Dialogo cristianoislamico
Le fonti del diritto islamico

di Rosario Amico Roxas

(già pubblicato su www.famvin.org/it/)

La differenza culturale di fondo tra Occidente e Islam, consiste nella natura stessa della cultura: la prima, quella Occidentale è una cultura "orizzontale", quindi democratica, la seconda è "verticale" perchè "teocratica".
La pretesa di modificare strutturalmente la cultura islamica è assurda perchè pretenderebbe azzerare 1600 anni di storia e di tradizioni, ed "esportare" un sistema alternativo.
Non si tratterebbe neanche di un processo di ri-socializzazione, possibile in talune circostanze, ma di un itinerario di inculturazione che dovrebbe eradicare la cultura pre-esistente.



Rosario Amico Roxas

Una folta schiera di dotti musulmani, per dare alla Sunna efficacia pratica, operò una scelta tra le numerose tradizioni, spesso discordanti, costruendo delle collezioni, di cui 6 hanno ottenuto il consenso (igma) delle comunità musulmane. Da esse i dotti hanno, poi, sviluppato delle deduzioni per analogia (qiyas) allo scopo di adattarsi all’evoluzione dei tempi.
Corano, Sunna, Igma, Qiyas sono, dunque, le fonti del diritto musulmano, che coinvolgono la vita pubblica e privata, civile e religiosa. Esse furono accolte dalla stragrande maggioranza dei popoli islamici, ma furono respinte dai fondamentalisti, che non riconoscono alcuna possibilità di adattamenti interpretativi e fanno riferimento solo ai dettami del Corano nello spirito e nella lettera.

Un adattamento del Corano all’evoluzione dei tempi riguarda, ad esempio, la preghiera, a cui è dedicato il venerdì. La stragrande maggioranza dei popoli islamici ha conservato questa disciplina, ma, per adattare le loro esigenze a quelle del mondo occidentale in termini operativi, non lo considerano festivo.

In Algeria, insieme ad altre nazioni più intransigenti, come l’Arabia Saudita e lo Yemen, dove le interpretazioni del Corano sono rimaste letterali, è stato imposto il rispetto rigoroso così, il venerdì, che è dedicato interamente alla preghiera, è considerato festivo, mentre il giovedì è prefestivo.

Si verifica, dunque, l’assurdità nei rapporti economici e commerciali con l’Occidente di avere quattro giornate non lavorative: giovedì e venerdì per i paesi citati, sabato e domenica per i popoli occidentali, rimanendo, così, solo tre giorni a disposizione per scambi commerciali, rapporti con le banche, con le dogane, con i ministeri.
Tali esempi dimostrano come un certo tipo di religiosità, avulso dal senso critico interpretativo, possa determinare dei limiti allo sviluppo economico.

La Tunisia, pur mantenendo fede ai dettami del Corano, ha adattato le proprie esigenze a quelle della comunità internazionale secondo quanto previsto dalla Sunna, creando, così, le premesse del suo sviluppo economico.

Le fonti del diritto, che regolano le norme di vita dei popoli islamici, sono, quindi, quattro: il Corano, la Tradizione (Sunna), il Consenso (Igma), l’Analogia (Qiyas).

La tradizione, che è quella più seguita, contiene detti e fatti attribuiti al Profeta ed è considerata come modello da seguire nella condotta quotidiana (condotta è la traduzione più corretta di Sunna). I Sunniti rappresentano la gran parte della popolazione islamica, aperti al dialogo con le altre religioni monoteistiche.
Si innesca, a questo punto, il consenso. Inizialmente tale consenso doveva provenire dai Saggi, che valutavano il tipo di interpretazione della dottrina che veniva proposto per accedere al consenso; successivamente tale consenso venne valutato dal numero di adepti che tali interpretazioni riuscivano a raccogliere.
Il concetto di consenso sta alla base della maggiore divisione nel popolo Islamico: Sunniti e Sciiti.

I Sunniti sono i musulmani ortodossi, la stragrande maggioranza dei seguaci dell’Islam (Musulmani), uniti da una serie di credenze religiose, sociali, comportamentali e da principi etico-politici e giuridici che si sono formati nel corso di secoli, già fin dai primi anni dell’Islam, con il consenso che i teologi riuscivano a suscitare intorno alle loro interpretazioni.

Anche gli Sciiti si rifanno alla Sunna; ben lungi dal contestare l’obbedienza al “comportamento del Profeta”, aggiungono e privilegiano la Sunna dei discendenti del Profeta. Con il passare dei secoli tale differenziazione subì pesanti modifiche: da una parte i Sunniti, che avevano aperto il dialogo al consensus omnium, e dall’altro gli Sciiti, che contrapponevano l’interpretazione divina data dalla Sunna degli Imam discendenti del Profeta. Si tratta di una distinzione di fondamentale importanza, perché coinvolge tutti gli elementi della vita sociale, civile e religiosa attraverso gli elementi del diritto pubblico.

Il principio fondamentale ispiratore di questa divisione, che ha più l’aspetto di uno scisma che non di diversità interpretative, è di carattere religioso, infatti ribadisce la continuazione della intermediarietà del Profeta tra Dio e l’uomo, negata dai Sunniti, e la conseguente esaltazione degli intermediari, successori di Maometto, esaltazione troppo spesso enfatizzata.

Le conseguenze sono grandissime: emerge tra gli Sciiti la figura dell’Imam come unico interprete della volontà divina, perché discendente dal Profeta, al di fuori di ogni possibile incontro critico e dialettico; oggi potremmo parlare di una dittatura interpretativa da parte sciita e di una democrazia dialettica da parte sunnita. Tale allargamento del diritto al consenso ha provocato e provoca tuttora una serie di eccessi, a cominciare dall’integralismo più esasperato che conduce alla Jihad, intesa, nell’interpretazione che l’Occidente ne coglie, come un costante stato di belligeranza contro l’infedele, antico retaggio delle lotte di liberazione dalla conquista dei Crociati.
Vedremo più avanti il vero significato del termine Jihad.

In arabo il termine Imam indica il capo, la guida; inizialmente servì ad indicare colui che presiedeva l’assemblea o dirigeva la preghiera collettiva (compito adesso affidato ai Muezzin), successivamente divenne titolo degli antichi teologi musulmani. Tale titolo ha un valore prettamente pratico e indica coloro che svolgono mansioni religiose d’ordine inferiore, come matrimoni, funerali, predicazione; anche la solenne preghiera del venerdì (Khutba) è, normalmente, riservata al Khatib, riconosciuto di maggior autorevolezza e, quindi, di consenso; nella preghiera del venerdì è inserita anche la preghiera per il “governante”: essere inserito in tale preghiera significa essere riconosciuto come il capo in assoluto cui si deve obbedienza.

Solo nell’islamismo sciita l’Imam è il capo supremo della comunità, sia in senso temporale, che spirituale: successore del Profeta, ispirato da Dio, e, in talune sette di estremisti, considerato, addirittura, manifestazione stessa di Dio.
Nell’ordinario quotidiano, però, la figura emergente rimane quella dell’Imam come guida della umma (comunità) lungo la strada della giustizia, caratterizzata dalle regole dettate dal Corano, dalla Sunna, dal consenso e dalla analogia.
Nella tradizione islamica l’Imam non incarna il potere forte, che noi occidentali siamo portati ad attribuirgli perché ingannati dall’immagine degli Hayatollah, rappresentata dal Komeini degli anni ’70; in realtà l’Imam è vulnerabile e sfidabile, specialmente nel consenso che contraddistingue il suo modo di essere guida della umma, vulnerabilità e sfidabilità, che spesso ne hanno provocato l’uccisione.
L’ideale dell’essere Imam è quello della giustizia e della dedizione con la quale guida la umma, che gli si affida nell’itinerario del bene comune.

Oggi avvertiamo una separazione netta tra la razionalità dell’Imam della tradizione e il potere attribuito dai moderni mass media agli Imam; da questa separazione è scaturita una figura inesistente nella lettura del Corano: quella di un Imam onnipotente, incontestabile e incontestato.
Questo tipologia interpretativa è iniziata con l’avvento degli Hayatollah, invenzione del XX secolo: un Imam, che riesce ad arrivare al potere e realizzare uno Stato teocratico solo con l’uso di videocassette spedite dall’esilio dorato in Francia, non coincide con nessuna figura di Imam dell’antica tradizione musulmana.

Questa distorta visione, ampiamente propagandata dai media occidentali, ha provocato l’affermazione di un Imam lontanissimo da quelli della tradizione musulmana, un Imam che assume tale qualifica per poter trattare in modo autocratico i membri della comunità, diventati per assurdo dei sudditi, e privarli di taluni diritti.
Il concetto di potere non appartiene all’uomo singolarmente preso, “appartiene a Dio” (la hikma illa li-llah è uno slogan che ha causato la morte di molti Imam e uomini di potere). La dissidenza politica, confortata dalla dissidenza religiosa, si esprime con la condanna di chi detiene il potere, come è accaduto a Anwar Sadat. La violenza diventa un’appendice della dissidenza.
Il consenso dal puro aspetto religioso transita anche nell’aspetto politico; il leader deve avere ottenuto il consenso dal popolo che governa ed essere quindi inserito nella preghiera del venerdì: in nessuna parte del Corano si fa cenno alla ereditarietà di un trono senza il consenso del popolo (ijtima), consenso che ha un valore anche superiore a quello che deve riscuotere l’Imam (igma).
Una serrata disputa arroventò il clima dialettico all’interno dell’Islam intorno all’800 (corrispondente al 200 dell’era musulmana) tra Kharigiti e Mu’taziliti. I primi sostenevano l’esigenza di ricorrere alla violenza per dirimere le controversie, sia religiose che politiche, mentre i Mu’taziliti sostenevano la via dell’aql, che privilegia l’uso della ragione, con una sorta di intellettualizzazione della scena politico-religiosa. Questa interpretazione portò una ventata di novità nell’Islam, introducendo un nuovo tipo di rapporto tra governante e governato, concedendo a quest’ultimo la possibilità di esercitare una parte attiva sia nei rapporti con il potere, che con la religione.
Ma il concetto di potere islamico si basa sulla esigenza di non confondere i problemi inerenti l’applicazione del Corano con la politica. Nell’Islam ortodosso, quello sunnita, l’Imam non è considerato infallibile, anzi è spesso soggetto a critiche; un personaggio come Komeini non avrebbe potuto esistere in ambiente sunnita. E’ questa una delle differenze tra Sciiti e Sunniti: per gli Sciiti l’Imam, che raccoglie il consenso, deve essere considerato discendente del Profeta e pertanto in diretto rapporto con Dio, che ne illumina il comportamento.
Che un leader politico come Saddam Hussein appartenga alla fazione sunnita non deve meravigliare più di tanto, perché il consenso politico lo ha ottenuto attraverso riconoscimenti vari, che gli sono venuti dall’Occidente, non senza avere prima repressa e messa a tacere l’opposizione intellettuale (quella legata ai Mu’taziliti); venuta meno tale unica possibile opposizione, ebbe il sopravvento, usando l’autoritarismo politico e l’uso abituale della violenza. Questo spiega anche la cronaca dei nostri giorni: la violenza terroristica ha bisogno di appoggiarsi alla sfida religiosa, essendo la sola in grado di esercitare un ruolo credibile.
Il consenso religioso si trasferisce anche nella sfera politica e consente un esercizio del potere ammantato di credibilità religiosa.
Nel Corano è pesantemente condannata la figura del “tiranno”, detentore di un potere senza limiti, chiamato taghiya. Questi disprezza tutti, compreso ciò che appartiene alla religione e a Dio (vedi sure 2, v.14 e sura 20 v. 24, 43).
Taghiya è sovente indicato il Faraone d’Egitto, colpevole di disobbedienza a Mosè; la sconfitta e la condanna del Faraone sono riportate nel Corano come esempio per quanti mancano di umiltà. Bush non si è mai chiesto perché nelle vignette che appaiono nei settimanali e nei giornali dei paesi islamici è spesso raffigurato come un Faraone.
In un numero del quotidiano marocchino al-Ittihad al-ishtiraki Bush veniva rappresentato come un Faraone che proclamava: "Io sono George Bush, io sono il vostro Dio supremo". Queste forme di arroganza politica e di mancanza di umiltà, oltre ad essere condannate dal Corano, rappresentano un lugubre messaggio di autodistruzione.
In altre circostanze lo stesso Bush è rappresentato come un principe saudita, per rafforzare l’associazione che viene fatta tra i governanti sauditi e l’America di Bush, entrambi destinati a svolgere un ruolo transitorio, perché solo il potere di Dio è eterno.
Un racconto arabo narra di un pellegrino che si presentò alla corte del sultano per essere sfamato. Condotto alla presenza del sultano questi chiese al pellegrino chi fosse. Il pellegrino rispose: “Sono un profeta discendente da Mosè”. Il sultano venne preso dalla collera e minacciò il pellegrino dicendo: “ Se tu sei un profeta discendente da Mosè devi ripetere davanti a me i prodigi che Mosè fece al cospetto del Faraone; se ci riuscirai, sarai onorato, altrimenti morirai”. Il pellegrino, per nulla impaurito, rispose: “ Potente sultano, Mosè fece quei prodigi quando il Faraone affermò di essere Dio in terra. Se anche tu affermerai la stessa cosa, solo allora potrò compiere gli stessi prodigi di Mosè”. Il sultano non avrebbe potuto mai sostenere di essere Dio in terra senza venire meno alla umiltà che deve distinguere ogni potente, così il pellegrino non fu costretto a compiere quei prodigi, fu onorato e visse tutta la sua vita al palazzo.

Questa identificazione tra potere e taghiya è fondamentale per comprendere la instabilità dei sistemi politici musulmani, che avviene in sintonia con la rivoluzione permanente predicata dai Kharigiti.
Altra figura rappresentativa è quella del Mufti, chiamato ad interpretare la legge civile e religiosa; una sorta di giureconsulto che, per riconosciuta autorevolezza, può dare pareri basati sulla tradizione (Sunna) senza dover fare ricorso diretto alle fonti originarie del diritto. I pareri del Mufti sono dati in conformità con la scuola o il rito di appartenenza; anche nel caso del Mufti, quindi le interpretazioni possono variare fino al punto di diventare discordanti e antitetiche.
Per correttezza informativa occorre far presente che gli Sciiti rappresentano solo il 10 % della popolazione islamica, mentre l’80% è sunnita, il resto appartiene a confessioni locali di modestissima rilevanza numerica.
Il consenso che viene attribuito ad un Imam sciita, che si proclama discendente del Profeta, mette lo stesso Imam nella condizione di attirare intorno a sé masse di fedeli, spesso condizionate da fattori esterni, e condurle verso la strada dell’estremismo e del fanatismo religioso, ivi compresa la teorizzazione della “Guerra Santa”, che in nessuna parte del Corano è prevista.
Il grave problema dell’integralismo religioso, che sfocia in atti di terrorismo e di ferocia, è il problema principale dell’Islam, prima che dell’Occidente. Il tentativo di combatterlo con i metodi della repressione, anziché arginare e limitare tale problema, piuttosto lo esaspera, creando una spirale involutiva senza soluzione di continuità.
E’ dovere dei popoli che anelano a un mondo di pace restituire credibilità e, quindi, consenso, alla stragrande maggioranza dei musulmani di osservanza sunnita, per stimolare un dialogo con i personaggi in grado di influenzare, attraverso la loro cultura individuale, l’integrazione tra due mondi che devono convivere senza supremazie e con pari dignità di esseri umani.
La maggioranza degli Imam sunniti delle nazioni più tolleranti, come Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Giordania, Mauritania, sono i più aperti alla esigenza del dialogo e della mutualità specie con la religione cattolica di rito romano.

A ben leggere il Corano, nelle parti che si rifanno alla religione cattolica si evince, con determinazione, un maggior accostamento tra l’Islam e la religione cattolica, che non tra l’ebraismo e la religione cattolica.

Gli incontri dialettici e di confronto fra le scuole di teologia hanno la loro grande importanza, ma proiettata nel tempo; si tratta di disquisizioni di ordine teologico, che non toccano la gran massa dei popoli dell’una e dell’altra parte.
Tali incontri di vertice tra teologi cristiani e teologi islamici può essere, a volte, controproducente, perché ognuna delle parti, investita della responsabilità di sostenere le proprie tesi, non cede alla possibilità di integrazione reciproca, in quanto emergono più i punti di divergenza che non quelli di convergenza.
Occorrerebbe manifestare la volontà del dialogo ad un livello più ampio, per far comprendere al popolo dei fedeli che ci sono ampie possibilità di convergenze, pur senza la pretesa di fare proselitismo, né dall’una né dall’altra parte. I popoli cristiani e musulmani sono molto più vicini di quanto essi stessi credano, a tenerli distanti sono le divergenze di vertice e gli interessi politici, quando non manifestano alcuna volontà di accettazione dei punti di vista dell’interlocutore.

Il parere della gente comune è di sostanziale importanza, perché rappresenta il metro di riferimento più oggettivo, quello che con il tempo sarà destinato ad affermarsi.



Giovedì, 26 luglio 2007