Conoscere l’islam
L’ISLAM DI DIN SYAMSUDDIN

di Emanuele Giordana

Un incontro sul dialogo inter religioso a Roma. Col capo della Muhammadiya


Riprediamo questo articolo dal sito di da Lettera 22 - http://www.lettera22.it/showart.php?id=8054&rubrica=4


Sabato 17 Novembre 2007
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La sua voce ha un peso per almeno 200 milioni di fedeli indonesiani ma è legge per i 35 milioni fra loro che fanno parte di una delle maggiori organizzazioni islamiche del mondo, la Muhammadiya. Ed è molto ascoltata nei forum internazionali e nei circoli politici perché, dicono i beneinformati, potrebbe diventare il futuro presidente del paese. Din Syamsuddin, islamista modernista e professore all’università islamica di Giacarta, è convinto che il terrorismo vada combattuto "senza se e senza ma" e senza scuse dietrologiche. Mette in guardia però dall’associazione tra islam e terrore che, dice, è diventato un assioma pericoloso. E propone un alleanza tra civiltà per contrastarne lo scontro. Ma dice che nel dialogo tra diversi occorre includere anche gli islamisti più radicali per evitare che l’emarginazione li spinga nel terrorismo. E forse pensa che questa lezione di tolleranza sia esportabile dalle isole orientali, dove il dibattito ferve e le iniziative di dialogo non mancano, anche nell’epicentro dello scontro interno agli stessi musulmani nello scenario mediorientale.
L’occasione per ascoltare questo leader carismatico dell’islam indonesiano è l’incontro inter-religioso che si è svolto nei giorni scorsi alla sala Augustinianum a pochi metri dalla basilica di San Pietro. Il parterre è importante: c’è monsignor Felix Machado, sottosegretario del Consiglio pontifico per il dialogo interreligioso, il segretario generale del Consiglio nazionale delle chiese d’Australia, reverendo John Henderson, e, tra gli altri, Ignatius Ismartono, un gesuita di origine giavanese che lavora alla commissione per il dialogo inter-religioso della conferenza episcopale indonesiana. In platea, diversi sacerdoti impegnati su questo fronte e qualche esponente di Sant’Egidio, la famosa "diplomazia di Trastevere". Pochi i giornalisti. Una bella palestra insomma dove si dà conto dei passi importanti compiuti nell’area del Pacifico: molto lontana ma con un paio di frecce al suo arco. La prima è che il dialogo tra le religioni sta facendo passi avanti più importanti che altrove. E che nell’Asia sudorientale, a un braccio di mare dall’Australia, si trovano le 13mila isole della repubblica d’Indonesia, il quarto paese più popoloso del globo e il primo (circa 200 milioni) come densità di popolazione musulmana, oltre il 15% dell’intera "Umma" del pianeta e quasi la metà di quella che risiede nel continente asiatico. Ecco perché quel che si dice in queste arene ha un peso che va oltre l’incontro in sé.
Din Syamsuddin è a capo della Muhammadiya, l’associazione islamica indonesiana di tendenze "moderniste" (il che significa, in questa zona del mondo, che si tratta di islamici abbastanza "puri e duri" senza per questo essere per forza radicali o fondamentalisti) e che si contende la scena con la Nahdlatul Ulama (Nu) di Abdurrahman Wahid, già presidente dell’Indonesia dal 1999 al 2001 e a capo di un’organizzazione che conta 40 milioni di aderenti e che viene definita "tradizionalista" (che in questa parte del mondo significa "progressista", nel senso che è favorevole a una netta divisione tra potere temporale e religioso). Ma Syamsuddin è anche il portavoce del Consiglio degli ulema (Mui), un’organizzazione di vertice (creata da Suharto, l’ex dittatore caduto nel 1989) che detta le linee del comune senso del pudore, diremmo noi, e in cui alberga spesso uno spirito molto tradizionalista (nel senso generico del termine) che può sfiorare l’oscurantismo. Ecco perché vale la pena di sentire Syamsuddin, personaggio non solo di statura locale ma protagonista di una scena pubblica che va oltre i confini di casa. E che sta rubando anche un po’ la scena alla forza moderata per eccellenza, il Nu di Wahid.
L’aspetto più rilevante delle sue dichiarazioni si può forse riassumere nella condanna senza se e senza ma del terrorismo "atto diabolico - dice - che deve essere deplorato, condannato e aborrito". Il "terrorismo di ogni tipo - aggiunge - anche quello di stato". Syamsuddin si domanda però se sia giusto ritenere il terrorismo un figlio della religione e non piuttosto una creazione della politica. Ma non certo per giustificarlo: "Quale che sia il loro fine, gli atti terroristici e l’uso della violenza contro civili innocenti non devono mai essere giustificati. Un fine non può mai giustificare i mezzi - dice citando al contrario Machiavelli - e qualsiasi atto terroristico va condannato". Non c’è qui nessun tipo di dissimulazione né un discorso ambiguo su cause e motivi. Ma la condanna ferma non deve evitare di porre una domanda: se cioè la guerra al terrorismo non abbia finito per equipararlo a un atto connesso con la religione, anzi con una religione: l’islam. E’ qui che Syamsuddin articola il suo discorso, in un mondo dove - dice - "esistono almeno 16 definizioni di terrorismo. Ma se è chiaro che terrorismo è usare violenza per creare paura e colpire nel mucchio per creare un cambiamento politico" l’islam è una religione di pace, dice, che col terrore non c’entra nulla, nemmeno quando c’è chi lo usa rifacendosi al Profeta. Come reagire? "Un sospetto reciproco caratterizza la relazione tra i musulmani e l’Occidente" e vanno dunque costruiti strumenti di dialogo in ambito multilaterale per "creare spazi sempre più vasti di mutua conoscenza" tra due mondi che Syamsuddin si rifiuta di credere debbano per forza scontrarsi. Occorre, dice, "un’alleanza di civiltà" per evitare uno scontro che non è affatto inevitabile ma che richiede sforzi a ogni livello: dal vertice degli stati alle organizzazioni di base.
Recentemente l’Indonesia si è data da fare per creare iniziative che possano alleggerire la tensione che strazia sunniti e sciiti in Iraq o i palestinesi di Hamas e Fatah. "Sono scettico sui possibili risultati - ci dice Syamsuddin con realismo - ma sono strumenti per riavvicinare. Sforzi che devono però far parte di un’agenda globale e con la convinzione che occorrerà tempo". Inoltre, aggiunge, devono essere meccanismi di inclusione e di dialogo anche con "fondamentalisti e radicali" per evitare che la loro emarginazione li trascini oltre la frontiera del confronto pacifico. Forse proprio questo pragmatismo e questa apertura al confronto degli indonesiani può essere di buon auspicio anche per i fratelli della Umma nel mondo arabo in Medio oriente. In questa direzione, anche un paese così lontano può giocare un ruolo importante.


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Domenica, 18 novembre 2007