Islam
Chi ha paura delle moschee?

di Franco Cardini

Le identità sono minacciate solo “dal di dentro”, dal destrutturarsi della consapevolezza culturale di se stessi


Lo storico Franco Cardini è intervenuto autorevolmente sulla questione della costruzione delle moschee in Italia con un articolo pubblicato domenica 30 settembre nelle pagine della cultura del quotidiano genovese “Il Secolo XIX” .


Il confronto tra quel che accedeva una volta e quel che accade oggi oggi, anche qui e proprio qui nella nostra vecchia Genova può essere interpretato in tanti modi, ma un significato inequivocabile ce l’ha:che la storia non è affatto quel filo di seta duttile e lucente, tirato in modo da sistemarsi secondo una linea dolcemente ascensionale nella quale l’oggi sia meglio del ieri e il domani sarà meglio dell’oggi, che invece continuano a sognare tanti nostalgici del patetico ottimismo storicistico.
Niente affatto. La storia è tutte cunette, dossi, curve , trabocchetti e buche, come l’immaginava il buon vecchio Montale: per quanto in fondo aggiungesse, anch’egli ottimisticamente che “c’è chi sopravvive”.Può essere successo che tra Cinque e Settecento là dalle parti che recano il fatidico nome di “Galata”, della vecchia darsena tra gli ambienti della biblioteca della facolta di economia e commercio e quelli del Museo del mare, sorgesse una moschea. Ci andavano a pregare non solo gli schiavi musulmani, ma anche i mercanti turchi e barbareschi che passavano dal porto, e magari chissà, anche qualche corsaro abilmente travestito. Del resto, la linea sottile che divideva il mercante dal corsaro era ben difficile da tracciare. E il nostro Mediterraneo, “continente liquido” e sede quindi di forme per sua natura mutevoli e cangianti, poteva ben ospitare realtà del genere. Nel suo bel libro “Rinnegati” (Laterza), Lucetta Scaraffia ha descritto un mondo costiero e isolano ricco di santuari cui erano devoti i marinai e i pescatori, e cui si rivolgevano sia cristiani che musulmani.
Fino a qualche decennio fa, quando sapevamo bene o credevamo di sapere chi eravamo, questo mondo fluido e caleidoscopico piaceva, affascinava, commuoveva: e si parlava volentieri, con orgoglio, della naturale “tolleranza” delle genti di mare e della vita dei porti. Era così anche a Venezia, come dimostrano le tele del Cataletto e del Guardi; era così nel “porto franco” di Livorno, sempre pieno di maghrebini ed ebrei (ma anche di protestanti olandesi). Certo nel Levante soggetto al duro ma anche duttile governo dei sultani turchi, la cosa era ancora più pronunziata: da Istanbul ad Alessandria, i residenti musulmani erano abituati a una forte e rigogliosa presenza cristiana locale, e non si meravigliavano che ad essa si aggiungesse quella della dei cristiani “franchi”, gli europei occidentali. Tra Genova e Istanbul, come tra Genova e gli Stati barbareschi, i regime era quello d’una naturale reciprocità: i musulmani pregavano nelle moschee delle nostre città e i frati cappuccini dicevano messa ad Algeri, s’intende nei luoghi deputati a consentirlo: e a nessuno passava per la testa di offendersi per questo. Eppure di quando in quando si organizzavano delle crociate, oppure si facevano lucrose spedizioni navali di caccia alle navi corsare.
Badate, non era roba da poco.Se l’imam di Genova era così popolare tra la gente che lo chiamava con nome che di solito i attribuisce ai preti ortodossi, “Papasso” (una parola poi divenuta un diffuso cognome), nella Gerusalemme del XII secolo i musulmani avevano addirittura un piccolo oratorio presso la casa-madre dei Templari; e alla fine del secolo prima, quindi ala vigilia della prima crociate, un monaco benedettino testimoniava in un suo poema che il porto di Pisa era pieno di arabi e di africani.
Ma, appunto, erano tempi di forte senso identitario, nei quali nessuno sentiva la sua identità minacciata dal di fuori: per la semplice ragione che le identità possono essere minacciate solo “dal di dentro”, dalla crisi dell’autocoscienza, dal destrutturarsi della consapevolezza culturale di se stessi. L’identità è come la nottola di Minerva. Si leva e si libra nell’aria soltanto al tramonto. Oggi se pala tanto perché la si sente minacciata: quando la possedevamo pienamente e sicuramente non ci accorgevano nemmeno di averla. Mia nonna, cattolica di ferro, non ha mai minimamente pensato che la sua fede potesse venir insidiata e compromessa per il fatto ch’essa aveva sposato un tipaccio anarchico e bestemmiatore (mio nonne Giulio appunto).
Ma quel che non faceva né caldo né freddo ai ruvidi e parsimoniosi genovesi d’una volta, spaventa i liberi ed evoluti genovesi d’oggi. La moschea sorgeva là sulla darsena, a un tiro di sasso dalla Marina di Prà, sacra alla memoria delle reliquie di San Giovanni Battista: e a nessuno passava per la testa che avrebbe mai potuto islamizzare alcunché. Dev’essere davvero misera cosa, la fede dei giorni nostri, se basta così poco a sradicarla. Ma se così fosse, se l’identità fosse così debole, varrebbe davvero la pena continuare a tutelarla?


Tratto da: http://www.islam-online.it/paura_moschee.htm

Giovedì, 04 ottobre 2007