacifica convivenza della diverse culture, di ognuna accettando le peculiarità ed acquisendo ogni valido apporto: l'augurio è quello che la storia renda merito, nel futuro più prossimo possibile, a tutti quelli che, in ogni epoca ed in ogni paese, hanno voluto intravedere nella religione le prima e fondamentale palestra di rispetto e tutela dei diritti dell'uomo.

NOTE

1) Questi, ed altri, interessanti paralleli sono tracciati nell'articolo "Ebraismo e Islam fedi rivali unite da un Dio inaccessibile" di Michele Brambilla, apparso sul Corriere della Sera del 24 ottobre 1997.

2} B. Lewis, I1 linguaggio politico dell'Islam, Laterza Bari 1991, pag. 13.

3) Idem, pag. 23.

4) Tesi sostenute e profili delineati in O.Carré, L'Islam laico, Il Mulino Bologna 1997, pagg. 113-121

5) Ibidem, pag.119.


"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

Registrazione Tribunale di Avellino n.337 del 5.3.1996