Il ministro Amato a difesa del dialogo, «vero antidoto ai cattivi maestri»

Intervento del ministro dell’Interno, nel numero di settembre della rivista "Reset", inserito nel dossier dedicato al confronto tra la cultura "dell’occidentalismo manicheo" e quella del dialogo


Riprendiamo questo articolo dal sito del Ministero dell’Interno: http://www.interno.it/


Interventi - Ministro Giuliano Amato
13.09.2007

Scrivo queste note dopo la conclusione dell’operazione che ha portato all’arresto di tre marocchini, accusati di aver fatto addestramento al terrorismo nella moschea «Al Nour» di Ponte Felcino a Perugia.

Dovrei esserne soddisfatto, anche se con le antenne ancora più all’erta, giacché non ho nessun motivo per escludere cose analoghe, mimetizzate in altri centri di aggregazione islamica. Ma ho la bocca amara per i commenti e le esortazioni che sono venuti da larga parte della nostra destra a dai suoi mentori culturali: «Queste moschee vanno chiuse tutte e smettiamola di sprecare i soldi del contribuente per corsi di integrazione destinati ai musulmani».

Non c’è Paese al mondo dove sia questo l’atteggiamento prevalente verso gli islamici; neppure (anzi, tanto meno) i Paesi direttamente colpiti dal terrorismo fondamentalista. Proprio questi Paesi, insieme agli sforzi per la sicurezza, hanno raddoppiato anche quelli per ridurre il rischio della radicalizzazione interna. E mi chiedo perciò quale possa essere la matrice di un atteggiamento del genere.

La matrice è, a quanto capisco, duplice. Da un lato c’è puramente e semplicemente la paura, paura non solo (e più che fondatamente) del terrorismo, ma anche (e con ben minore fondamento) del nuovo in quanto tale. È una paura tipica delle comunità chiuse e invecchiate, per le quali la diversità è di per sé un pericolo, che risulta convalidato e generalizzato ogni volta che è da un diverso che è venuto o può venire il male. Dall’altro lato c’è un insieme di predisposizioni culturali, di paradigmi mentali, di giudizi divenuti pregiudizi che ha generato qualcosa di ben più robusto di un mero stato emotivo, ancorché diffuso. Mi riferisco a quella visione manichea, presente nel mondo islamico come nel nostro, che vede «noi» inesorabilmente diversi da «loro» e bersaglio della «loro» ostilità. In Italia, purtroppo per noi, sono presenti entrambe le cose e danno luogo perciò ad un substrato di resistenze intellettuali e di emozioni con le quali è particolarmente difficile fare i conti.

La nostra è una comunità nazionale che di sicuro fu, secoli addietro, fra le più aperte e inclusive, tant’è che quella che noi giustamente consideriamo identità italiana è un mosaico composto da tessere dalle provenienze più diverse. Il fatto si è che la storia più recente ci ha solidificato e chiuso in ciò che ormai eravamo diventati - quasi esclusivamente bianchi, prevalentemente cristiani, anzi cattolici (anche essere ebreo è stato difficile e pericoloso...), figli per generazioni delle stesse terre. In più negli ultimi anni abbiamo preso ad invecchiare e la crescente prevalenza fra di noi delle generazioni anziane rende ancora più accentuata e generalizzata la diffidenza per i nuovi insediati.

C’è poi l’altro e più generale problema, quello della presunta incomponibilità fra noi e gli islamici, che non induce necessariamente noi a vedere loro come tutti potenziali o attuali terroristi, ma apre la porta a una tale induzione. E l’induzione è terrificante, perché, essa sì, è la premessa della guerra addirittura preventiva, quella che si fa con i serpenti o con i ragni velenosi (non sprechiamo i nostri soldi ad integrarli... chiudiamo le loro moschee). Qui la questione non è socio-antropologica, è schiettamente culturale. E risolverla significa alzare il velo dell’ignoranza e dei tabù prevalenti, facendo sì che in ciascuna delle due parti ci si chieda con schiettezza (e con i necessari strumenti conoscitivi) se le diversità che si danno per scontate fra di «noi» (che non dubitiamo di non essere tutti eguali) ci sono anche fra di «loro» (forse neppure loro sono tutti eguali); e cercando altresì di capire se le differenze che comunque residuano fra «noi» e «loro» sono davvero riconducibili a tratti destinati inesorabilmente a generare conflitto.

Esistono i moderati e i dialoganti in entrambe le parti, cosi come in entrambe esistono gli irriducibili e i settari. Ma il dialogo è un fine in se stesso, quale alternativa temporanea a un conflitto altrimenti inevitabile, oppure è fondato su sentimenti, convinzioni e valori che davvero ci possono accomunare? E le differenze che ci sono fra di noi sono tutte figlie della voglia di califfato restauratore che sostiene ideologicamente il terrorismo jihadista (o simmetricamente della pretesa di dominio imperialista attribuita da molti islamici all’Occidente), oppure discendono, sia pure in parte, da storie e da culture diverse, che non abbiamo ragione di non accettare?

Io sono convinto che la risposta più ottimista abbia un fondamento e che siano per questo sbagliati i paragoni con situazioni, apparentemente analoghe, come quella che abbiamo vissuto con il comunismo sovietico. Il comunismo sovietico era, insieme, un’ideologia e un sistema incomponibili con la democrazia, né era riformabile per adeguarvisi. Nel nostro caso, incomponibile con la democrazia è lo jihadismo, ma mi pare arduo sostenere che lo sia alla stessa stregua la religione islamica.

Proprio questo numero di Reset apre un salutare dibattito su domande del genere. Ed è importante che esso prosegua sulla base di una conoscenza reale e compiuta di ciò che le culture dei due campi, l’«0ccidente» e l’«0riente» hanno prodotto e stanno producendo. Dopo secoli e secoli di interruzione, è fortunatamente ripreso l’impegno delle traduzioni, anche se ciò è accaduto più dall’arabo alle nostre lingue che non l’inverso, il che testimonia una differenza da rimuovere. In più cresce il numero degli intellettuali musulmani che insegnano e producono nei nostri paesi. Tutto questo ci permette di misurarci meglio sulle differenze e di darci vicendevolmente conto dei dubbi che esse continuano a suscitare in noi. L’appartenenza - lo sappiamo - è talora fonte di autocensura ed io non ci trovo nulla di male a sondare in questa chiave i musulmani «dialoganti», verificando se la loro critica dall’interno seleziona o meno i bersagli che, in base al loro stesso metro, la meritano. Ma ciò va fatto in buona fede e non partendo dall’assunto che c’è un tabernacolo di ostilità verso di noi in cui tutti loro si riconoscono (e non possono non riconoscersi).

Solo così potremo mettere a fuoco i confini assai delicati lungo i quali sorgono quelle domande ostiche che non albergano soltanto nei nostri irriducibili. La predicazione contro il materialismo e il consumismo che infettano le società occidentali, l’anatema gettato su di esse in quanto figlie ed espressione del male sono già sintomatici di una ostilità verso di noi alla quale dobbiamo reagire con mezzi repressivi? Che cosa conta di più, che somiglino, in fondo, a predicazioni ed anatemi che sentiamo spesso anche dai nostri sommi pontefici oppure che abbiano alle spalle una rete ideologica e organizzativa pronta ad avvalersene per istigare al terrorismo?

E poi, cambiando versante ma restando alle domande ostiche, quando parliamo di integrazione, che cosa intendiamo esattamente? Intendiamo che tocca a chi sopraggiunge in una comunità già insediata assimilarsi completamente ad essa, oppure che, entro certi limiti, ha da trattarsi di un processo di adattamento reciproco? E ammesso che si accetti la seconda ipotesi, quali sono quei limiti? Nel nostro caso, se le donne musulmane portano il velo o chiedono di essere visitate soltanto da ginecologhe, vogliamo desumerne che si tratta di diversità inaccettabili, perché sempre e in ogni caso espressive di inaccettabili prevaricazioni maschili, oppure vi riconosciamo sensibilità identitarie legittime, certo rimovibili, ma rimovibili solo per volontà delle donne che ne sono portatrici? Qual è il valore che assegniamo alla convivenza fra diversi e quindi alla goccia della conoscenza che essa fa penetrare nella roccia dei pregiudizi, creando le condizioni perché li si rimuova e non vengano più creduti coloro che li sfruttano a fini politici?

La storia ha avuto i suoi lunghi momenti di pace e di serenità quando ha saputo rispondere a queste domande attraverso contaminazioni feconde, quelle a cui tanto concorre la stessa quotidianità della vita e che restano l’antidoto più formidabile contro il fanatismo dell’odio. Se esse sono ancora oggi possibili, e nulla più che possibili, è importante per tutti avvertire la responsabilità intellettuale e civile di promuoverle, nella consapevolezza dei rischi che corriamo altrimenti. Mi preoccupa constatare quanto siano rare questa responsabilità e questa consapevolezza, troppo spesso soverchiate da una chiamata alle armi contro il terrorismo, che con i suoi generalizzati anatemi rischia invece di allargarne l’influenza e gli adepti. Ciò è tanto più grave in quanto accade non soltanto ad opera di chi per professione fa il solleticatore di pance e il cercatore di applausi, ma anche da parte di chi assolve a professioni intellettuali. È davvero un cattivo segno, un segno che indica usualmente la decadenza, non il fiorire delle civiltà.



Venerdì, 14 settembre 2007