Islam - Un’analisi dall’Asia
Fra imperialismo ed islamismo

di Pervez Hoodbhoy ( trad. M.G. Di Rienzo)

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione, di Pervez Hoodbhoy per Himal Southasian, numero di ottobre/novembre 2007


Molti di noi a sinistra, particolarmente nell’Asia del sud, abbiamo scelto di interpretare l’ascesa di un violento fondamentalismo islamico come responso alla povertà, alla disoccupazione, allo scarso accesso alla giustizia; come risposta alla mancanza di istruzione, alla corruzione, alla perdita di fiducia nei sistemi politici, o alle sofferenze degli indigenti e dei lavoratori.
Come verità parziali, sono indiscutibili. Coloro che vengono condannati a vivere una vita priva di speranza e di felicità sono di certo vulnerabili al richiamo dei demagoghi religiosi, che offrono una felicità futura in cambio di obbedienza incondizionata.
Abbiamo anche dato la responsabilità all’imperialismo americano. E questa, anche, è una verità parziale. Scioccati dagli attacchi dell’11 settembre 2001, gli Usa si sono scatenati contro i musulmani ovunque. I neoconservatori americani hanno pensato che far fischiare la frusta avrebbe rimesso il mondo in ordine. Invece, è accaduto l’opposto. Gli islamisti hanno conseguito una vittoria massiccia in Iraq, dopo una guerra dichiarata per motivi fraudolenti da una superpotenza intossicata da orgoglio, arroganza e ignoranza. Gli Usa si stanno lasciando dietro un groviglio di serpi, da cui i terroristi induriti dalle battaglie si stanno facendo strada in altri paesi nel mondo. I sondaggi mostrano che oggi gli Usa sono il paese più impopolare del pianeta e che, in molti luoghi, George Bush è più deprecato di Osama bin Laden. Quel che numerosi musulmani vedono è un’America avida di petrolio, in collusione con Israele, un esercito fatto di crociati che occupa un centro storico della civiltà islamica. Al-Qaida ci sguazza. La sua missione era convincere i musulmani che era in corso una guerra tra l’Islam e gli infedeli, e oggi può vantarsi: “Ve l’avevamo detto!”.
Ma come per la povertà e la deprivazione, l’imperialismo ed il colonialismo non bastano, da soli, a creare un islamismo violento. La consapevolezza non è semplicemente la conseguenza di condizioni materiali; fattori psicologici ben radicati, anche se meno immediatamente visibili, possono essere ugualmente importanti. E’ una verità palpabile che il radicalismo religioso più pericoloso viene da un deliberato e sistematico condizionamento delle menti, freneticamente propagandato dai suoi ideologi nelle moschee, nelle madrassa e su internet. Essi hanno creato un clima in cui ad essere responsabili di qualsiasi male affligga la società musulmana sono cause esterne. Governi musulmani traballanti, o leader comunitari nei luoghi in cui i musulmani sono una minoranza, hanno anche appreso con successo a generare rabbia che storna l’attenzione dalle istanze locali per dirigerla verso nemici distanti, reali o immaginari.
Il radicalismo islamista è una brutta notizia per i musulmani. Li mette l’uno contro l’altro, oltre che contro il mondo in generale. Allo stesso tempo, raramente si rivolge contro gli eccessi di regimi corrotti in carica, o viene ispirato da idee di giustizia ed equità. Il bersaglio principale degli islamisti violenti oggi sono gli altri musulmani che vivono in paesi musulmani.
Alcuni terroristi fanatici uccidono altri musulmani che appartengono alla setta “sbagliata”. Altri accusano i “musulmani modernizzati” di essere vettori di peccati infernali (condizione conosciuta come “jahiliya”), il che li rende meritevoli dell’ira funesta di dio. Il più grande degli sconvolgimenti fra gli ortodossi viene innescato dalle cose più semplici, tipo il permettere alle donne di andarsene in giro a viso scoperto, o la piana nozione che dovrebbero essere considerate eguali agli uomini.
Contrariamente a ciò che dice, il radicalismo islamista è indifferente alle sofferenze dei musulmani. Non abbiamo visto manifestazioni di strada su larga scala in nessuno dei paesi musulmani per protestare contro il genocidio dei musulmani in corso nel Darfur. Il massacro dei musulmani bosniaci e ceceni ha causato non più di un singhiozzo, nel mondo musulmano. E, nonostante tutta la retorica contro l’occidente, l’aggressione americana all’Iraq non ha dato come risultato manifestazioni di massa in nessuna parte del mondo musulmano.
Dall’altra parte, la furia fondamentalista esplode quando sembra che si maligni sulla fede. Per esempio, folle hanno dato fuoco ad ambasciate ed edifici, in giro per il mondo, per un atto di blasfemia commesso in Danimarca; altri hanno protestato violentemente per la concessione del cavalierato a Salman Rushdie. Pur se le popolazioni musulmane diventano sempre più ortodosse, vi è una curiosa, quasi fatalistica, sconnessione con il mondo reale. Ciò suggerisce che il soggetto musulmano, la persona, non conta più: solo la fede conta. Il radicalismo islamista non conosce confini. Se cerchiamo soluzioni ad un problema che sta esplodendo, dobbiamo capire che la velocità della comunicazione rende senza senso il guardare ad i problemi nelle differenti parti del mondo musulmano come risolvibili in isolamento. Il montante islamismo in un paese non può essere completamente attribuito alle politiche governative di quello stesso paese (sebbene i governi possano certamente portare un carico considerevole di responsabilità).
Nondimeno, diamo un breve sguardo alla regione del sudest asiatico, prima di tornare alla questione globale. Il radicalismo islamista ha raggiunto una presenza strabordante in Pakistan ed Afghanistan. Sta anche rapidamente cambiando il tessuto sociale in Bangladesh, e sta peggiorando le relazioni, in India, tra la minoranza musulmana e la maggioranza hindu.
Il Pakistan è nella morsa di un’insorgenza islamista su vasta scala. Incapace di contrastare il mix tossico di religione e tribalismo, il governo di Islamabad ha perso la sua autorità amministrativa nelle maggior parte delle aree confinanti con l’Afghanistan. I talebani hanno il pieno controllo amministrativo di numerose aree tribali, ed hanno costretto i governanti locali alla fuga. I rappresentanti dei talebani ora sono la legge. Un video largamente disponibile, prodotto dai talebani stessi, mostra i corpi di criminali comuni e banditi che penzolano dai pali dell’elettricità nella città di Miranshah, quartier generale amministrativo del Waziristan del nord, sotto gli occhi di migliaia di spettatori plaudenti. Le scuole femminili sono state chiuse, ed ai barbieri è stato consegnato come monito un lenzuolo funebre: fai una barba e crepi. Le vaccinazioni antipolio sono state dichiarate “haram” (proibite) dagli ulema, di conseguenza la campagna governativa per le vaccinazioni è cessata. Squadre di vigilantes talebani pattugliano le strade delle città tribale per assicurarsi che la “sharia” venga applicata, e controllano la lunghezza delle barbe, se le tuniche raggiungono bene le caviglie, e se gli individui vanno o no in moschea. Una nuova generazione di giovani militanti, addestrati nella madrassa, ora detta legge in molti luoghi del Pakistan. Hanno spodestato la leadership tradizionale degli anziani dei villaggi, i cosiddetti “malik”. Nell’agosto 2007, un “consiglio di pace” dei capi tribali pakistani ed afgani è stato tenuto a Kabul, con la presenza di Hamid Karzai e Pervez Musharraf: è stato un fallimento. Molti dei “malik” più influenti hanno avuto troppa paura di partecipare, nonostante fosse stata loro offerta protezione da ambo i governi.
Scontri settari nelle aree tribali del Pakistan sono pronti ad esplodere, alimentati da mullah infuriati che operano tramite le stazioni radio private in FM, producendo programmi incendiari in cui prendono a bersaglio altri mullah o la “immoralità” della cultura moderna. Già nell’aprile 2007, mortai e razzi furono liberamente usati da sunniti e sciiti a Parachinar e Dera Ismail Khan. Nei villaggi del distretto di Hangu, entrambe le parti hanno scambiato colpi d’artiglieria leggera e missili, lasciando spesso sul terreno dozzine di morti. Nel maggio 2007, scontri armati sono scoppiati tra i gruppi Ansar-ul-Islam e Lashkar-e-Islam a Bara.
La talibanizzazione delle aree tribali pakistane ha causato allarme, ma la vicenda della moschea centrale dei talebani ad Islamabad, la Lal Masjid, è stata una novità assoluta. Squadre di vigilantes islamisti sciamavano per la città bruciando negozi di dischi, rapendo donne che classificavano come prostitute, forzando la propria versione di “moralità”. Questo stato di cose sarebbe potuto durare ancora più a lungo, se un incidente in luglio non avesse destato le ire del governo cinese, dopo che cittadini cinesi erano stati rapiti da una “casa d’appuntamenti”, sempre gestita da cinesi, a Islamabad. L’esercito pakistano finì per lanciare il sanguinoso assalto che fece 117 morti e centinaia e centinaia di feriti. L’episodio ha mostrato che svariate organizzazioni militanti, inclusa Jaish-e-Muhammad (che ha inaugurato la tradizione dei kamikaze suicidi in Kashmir) possono facilmente stabilirsi in una città mentre i grandemente vigilanti servizi di intelligence ed altre organizzazioni militari guardano dall’altra parte.
Sotto la pressione degli Usa, l’esercito pakistano ha montato offensive militari contro Al-Qaida e i talebani negli ultimi mesi, ma la resistenza si sta indurendo. I soldati pakistani cominciano a rifiutarsi di combattere. Il primo di settembre 2007, un intero convoglio militare si è arreso agli islamisti del Waziristan senza sparare un colpo. Trecento soldati pakistani sono stati presi in ostaggio. Ma ciò che ha scosso l’establishment è stato il seguente attacco suicida a Rawalpindi, su un autobus che trasportava personale civile dell’intelligence al lavoro. Più di venticinque persone sono morte. Poiché l’autobus non recava segni esterni di riconoscimento, è chiaro che si è trattato di un lavoro interno, e suggerisce che i militanti tribali ed i talebani siano profondamente infiltrati nell’esercito. Non sorprende che ciò sia coinciso con una vampata di paura in Occidente. Secondo il numero di agosto 2007 del Foreign Policy magazine, il 35% degli analisti politici statunitensi ritiene che il Pakistan diventerà la prossima roccaforte di Al-Qaida; il 22% dice che il Pakistan è un alleato che serve a poco agli interessi della sicurezza nazionale americana.
L’Afghanistan è ancora in uno stato più disperato dei suoi vicini pakistani, con il governo di Hamid Karzai che controlla poco più che Kabul. La coltivazione del papavero da oppio è in crescita, l’istruzione delle bambine in calo. I talebani sono rinati dalle proprie ceneri dopo essere stati spinti alle frontiere pakistane dall’azione americana. Potevano essere, e dovevano essere, sconfitti da una corretta misura di deterrenza militare, strategia politica e rapida ricostruzione economica delle aree devastate. Invece, la miope insistenza di Washington per le soluzioni militari ha condotto alla rinascita talebana ed al suo conseguente diffondersi nelle aree tribali pakistane. Sebbene gli afgani non vogliano tornare alla brutalità del regime talebano, l’enorme corruzione in seno al governo di Karzai, e la partecipazione ad esso di criminali di guerra, hanno derubato tale governo di ogni credibilità.
Il Bangladesh, che deve la propria nascita ad un nazionalismo linguistico anziché religioso, non è vicino ne’ al Pakistan ne’ all’Afghanistan, in termini di influenza militare. Nonostante ciò, una rapida trasformazione vi sta avvenendo. Molti “incidenti militanti” vi sono accaduti, compresa l’esplosione di bombe, durante lo scorso anno. Riflettendo i vasti cambiamenti all’interno della società del Bangladesh, anche la politica si è trasformata. Nel 1971, in pochi avrebbero detto che Jamaat-i-Islami, che aveva apertamente fiancheggiato l’esercito occidentale pakistano, potesse mai riguadagnare un posto nella politica del paese. Ma il Partito nazionalista del Bangladesh, l’ultimo al potere, ha un buon numero di leader accreditati la cui affinità ideologica con il gruppo Jamaat è evidente. Nei villaggi, stanno imponendo i veli alle donne e le barbe agli uomini; intellettuali laici e attivisti di sinistra sono stati assassinati; e ciò che rimane della minoranza hindu sta sempre peggio.
L’India, le cui tradizioni democratiche hanno a lungo provveduto una valvola di sfogo, ha visto molta meno militanza islamista, eccetto che per le zone di Jammu e del Kashmir. Ma nel 1992, una folla di zeloti hindu rase al suolo la moschea Babri Masjid, inficiando la nozione che vede l’India come una democrazia laica e pluralista. Ciò diede inizio ad un ciclo di reazioni e contro-reazioni che deve ancora aver fine. Un massacro con appoggio statale, nel 2002, che lasciò almeno 2.000 musulmani morti nel Gujarat, è stata sino ad ora la conseguenza più tragica.
A differenza del Pakistan o dell’Afghanistan, i musulmani in India sono primariamente le vittime, e non i perpetratori, della violenza. La maggior parte di essi è povera e priva di istruzione, e la comunità ha perduto i suoi individui più capaci che sono migrati in Pakistan. Anche se il conservatorismo musulmano è cresciuto in India durante l’ultimo decennio, una crescente classe media musulmana, e l’avere alternative alla moschea come fonte di socializzazione, hanno mantenuto l’India relativamente pacifica. Tuttavia, come le bombe sui treni a Bombai e le esplosioni a Hyderabad hanno mostrato nel 2006, la violenza estremista sta aumentando, e le sue tecniche sono le stesse usate da Al-Qaida ed altri militanti islamisti.
L’Asia del sud non è la sola a dover fronteggiare della militanza islamica violenta, com’è ovvio. Molte società musulmane stanno andando all’indietro, a causa di fallimenti e declini interni, e affetti dalla dislocazione culturale dovuta alla globalizzazione. Sin dai primi anni ’50, dopo l’era della de-colonizzazione, un senso di insoddisfazione e frustrazione ha prodotto una moltitudine di movimenti islamisti, dall’Algeria all’Indonesia. Ma non avevano prospettiva. Se gli Usa non li avessero coltivati come alleati durante la guerra fredda, la storia ora sarebbe molto differente. Se guardiamo indietro alla metà del 20° secolo, non troveremo un singolo leader nazionalista musulmano che fosse fondamentalista. Kemal Ataturk in Turchia, Ahmed Ben Bella in Algeria, Sukarno in Indonesia, Muhammad Ali Jinnah in Pakistan, Gamal Abdel Nasser in Egitto e and Mohammed Mosaddeq in Iraq: tutti cercarono di organizzare le loro società sulle basi di valori laici. Tuttavia, i nazionalismi musulmani ed arabi, parte di una più vasta corrente nazionalista anti-coloniale del “terzo mondo”, includeva il desiderio di controllare ed usare le risorse nazionali per benefici domestici: il conflitto con l’avidità occidentale era inevitabile. Gli interessi imperialisti della Gran Bretagna, e più tardi degli Usa, temevano il nazionalismo indipendentista. Ad esso fu preferito chiunque si mostrasse disposto a collaborare, persino il regime islamico ultraconservatore dell’Arabia Saudita. Dopo un po’ di tempo, mentre la guerra fredda incalzava, il nazionalismo divenne intollerabile. Nel 1953, Mosaddeq fu rovesciato in Iran da un colpo di stato della CIA, e rimpiazzato con Mohammad Reza Shah Pahlavi. La Gran Bretagna prese a bersaglio Nasser. Sukarno fu sostituito da Suharto, dopo un sanguinoso colpo di stato che lasciò sul terreno più di mezzo milione di morti.
Le cose vennero a capo con l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. La strategia statunitense per sconfiggere l’Impero del Male richiedeva il radunare e controllare forze islamiche da tutto il mondo. Con il generale Zia ul-Haq come alleato principale, e l’Arabia Saudita come principale finanziatore, la CIA reclutò apertamente santi guerrieri islamici dall’Egitto, dall’Arabia Saudita, dal Sudan e dall’Algeria. L’Islam “radicale” ebbe un avanzamento incredibile, mentre la superpotenza che fungeva per esso da alleato e mentore inondava di sostegno i mujahideen. Funzionò. Nel 1988, le truppe sovietiche si ritirarono incondizionatamente, e l’alleanza Usa/Pakistan/Arabia Saudita/Egitto ne emerse vittoriosa. Un capitolo della storia sembrava chiuso. Ma le apparenze erano illusorie, e gli eventi occorsi nelle due decadi successive dovevano rivelare i costi reali della vittoria. Persino a metà degli anni ’90, molto prima dell’attacco dell’11/9 agli Usa, era già chiaro che la vittoriosa alleanza aveva creato un genio su cui non aveva alcun controllo.
Tutto questo è storia, ed è immodificabile. Attualmente, le relazioni tra Islam ed Occidente, in particolare con gli Usa, sono le peggiori che vi siano mai state. Lo scontro potrebbe non essere ancora in atto, ma trovarsi giusto dietro l’angolo. Come evitarlo? Qui ci sono dieci elementi chiave:
Primo. Come richiesto sia dai musulmani che dai non musulmani in tutto il globo, gli Usa devono cambiare attitudine. Devono ripudiare i grandi disegni imperialisti così come il credere di essere un’eccezione tra le nazioni. La nozione del totale controllo planetario ha guidato l’amministrazione repubblicana ben prima degli attacchi dell’11 settembre 2001. I democratici, nel frattempo (molti dei quali si stanno rivoltando ora contro la guerra in Iraq), hanno limitato le proprie critiche alle strategie con cui la guerra veniva condotta, alle bugie ed alla disinformazione provenienti dalla Casa Bianca, ai sospetti di intrallazzi con i contractors e via così. Ma condividono con i Repubblicani l’idea che gli Usa posseggano il diritto, e la forza adeguata, di modellare il mondo in accordo con i propri desideri. Gli americani devono in qualche modo convincersi della necessità dell’attenersi alle leggi internazionali, e capire che non hanno una missione divina da compiere.
Nell’era post Tony Blair, gli inglesi devono pure cercare una politica estera indipendente dagli Usa, e coltivare relazioni indipendenti con i paesi musulmani.
Secondo. La creazione di uno stato palestinese non può più essere posposta. Della condizione dei palestinesi si è appropriata la causa musulmana, perché è un’alta valenza simbolica. La pace tra l’Islam e l’Occidente è impossibile senza una soluzione ragionevole a questo problema. Gli Usa hanno dato ad Israele carta bianca per le azioni militari contro i palestinesi, come per l’invasione del Libano nel 1982 e nel 2006. Gli ufficiali americani restano in silenzio sul futuro dei territori occupati. Il fatto che Hamas e Fatah sono saltati gli uni alle gole degli altri non significa che il problema palestinese è scomparso. Al contrario, questo rinforza l’estremismo e rende tutto ancor più difficile. Senza uno stato palestinese, il problema muterà in forme nuove e ancor meno controllabili.
Terzo. Gli Usa devono prendere seriamente l’impatto dei danni collaterali alla popolazione civile. Il massiccio usa dell’aviazione in Iraq ed in Afghanistan ha inevitabilmente condotto ad un largo numero di vittime non combattenti. Spesso le “forze della coalizione” rifiutano di riconoscere le morti dei civili: quando vengono messi di fronte ad evidenza incontrovertibile si scusano e offrono compensazioni miserabili. Karl Inderfurth, assistente segretario di stato sotto Bill Clinton, ha recentemente ammesso che: “le azioni militari (in Afghanistan, nda.) delle forze Usa e Nato parleranno a voce più alta di quanto possano dire le parole più sincere. Mentre la cifra dei decessi fra i civili sale, i cuori e le menti degli afgani vanno perduti, e lo spettro di perdere la guerra si ripresenta.”
Quarto. Gli Usa devono smettere di minacciare l’Iran di olocausto nucleare per il tentativo di costruire armi nucleari, mentre ricompensano, a vario grado, altri paesi come Israele, India, Pakistan e Corea del Nord che tali armi le hanno già costruite. Il Sunday Times londinese riporta: “Il Pentagono ha disegnato piani per pesanti attacchi aerei contro 1.200 bersagli in Iran, piani disegnati per annichilire la capacità militare iraniana in tre giorni.” Naturalmente, sarebbe assai preferibile che l’Iran venisse dissuaso da mezzi pacifici, incluse le sanzioni, dal costruire bombe atomiche. Ma gli Usa non hanno alcun argomento morale da opporre alle ambizioni nucleari dell’Iran, sia per la dotazione nucleare di casa propria, sia perché sono stati proprio gli Usa a fornire l’iniziale dotazione nucleare all’Iran durante il governo dello Scià. Gli Usa rifiutano di lavorare tramite le NU, o di sostenere la creazione di una zona libera da armi nucleari nell’Asia occidentale. Fino ad ora, gli Usa si sono persino rifiutati di avere colloqui diretti con la leadership iraniana per defasare la crisi nucleare. Le aperture offerte dall’Iran, come quelle contenute nella lettera del 2006 del presidente Mahmoud Ahmadinejad al presidente Bush, sono state rigettate. Ma i test nucleari della Corea del Nord hanno dimostrato che il rifiuto statunitense di colloqui uno-a-uno è miseramente fallimentare. Dall’altro lato, le negoziazioni nucleari in cambio di petrolio hanno parzialmente avuto successo nell’arrestare lo sviluppo nucleare nordcoreano.
Quinto. Gli Usa non devono sfruttare il conflitto fra sunniti e sciiti nella speranza di indebolire entrambi. Anche se può sembrare una gran pensata, usare le passioni religiose per ottenere fini politici è pericolosissimo. Crea ad esempio mostri che hanno l’abitudine poi di rivoltarsi contro i padroni (ed alcuni esempi degni di nota includono la jihad afgana della CIA, l’esperimento di Israele con Hamas, quello del Pakistan con i gruppi jihadisti, e quello dell’India con gli estremisti sikh). Per gli strateghi statunitensi lo sfruttamento del conflitto settario è una tentazione a cui è duro resistere: Al-Qaida e parte della comunità sunnita in Iraq e Libano vedono l’Iran e gli Hezbollah come una minaccia persino più grande di un’occupazione Usa. Costoro darebbero il benvenuto ad un attacco statunitense all’Iran, forse persino all’uso in esso di armi nucleari, e potrebbero spingersi a provocare degli scontri per incoraggiare gli Usa a farlo.
Sesto. Gli Usa non devono dare il loro sostegno a dittatori e intrallazzatori come il generale Musharraf e Hosni Mubarak nel mentre predicano le virtù della democrazia. Questo genera rabbia e risentimento, ed è particolarmente pericoloso perché l’ipocrisia degli Usa è in tali faccende del tutto trasparente.
Settimo. L’Occidente deve afferrare ogni opportunità che lo presenti come generoso, anziché come aggressivo. Provvedere aiuto alle vittime di catastrofi (come per lo Tsunami nel 2004, e per il terremoto in Kashmir nel 2005) ha fatto molto per costruire un’immagine positiva. Questo “potere soffice” è un dato critico. Prosciugare le paludi in cui l’estremismo si alimenta richiede aiuto esterno ai paesi musulmani poveri, il creare opportunità economiche e di lavoro là, e smetterla con le politiche che privilegiano le già privilegiate elite di queste società.
Ottavo. Gli Usa devono accettare la legittimità del Tribunale Penale Internazionale. Abu Ghraib e Guantanamo sono diventati simboli mondiali di arbitrio e tortura. Essi dimostrano che, nel trattare con i sospetti “terroristi”, gli Usa hanno sospeso il primato della legge. Nel fare questo, non si mostrano granché migliore dei veri militanti che cercano di combattere. Ne’ gli Usa dovrebbero appaltare l’uso della tortura a regimi repressivi quali sono quelli di Pakistan, Siria ed Egitto. Anche questo non può che tornare indietro. Per trattare con sospetti di terrorismo sono necessari meccanismi giudiziari basati su principi difendibili, non si può andare per espedienti.
Nono. Si deve impedire a soldati e ufficiali di dissacrare i simboli islamici. Numerosi incidenti di questo tipo hanno avuto luogo: l’esempio classico è il Corano gettato nella latrina a Guantanamo. Per fortuna l’esercito statunitense ha riconosciuto che questo è estremamente pericoloso, visto il carburante che fornisce agli estremisti.
Decimo, e finale. La discriminazione contro i musulmani che vivono nelle società occidentali è non solo moralmente sbagliata, ma un aperto invito alla radicalizzazione. Una società laica non deve avere preferenze tra le varie religioni. Ogni atto che venga percepito come una deviazione da questo principio è sufficiente per convincere un gruppo minoritario di essere oggetto di persecuzione. (In effetti, la paranoia è ben visibile nella comunità musulmana statunitense). L’istruzione, in occidente, deve pertanto essere laica in spirito e nei fatti, e tutte le scuole devono essere aperte a tutte le religioni. In altre parole, non si possono permettere scuole religiose. Purtroppo non ci sono grandi possibilità che ciò accada negli Usa al momento, dato che i suoi politici sono diventati sempre più prigionieri dei cristiani “rinati”, i quali vedono il mondo solo attraverso il prisma della Bibbia. Anche la Gran Bretagna avrebbe bisogno di laicizzarsi, magari sul modello francese. Il multiculturalismo inglese non sta funzionando. Come la Turchia, dovrebbero bandire il velo dagli uffici pubblici.
E cosa dovrebbero fare i musulmani? C’è poca giustizia da scovare, nella Storia. Ad ogni modo, qualche volta la nemesi fa ostinatamente capolino dal passato. Gli stati musulmani che hanno predicato l’agenda islamista oggi sono ostaggi delle forze che hanno contribuito a creare. Il Pakistan è il primo esempio. Venticinque anni or sono, sotto un regime militare, le preghiere negli uffici governativi erano obbligatorie, si puniva coloro che non digiunavano durante il Ramadan, si incoraggiavano le barbe, le selezioni per le cariche accademiche avevano come requisito la conoscenza degli insegnamenti islamici da parte dei candidati, e la jihad veniva insegnata sui libri di scuola. Ma lo stesso esercito, gli stessi uomini reclutati sotto la bandiera della jihad, e che vedevano se stessi come il braccio combattente dell’Islam oggi sono accusati di tradimento e sono i quasi quotidiani bersagli degli attentatori suicidi. Dal 2001, questo esercito ha perso più di 1.000 uomini combattendo contro Al-Qaida e i talebani. Gli slogan una volta comuni nei centri di reclutamento dell’esercito (tipo: Jihad per Allah) oggi sono nel cestino dell’immondizia, e gli ufficiali barbuti non avanzano di grado. L’ascesa della militanza islamista in Pakistan deve molto alla codarda deferenza dei leader politici pakistani verso i ricatti dei mullah. Il loro responso istintivo era cercare un accomodamento. Zulfikar Ali Bhutto diventò islamista nei suoi ultimi giorni, mentre compiva un disperato ma fallimentare tentativo di salvare il proprio governo, bandendo l’alcool, dichiarando il venerdì giorno festivo e gli Ahmadi dei non-musulmani. Benazir Bhutto, temendo le ritorsioni dei mullah, durante il proprio premierato non fece neppure il tentativo di cambiare la orripilante legge “hudood” contro le donne o le leggi sulla blasfemia. E Mian Nawaz Sharif andò un passo oltre, tentando di far diventare il Pakistan un’Arabia Saudita e stabilendo la “sharia”, o legge islamica.
In Bangladesh, Jamaat-i-Islami e Islamic Oikya Jote sono stati partner di coalizione del Partito nazionalista del Bangladesh, il partito dell’ex prima ministra Khaleda Zia. Durante il terzo mandato di Khaleda Zia ci fu un’escalation negli attacchi agli Ahmadi e agli hindu, un bando sulle pubblicazioni ahmadi, ed una crescita generale della militanza religiosa. Durante il suo periodo al potere, Khaleda Zia usò i suoi alleati fondamentalisti come armi contro Sheikh Hasina Wajed, acerrimo rivale politico e personale. Entrambi si accusavano reciprocamente di incoraggiare il terrorismo, nel mentre rifiutavano di prendere atto delle proprie responsabilità. In tutto questo, Jamaat è stato il gruppo vincitore, essendo riuscito a controllare migliaia di madrassa, dando un significativo impulso all’addestramento dei combattenti jihadisti che portando avanti “la causa” in tutto il mondo.
Ma biasimare singoli stati e leader politici non equivale ad avere una spiegazione soddisfacente per l’enorme crescita globale della militanza islamista. Bisogna cercare le ragioni a livello più ampio. E’ una triste verità che al giorno d’oggi i musulmani sono scarsamente presenti nel mondo degli affari, nelle scienze e nella cultura. Questo ha causato una diminuzione nell’autostima, ed un crescente ricorso all’Islam politico. Alcuni sognano un nuovo califfato globale. Ma le premesse di questa politica sono false. Ad ogni colpo inflitto dagli Usa dopo l’undici settembre, gli islamisti hanno predetto che il dolore e l’umiliazione avrebbero finalmente forzato i musulmani a serrare i ranghi, a dimenticare i vecchi rancori, a espungere traditori e rinnegati dai loro ranghi, e a generare una furia collettiva grande abbastanza da prendere il potere. Ogni volta, hanno avuto dannatamente torto. Perciò, che devono fare i musulmani?
Un cambiamento di prospettiva è essenziale. I musulmani devono comprendere che la vera forza della civiltà occidentale (che pure ha permesso il suo imperialismo predatorio) deriva dall’accettazione delle premesse della scienza e della logica, dal rispetto delle istituzioni democratiche (almeno all’interno dei confini nazionali...), dal permettere ai sistemi di valori di evolversi, e dal poter mettere in questione i dogmi senza essere accusati di blasfemia. I musulmani devono connettere i successi dell’occidente alla libertà personale, al lavoro sull’etica, alla creatività scientifica ed artistica, all’impulso ad innovare e sperimentare. I musulmani, se non vogliono rimanere separati, devono anche sapersi adattare ad un clima culturale che accetta i diritti umani come definiti dalla Carta delle NU e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, inclusa l’eguaglianza fra uomini e donne. Da parte delle minoranze musulmane e degli immigrati nei paesi non musulmani, ciò significa accettare le differenze nelle norme comportamentali, e muoversi fuori dalla tendenza corrente alla ghettizzazione, verso una più grande integrazione in una società più vasta. Nel frattempo, i musulmani devono smettere di credere ad involute teorie di cospirazione per spiegare le condizioni di debolezza in cui possono trovarsi. Per esempio, è diffusamente creduto che le guerre settarie siano una conseguenza di qualche astuta manipolazione dei nemici dell’Islam: ma, in effetti, il primo cozzo tra sciiti e sunniti, con il primo relativo bagno di sangue, avvenne subito dopo la morte del Profeta Maometto.
I musulmani devono anche smettere di sognare teocrazie e sharia come soluzioni ai loro problemi. Ciò significa riconoscere la sovranità del popolo. E’ semplicemente impossibile reggere uno stato moderno se si rimane inchiodati a leggi religiose medievali. Lo sviluppo economico, l’espansione delle libertà individuali, la democrazia, una fioritura del pensiero scientifico e delle capacità tecnologiche: tutto questo, ed altri benefici, resteranno per sempre sogni senza una modernizzazione del modo di pensare. L’unico modo in cui le società musulmane possono diventare democratiche, pluraliste e libere da estremismi violenti è passando per le proprie lotte interne. Riforme indigene sono difficili ma possibili. L’Islam resta immutabile come il Corano, ma i valori propugnati dai musulmani sono già cambiati attraverso i secoli.
E il ruolo della sinistra? Ci siamo. Guardando al pianeta Terra dall’alto, uno vedrebbe un campo di battaglia insanguinato, dove potenza imperiale e fondamentalismo religioso combattono aspramente. Per chi dovremmo fare il tifo? Non ci può essere un giudizio univoco, ogni disputa dev’essere analizzata separatamente. E la risposta sembra pendere a sinistra dello spettro politico, sempre che noi si sia in grado di capire a cosa la sinistra crede oggi, e per cosa lotta. L’agenda della sinistra è generalmente positiva. Crede che la speranza di un mondo più felice e più umano abbia le sue radici nella ragione, nell’istruzione e nella giustizia economica. Provvede in questo momento una solida bussola morale ad un mondo privo di direzione. Uno può navigare distante dagli xenofobi statunitensi ed europei, che vedono l’Islam come un male da evitare o conquistare, e navigare distante anche da quel gran numero di musulmani nel mondo che giustificano atti di terrorismo e violenza come parti di una guerra asimmetrica.
Nessuna autorità “più alta” definisce l’agenda della sinistra, e nessuna congrega di credenti definisce un uomo o una donna di sinistra. Non ci sono documenti da mostrare, o giuramenti da fare. Ma la laicità, l’idea dei diritti umani, la libertà di credo sono tutte cose non negoziabili. Le dominazioni in nome della classe, della razza, dell’origine nazionale, del genere o dell’orientamento sessuale sono tutte egualmente inaccettabili. In termini pratici, ciò significa che la sinistra difende i lavoratori dai capitalisti, i contadini dai proprietari terrieri, i colonizzati dai colonizzatori, le minoranze religiose dalla persecuzione statali, gli spossessati dagli occupanti, le donne dall’oppressione maschile, i musulmani dagli occidentali islamofobi, le popolazioni dei paesi occidentali dai terroristi, e via dicendo.
La mobilitazione della sinistra è un bisogno urgente, in un periodo in cui gli estremisti di ambo le parti si sono mossi al centro della scena. Persino dopo la fine della presidenza Bush gli americani saranno propensi a continuare a bombardare musulmani. Pensano di poter vincere. Ma il loro potere, per quanto vasto, è limitato. L’Iraq ha già provato questo punto. Sull’altro versante, i gruppi islamisti continueranno con successo l’opera di reclutamento sino a che moltissimi musulmani sentiranno di essere trattati ingiustamente, e che la giustizia ha cessato di essere importante per gli affari del mondo. Gli Usa non possono vincere. Neppure gli islamisti possono. Sta alla sinistra portare un po’ di sanità mentale al mondo, alzandosi al di sopra dell’imperialismo, della xenofobia, del determinismo culturale, e riportando l’attenzione delle persone ai problemi reali.



Martedì, 30 ottobre 2007