Islam
Il diritto di cambiare

dello sceicco Abdallah Adhami (Trad. Maria G. Di Rienzo)

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione de "Il diritto di cambiare", dello sceicco Abdallah Adhami (imam di origine araba e prominente studioso dell’Islam, sta al momento lavorando sull’esame delle implicazioni linguistiche nei versetti “problematici” del Corano), per Common Grounds, 10.11.2007.


Dal Codice di Hammurabi a quello di Maimonide, la maggior parte dei sistemi legislativi ha punito l’apostasia. Nel famoso Codice dell’imperatore romano Giustiniano (483-565), “corpus juris civilis”, e cioè la base di tutto il canone legislativo romano e della moderna legge civile, l’apostasia doveva “essere punita con la morte” e non vi erano “tolleranza o dissenso”. I codici biblici stabiliscono che “colui che dubita o ridicolizza una parola della Torah, o degli autori rabbinici, è un eretico nel pieno senso della parola, un infedele (...) e non vi è speranza per lui.” Le leggi concernenti questo non credente sono molto severe: “egli deve essere ucciso direttamente”. O come consigliava Maimonide, rabbino e filosofo andaluso del tredicesimo secolo, tenendo in conto la sospensione dell’apostasia nella sua era, “la sua morte può essere causata indirettamente”.
La legge islamica (shari’a), allo stesso modo prevede l’uccisione in casi di confermata e pubblica apostasia. Sebbene vi siano scarsi documenti e poca evidenza dell’applicazione della legge sull’apostasia nel primo periodo della storia musulmana, la sua applicazione usualmente dipendeva dalla natura pubblica o privata della dichiarazione. All’interno degli stati islamici, ciò che le minoranze religiose o d’altro tipo facevano nelle loro vite private era lasciato alla loro discrezione, anche quando venivano tecnicamente classificati come “devianti” o contrari agli insegnamenti islamici. La shari’a, come tutte le leggi religiose, governa riti di adorazione e codici di etica e condotta individuali e sociali. Contrariamente a quando dicono le nozioni stereotipate della religione, il regno terreno all’interno della shari’a è in effetti pragmaticamente concepito come in essenza laico. Dal punto di vista religioso, la fondamentale natura dell’essere umano è il desiderio di adorare Dio senza intralcio. La dimensione privata dell’apostasia ha perciò sempre compreso aspetti molto complessi, i quali rendono un giudizio umano definitivo impossibile. I misteri del cuore e della mente sono al di là della teologia, così come sono a stento ipotizzabili della neuroscienza.
E’ il nostro incontro creativo con la vita terrena, laica, che rivela la nostra capacità di essere utili agli altri, ed è lo strumento principale grazie al quale si eleva la nostra condizione spirituale. La devozione sincera, autentica, è alla fine l’unico metro giornaliero del nostro stato spirituale. Il dibattito libero e razionale ha sempre trovato posto all’interno del contesto religioso della shari’a. Questo è stato un fenomeno unicamente islamico, vero nell’europea Cordoba come nell’araba Baghdad. Ne’ le astrazioni teologiche dei Mu’taziliti, un gruppo di filosofi del nono secolo, ne’ le veementi dialettiche straniere del gruppo segreto detto la “Fratellanza della purezza”, durante il decimo secolo, furono mai motivazioni per rimuovere qualcuno di essi dall’abbraccio dell’Islam.
L’evidenza più saliente del non perseguimento dell’apostasia privata nell’Islam è l’esistenza perenne dei cosiddetti “ipocriti” nella società di Medina, nonostante i pesanti passaggi coranici contro di essi. Inoltre, il pensiero “eretico” privato non fu mai perseguito o censurato; fino a che non era soggetto di predicazione pubblica, non veniva condannato come tale, ne’ vi erano motivi a sostegno della necessità di sopprimerlo. La stabilità esterna, o visibile, nel dominio terreno è ciò che permette alle istituzioni della società di continuare ad esistere. La resistenza nonviolenta del Profeta Maometto alla Mecca, ed il suo uso della diplomazia durante la stipula del Trattato di Hudaybiyah, insegnarono qualche lezione ai suoi compagni. Sotto il Trattato, il Profeta permise alle persone di emigrare senza alcuna reprimenda, nonostante stessero abbandonando l’Islam in questo processo (alcuni avevano adottato la nuova religione per ragioni d’interesse). A nessun profeta è stata mai data licenza di porre un giudizio sulla fede di un essere umano, come il Corano ripetutamente reitera: il giudizio ultimo è solo di Dio.
Perciò, un servizio costruttivo alle nostre sacre tradizioni sta nel mostrare la loro rilevanza quale veicolo di infinita creatività, non nel degradarle alla preoccupazione di giudicare la cultura contemporanea. Dobbiamo riconoscere ed affermare che la diversità e la differenza sono parte del divino intento della creazione, che siamo stati fatti come nazioni e tribù di modo che potessimo “imparare l’uno i modi dell’altro ed esserne arricchiti” (Corano, 49:13). Il provincialismo ed il relativismo saranno sempre ostacoli alla diversità, specialmente quando l’ultimo viene camuffato da tolleranza; e nemmeno perché le persone siano incapaci di vivere insieme. Abbiamo bisogno di una rinnovata devozione alla verità, ed al cercarla liberamente attraverso nostre istituzioni competenti e non settarie. E’ solo attraverso uno scambio libero e un dialogo rispettoso che le ideologie possono essere giudicate e testate per i loro meriti. La riforma di cui abbiamo disperatamente bisogno, sull’intero globo, è un riassesto onesto delle fonti originarie di tutti i nostri oppressivi miti culturali e modi di pensare tirannici. Come musulmani, abbiamo necessità di stabilire un metro più alto per ciò che costituisce la competenza, rispetto alle questioni relative alle shari’a. Ciò ci fornirebbe maggior chiarezza e fiducia, e ci impedirebbe di abbandonarci a manifestazioni insensate di protesta ogni volta che un vento di passaggio sembra sfidare la nostra fede. E noi, leader religiosi di tutte le fedi, abbiamo bisogno di riconoscere la nostra responsabilità nell’alienazione e nello straniamento dei credenti di tutto il mondo. Questo comincerebbe a ristabilire la credibilità delle nostre istituzioni, e potrebbe persino riaccendere l’immaginazione religiosa delle persone. Infine, dovremmo rinnovare il nostro impegno verso un ethos della compassione, verso un servizio non interessato e degno della fiducia pubblica: certamente ciò ci renderebbe più degni dell’esempio del Messaggero Benedetto a cui proclamiamo di essere leali.



Venerdì, 16 novembre 2007