VII Giornata del Dialogo Cristiano-Islamico - Dibattito
Cristiani e musulmani desiderano dialogare?

di dario dalla costa

In principio era la Parola, la Parola era con Dio, la Parola era Dio. Sì, per i cristiani - e così per ebrei e musulmani - Dio è un parlante, un dialogante. Dire che il Signore ami la parola non significa definirlo un chiacchierone, bensì un’amante dell’uomo al quale ripetutamente rivolge la sua attenzione. Non facciamo un torto allora alla Bibbia se diciamo, parafrasando l’evangelo, che per Dio in principio c’è il dialogo. Accanto alla fede in Dio, la Scrittura ci invita così a credere nel dialogo. La comunità cristiana chiamata, suscitata e alimentata dalla Parola deve diventare essa stessa la parola di Dio fatta carne, comunità dialogante perciò. Il cristiano è dunque un uomo di ascolto e (poi) di parola. Per Dio dire una parola e dare la parola sono un unico atto di fiducia e di stima verso l’uomo, un evento che richiede a entrambi carità e verità. La Bibbia, dice il card. Martini, in fondo è il libro delle chiamate di Dio a cui l’uomo solo raramente ha risposto. Eppure se davvero l’uomo è immagine di Dio, lo è - e lo deve essere - anche nel desiderio e nella capacità di dialogare non solo con chi è vicino, ma anche con chi è lontano. Dio ha mostrato di voler stare tanto con Caino quanto con Noè, tanto col popolo infedele quanto con Mosè. Il noto teologo cattolico J. M. R. Tillard, in Dialogare per non morire, diceva che col dialogo l’altro cessa finalmente di essere uno di cui diffidare per la sua appartenenza religiosa o etnica, cessa di essere uno con il quale stringere relazioni è pericoloso, cessa di essere cioé una minaccia. L’incontro e il dialogo allora diventano, piuttosto, l’occasione per ri-conoscere la parte di verità nascosta in lui, per ri-conoscere che l’altro è un fratello e che può aiutarmi a divenire sempre più umano. Occorre osare il dialogo, tanto più quando la parola dell’altro ci aiuta a collocarci: l’uomo, pur nel buio, se ascolta la voce (amica) trova la direzione infatti.
La parola ha una potenza, certo, ma è anche segnata dall’ambiguità: essa infatti è potenza che distrugge o costruisce, che umilia o che solleva, che condanna o che riconcilia, che dà morte o dà vita. Gesù, Parola di Vita, non brandiva la Scrittura come una spada, non la considerava una sorta di verità filosofica che si imponeva da sé in virtù della sua ragionevolezza. L’evangelo dice che in Gesù la Parola era impressa nelle sue parole-azioni; in esse e grazie a esse egli voleva incontrare, rispettare, far crescere, curare e innalzare l’altro. Ha reso cioè le parole viatico di vita e benedizione e mai di maledizione. Mai Gesù ha detto una parola contro l’altro, né ha emesso condanne, ne dalla sua bocca sono uscite parole mortifere. L’unica parola che ha ucciso l’hanno detta quegli uomini che lo hanno messo a morte. In questi tempi in cui l’altro (lo straniero, lo zingaro, il musulmano, il povero...) è facilmente denigrato e demonizzato, ci pare necessario chiederci quali parole usiamo per dire l’altro o per parlare con l’altro. Non è raro vedere come la stessa Scrittura venga adoperata da alcuni cristiani, a proprio uso e consumo, per fargli dire ciò che non dice: capita infatti che la si renda baluardo identitario, muro che crea un noi e un loro, consapevolezza che noi siamo nella verità e dunque gli altri nell’errore. Io credo che il dialogo, come il fratello, assomigli a un fuoco che se non è costantemente accudito presto muore. Ecco perché alcuni esponenti delle chiese cattolica romana, ortodossa e evangelica per rispondere alla nuova situazione, venutasi a creare dopo il famoso 11 settembre, hanno pensato ad una giornata, in particolare, per iniziare un dialogo nuovo col mondo musulmano. Questi cristiani pensavano pure che il modo in cui i mass-media parlavano dell’islam e dei sui aderenti, dopo quella tragedia, fosse divenuto quantomai scorretto e irrispettoso. Questa giornata vuole allora aiutarci a riflettere assieme - cristiani e musulmani - sul modo in cui parliamo dell’altro e sulla qualità della nostra convivenza. Perché quel fuocherello acceso - non molto tempo fa - soprattutto grazie al concilio Vaticano II da parte cattolica, di alcuni principi e teologi da parte musulmana, e da parte di profeti di entrambe le parti non muoia, ma si ravvivi e si estenda.
Da sette anni a questa parte si celebra questa giornata e da quest’anno il 27 ottobre è divenuto il giorno dedicato al dialogo, in memoria di quel 27 ottobre 1986 in cui, ad Assisi, papa Giovanni Paolo II convocò le religioni del mondo per pregare e impegnarsi per la pace. Quest’occasione diviene allora propizia per svelare i nostri e altrui pregiudizi e far parlare il dialogo schietto e costruttivo. Certo, è una sfida non agevole, tanto che potremmo paragonarla ad una scalata e non certo a una
passeggiata. Questo lo dico pensando ai venti contrari al dialogo interni tanto alla chiesa quanto all’umma musulmana. Il tema di quest’anno (La gioia del dialogo) ci appare quanto mai stimolante, perché non dimentica che per comunicare occorre ac-cordarsi, cioè legare i cuori e imparare a parlare insieme (dia-logos, appunto). La Scrittura invita me e l’altro a compiere la fatica di metterci in ascolto, reciprocamente, non solo delle nostre verità, ma soprattutto delle gioie e dei dolori di ciascuno, perché solo così ci si incontra davvero. Racconta il Baal Shem Tov (figura di spicco del chassidismo ebraico): Due fratelli stavano camminando e Piotr dice: ’Ivan ti amo’. Ivan gli risponde: ’Se tu mi ami, dimmi cosa mi fa soffrire’. E Piotr: ’Come faccio a sapere ciò che ti fa soffrire?’. E Ivan risponde: ’E come puoi amarmi se non sai ciò che mi fa soffrire?’. Sì, la logica divina ci invita a portare il fratello (così dice il luterano D. Bonhoeffer), ci induce alla solidarietà che la Scrittura chiama compassione-sympathéia. Dio non solo ci chiede di amare chi è amabile, ma anche colui che non lo è. Spesso pensiamo che il non amabile sia l’altro, raramente pensiamo che possiamo esserlo noi. Ma Dio ci mostra la sua makrothimìa (magnanimità) perché dona il suo sole a tutti, senza distinzioni. Abbiamo bisogno, credo, di una parola nuova, di una parola che venga da Dio, che sa creare e portare novità. Noi ebrei, musulmani e cristiani siamo qui per rompere l’incantesimo, per pronunciare parole che si sottraggono al contesto che le deforma, per dire parole che cominciano con chi le dice, per ritrovare la parola che spezza, la parola che scioglie: la parola profetica (E. Lévinas). Sì, noi tutti abbiamo bisogno di una parola coraggiosa, schietta e capace di creare futuro, di un nuovo verbo che Lévinas a ragione definisce profetico.


dario dalla costa dallacostadarioz@gmail.com



Lunedì, 20 ottobre 2008