Islam e donne
ALCUNI EFFETTI DELLA GUERRA MEDIATICA

di Irene Aaminah Ricotta

Un salto qua e là su internet, qualche lettera del direttore e un visitina alle edicole, ed è facile scontrarsi con l’ennesimo articolo sulla violenza perpetrata ai danni delle “donne musulmane” pieno zeppo di perifrasi iperboliche, che convincono gli inesperti lettori medi che ci siano giornalisti e politici preoccupati per le sorti della povera “donna musulmana” di turno, ancora un volta vittima di un “uomo musulmano” brutale ed estremamente maschilista.

Naturalmente l’accostamento dell’aggettivo musulmano è d’obbligo per marcare di patina religiosa l’accaduto.

Ciò che colpisce è che se gli stessi atti vengono compiuti da un cristiano praticante o da un altrettanto praticante ebreo, induista o di qualsiasi altra religione, la cosa assume i connotati reali di condanna della violenza, senza calcarne il lato religioso, questo procedimento dovrebbe essere la prassi, ma verso i musulmani non lo è. Un violento è un violento, un malato mentale è un malato mentale, che certe azioni abbiano a che fare con la religione islamica è tutto da dimostrare.

Ad esempio, in “Donna Moderna” dell’ 8 Agosto 2007, spicca un articolo dedicato a Suoad Sbai, membro della “Consulta Islamica” già presidentessa di un’Associazione di Donne Marocchine e si dice nell’articolo, prossima fondatrice di una nuova Associazione “Contro le violenze e gli abusi domestici ai danni delle donne arabo-musulmane”, iniziativa molto lodevole se non fosse per i toni con cui è presentata.

(Tengo a precisare che qui non si critica l’iniziativa in quanto tale, ma il linguaggio propagandistico e superficiale, emblematico di una volontà di denigrare la religione e non di condannare il fatto e la persona singola che lo commette).

Infatti, la Sbai mentre da un lato esprime un pensiero condivisibile se si fanno le dovute precisazioni, dall’altro si limita ad analisi superficiali e per questo fuorvianti, come è evidente nella risposta alla domanda:

“Ma allora tutto peggiora quando le vostre donne arrivano in Italia?”



in cui dichiara, che sì, la situazione peggiora quando le donne arrivano in Italia perché “inseguono un sogno che va in frantumi. Sono sole senza il padre o i fratelli che le difendano. Non conoscono la lingua e non riescono a chiedere aiuto, così gli uomini se ne approfittano. Le picchiano e abusano di loro. Il fenomeno è in crescita”.

A ciò premette l’affermazione che la legislazione italiana in tema di violenza sembra ancora meno avanzata di quella del Marocco, omettendo però di specificare che a tale legislazione marocchina hanno contribuito anche donne musulmane con velo, studiose di Shari’a, con l’aiuto di alcuni sapienti marocchini.

Penso sia vero però che il fenomeno della violenza coniugale si inasprisca in Italia, ma non solo per mancanza di padre e fratelli, che poi sarebbero mariti loro stessi e non si capisce bene perchè sarebbero tanto diversi dai loro cognati connazionali… E’ necessario comprendere le dinamiche del fenomeno in maniera più profonda. Non dice, ad esempio due cose importanti: la prima è che spesso quei mariti sono venuti in Italia tanti anni prima e hanno perso tanto della pratica islamica, sono ignoranti della teologia musulmana, molti di quelle che commettono atti violenti sono persone che indulgono nel bere, il che dovrebbe spostare l’attenzione dall’aggettivo musulmano a quello di alcolizzato, ma non si fa perché risulterebbe incompatibile ai fini della creazione del mostro incivile da combattere. Anche chi sa pochissimo dell’Islâm conosce che è proibito l’alcool e usare ogni sorta di sostanza inebriante, ciò che pone tale individuo violento al di fuori della casistica dei frequentatori delle moschee.

Secondo, si tace il fatto che sono tanti i responsabili di centri culturali islamici e gli A’immah ( plurale di imâm) che spendono il loro tempo nel consigliare le famiglie sul buon comportamento da avere nei confronti delle loro mogli in particolare e delle donne in generale.

D’altra parte è il nostro Amato Profeta (pbsl) che disse:

“ Certamente un gran numero di donne sono venute presso la mia famiglia lamentandosi dei propri mariti; gli uomini che maltrattano le loro mogli non si comportano bene. Non è dei miei chi spinge una donna a smarrirsi.”

Un altro detto afferma: “ Allah gioisce che voi trattiate bene le donne perché sono le vostre madri, figlie, zie…”

Su questa frase e altre simili si fondano le basi della legislazione islamica che dovrebbe difendere i diritti delle donne sotto ogni aspetto, l’attuazione di questi diritti non è completa soprattutto in certi Paesi, ma molti sono i musulmani e le musulmane che si impegnano quotidianamente affinché tale legislazione venga realmente applicata.



La Sbai, come è comune ai suoi frequentatori e più illustri ispiratori (vedi Magdi Allam, Daniela Santachè!) associa sovente i termini di violenza, abuso e sottomissione al termine “velo”, infatti anche in questa intervista vuole fare apparire le donne non velate come quelle che sono emancipate, studiose, consapevoli di sé, realizzate.



La questione del velo, un “pezzo di stoffa” che le donne indossano come elemento della loro religiosità, oggi sta perdendo agli occhi del mondo il suo reale valore, a scapito di interpretazioni arbitrarie compiute sia da chi costringe con la forza ad indossarlo, (ma io ho un esperienza del tutto distante da quella della Sbai, perché conosco qualche centinaio di donne tra cui adolescenti e nessuna è stata costretta a portare il velo, anzi ne sono tutte molto orgogliose), quanto da coloro che strumentalizzano la questione in termini di violenza o di arretratezza.

Un “pezzo di stoffa” che diviene una vexata quaestio ogni qualvolta si discuta della religione islamica.

Infatti alla domanda:

Ma in questo scenario non facile cosa rappresenta il velo?

La Sbai risponde:

“Sono pochissime quelle che portano il velo con convinzione e a loro va tutto il rispetto. La maggioranza, però, è costretta a portarlo perché sono i mariti a imporlo: non vogliono che si mostrino in pubblico, che entrino in contatto con la civiltà occidentale. Le nascondono perché non si allontanino e non si ribellino, tanto è vero che quando le mogli si convincono a denunciare i soprusi, poi si tolgono tutte il velo. Significa che non lo mettevano per scelta ma perché costrette.”

Lei lo ha mai portato?

“No. Per fortuna vengo da una famiglia aperta, non ho mai dovuto farlo.”



La cosa che mi stupisce più di tutte è la capacità di lettura del pensiero che costei e i giornalisti con lei sono in grado di operare a 360°!

Magari, invece, le donne dopo avere perso il supporto economico del marito, conseguenza di una separazione, per poter lavorare sono costrette a togliere il velo, come tante altre musulmane sono obbligate a farlo, per poter ottenere la casa al comune come Malika, perché o lavora o muore di fame come Mighena, biologa albanese, per poter fare le pulizie come Aaminah sudanese, o per poter vincere la causa contro l’ex-marito “italiano” che la violentava come Nadia italiana convertita, che adesso è felicemente sposata con un tunisino praticante…

Il binomio velo-chiusura è gravido di conseguenze negative, ma per la Sbai e la Santanchè tutto ciò non importa, devono portare avanti la loro crociata!

Ma Suad Sbai, ha mai pensato che io e le mie consorelle imbarcate in mille difficoltà per trovare lavoro a causa della nostra scelta consapevole del velo, potremmo avvertire la sua campagna contro il velo con la complicità dei giornalisti, come una violenza?



La violenza è solo quella fisica o anche quella psicologica messa in atto da campagne mediatiche entrate in perfetta osmosi con delle istituzioni sempre più razziste che si arroccano su posizioni virtuali da “ scontro di civiltà”?



La frase “in contatto con la civiltà occidentale” è sottolineata perché possa sembrare vera o logica, opinione di una donna araba perfettamente integrata!

La logica soggiacente a questo giornalismo e a persone come la Sbai e Allam, accaniti sostenitori della “superiorità occidentale”, è una logica infantile improntata allo slogan “diverso è contrapposto”, una logica estremamente pericolosa perché riduttiva nei confronti di problematiche molto serie e molto gravi come la violenza sulle donne e perché compromette seriamente la possibilità di dialogo e di convivenza interculturale, che già di per sé presenta non poche difficoltà. La percezione “dell’altro come nemico da combattere” veicolata dai mass-media, coadiuvati da questa generazione di “musulmani cosiddetti laici” che per il fatto che avere origini musulmane sono particolarmente efficaci alfine di dette strumentalizzazioni, compromette non poco il rapporto tra cittadini di culture diverse.

Non è cosa da niente, perché da “bisogna liberare le donne dal velo simbolo di oppressione e di violenza” a “bisogna liberare quei popoli dall’Islâm, religione arretrata e dittatoriale” il passo è più breve di quanto non si pensi, anche perché i mezzi di comunicazione sono il “quarto potere” che muove le masse o le addormenta per permettere “agli altri poteri” di agire indisturbati.

La violenza allora non è più un azione deplorevole oggetto di condanna tout court come dovrebbe essere, ma diventa strumento di propagazione di idee razziste e discriminatorie che vanno a colpire in particolare la comunità islamica in Italia e non solo. Tale ipotesi è suffragata dal fatto che a questi “cosiddetti laici” sfuggono per esempio dati importanti come i rapporti di Amnesty International che riportano che Paesi in cui l’emancipazione femminile è ai primi posti come Stati Uniti e Svezia, siano anche ai primi posti nelle classifiche per la violenza sulle donne, o ignorano come in Austria e in Inghilterra circa il 60% dei divorzi sia dovuto a violenza domestica e non da parte di musulmani.

Non si parla del fatto che in Cina da anni sia in atto una politica di riduzione delle nascite, soprattutto verso le bambine, tant’è vero che attualmente ci sono 30 milioni di uomini in più delle donne e questa tendenza sembra in crescita, e non si parla di come le loro politiche spesso vadano in direzione maschilista.

Non si parla del rito della “sati” il sacrificio sacro delle vedove bruciate vive con il marito, la cui prima abolizione del 1684 si deve ad un sultano musulmano, ma chissà perché tutti ricordano il 1829 quando in India dominava l’Inghilterra, e che nonostante diverse legislazioni questo macabro rituale sopravviva talvolta nel costume indiano.

Si tace sul fatto che per trovare lavoro oggi in Italia per una donna sia condizione indispensabile bella presenza, forme in vista e talvolta disponibilità sessuale nei confronti dei dirigenti di sesso maschile…

Si finge di ignorare che coloro che bandiscono le guerre in Afghanistân non hanno liberato le donne dal burqa, ma in compenso le hanno liberate da mariti e figli uccidendoli (non è forse violenza?) e che quelle stesse persone sono i fautori della guerra del petrolio, una guerra che mira al riassetto geopolitico del medio-oriente che, casualmente, in massima parte è musulmano.

Si ignorano iniziative come quelle delle donne dello “European Forum of Muslim Woman” a sostegno di campagne contro la violenza domestica, Forum che raccoglie associazioni femminili in tutta Europa improntate ad un nuovo femminismo islamico, che si batte per l’applicazione dei principi di rispetto e di uguaglianza che si trovano nel Corano e nella Sunnah, e collabora con altre associazioni femminili religiose e non, per il rispetto della donna nei posti di lavoro e che lavorano per una pace vera e un dialogo interculturale.

La maggior parte di queste donne porta il velo, sono donne intellettuali, laureate, docenti universitarie, medici, architetti, donne che lottano per affermare la loro professionalità ed hanno bisogno di lottare proprio perché quel velo, grazie anche a megafoni come la Sbai e Allam, è divenuto uno strumento di discriminazione.

Donne invisibili non a causa del velo, ma delle campagne a sostegno della tesi dello scontro di civiltà, che vedono nella figura della donna musulmana devota il bersaglio privilegiato.

Donne doppiamente invisibili perché del tutto ignorate dalla “cosiddetta informazione”, quella vera.



Qui, ripeto, naturalmente non si vuole negare una realtà drammatica come la violenza o ancora la frequente mancanza di visibilità delle donne in molte società a maggioranza islamica, ma si vuole sottolineare il fatto che certi fenomeni non possono essere analizzati con superficialità e che l’arretratezza e certe forme di violenza sono un fatto relativamente recente nelle società islamiche, poiché in passato le donne musulmane sono state abili mercanti, colte committenti, ricche mecenati consigliere in qualità di mogli di principi e sultani; al punto che riferiscono studiosi del medioevo e dell’Impero Ottomano apparivano pericolosamente libere e piene di potere ai contemporanei cristiani.

E non bisogna dimenticare figure come le mogli del Profeta (pbsl), ‘Aishah, colei che ha trasmesso circa un terzo dei detti del marito Profeta (pbsl), Hafsa, la custode fidata del Corano, Khadija la prima musulmana colei che sostenne il marito in amicizia e amore, il grande amore del nostro Profeta (pbsl), Umm Salama, la consigliera diplomatica. Zaynab colei che gli starà accanto perché col suo lavoro si prodigava in elemosine.

Ma parliamo di colei che alla sua epoca veniva consultata dai grandi sapienti per la sua saggezza e per le sue qualità spirituali Rabia’ al-Adawyyah.

Parliamo della figura della regina Shaharazad, regina delle “Mille e una notte”, colei che con la sua saggezza salvò il regno di Harun ar-Rashid e discusse con i fuqaha ( giuresperiti); figura letteraria è vero, ma che condensa in se tutto il valore che la donna rivestiva anche a livello popolare.

Parliamo dei capitoli dedicati alle donne da parte di Al-Ghazali e di Ibn Rushd (Averroè) o di Ibn °Arabi, capitoli in cui si cerca di spiegare in che modo noi donne siamo “la parte mancante”, in arabo l’hadith dice “An-nisa’ shaqâ’iq ur-rijâl” che implica che in principio ci fosse una sola nafs che è stata poi divisa, come spiega questo versetto del Corano: An-Nisa’ IV:v.1: “ O uomini temete il vostro Signore che vi ha creato da un solo essere e da esso ha creato la sua sposa e da loro ha tratto molti uomini e donne.”

L’attuale situazione è il risultato di condizioni storiche, politiche, economiche e sociali che stagnano da secoli e che stentano ad avanzare a causa di regimi dittatoriali e repressivi che non si preoccupano del bene dei cittadini. Bisogna considerare poi che il substrato tribale di certe culture nord-africane e medio-orientali è molto più forte dell’Islâm ed è molto difficile da modificare come sanno bene gli ‘ulema’.

D’altra parte “l’estrema diversità che caratterizza i paesi dell’Islâm è il risultato di una presa di potere ampia, progressiva e duratura su popoli, la cui cultura antica, l’islamizzazione mai immediata e ancora oggi incompleta, non è riuscita a spegnere, semplicemente perché i musulmani non hanno tentato di farlo.”

Ma allora quali sono le soluzioni da proporre per contenere da un lato la violenza che promana da uomini tributari di una cultura tribale maschilista, o influenzati da una psiche disturbata, (i problemi psicologici e psichiatri legati all’immigrazione sono oggetto di una recente disciplina definita “etnopsichiatria” perché esistono tutta una serie di patologie e di sindromi più o meno gravi legate al mutamento radicale di tradizioni e abitudini ) o che sono preda di alcool o droghe?

Tali problemi non appartengono ad una cultura in particolare e non sono assolutamente riconducibili all’appartenenza religiosa, concordo con Souad Sbai, un inasprimento delle pene può essere un buon deterrente, ma di certo questo provvedimento, non può essere efficace da solo.

Per quel che riguarda noi musulmani mi sento di aderire perfettamente al suggerimento di Tariq Ramadan nel suo articolo Le souffle féminin pubblicato su questo stesso sito, quando dice: “Bisogna dire che il processo di riforma che ci è richiesto non può essere “affare” di sole donne. Non si tratta di intraprendere una liberazione sul modello del conflitto uomo-donna, come è stato vissuto praticamente in tutte le società industrializzate. Ciò che bisogna promuovere oggi è una vera e propria mobilitazione degli uomini e delle donne, non gli uni contro le altre, ma insieme e in nome dei principi fondamentali dell’Islâm, e questo per lottare contro le discriminazioni esistenti, le consuetudini falsamente islamiche e gli alibi culturali.

Se il discorso sull’essere e sulla spiritualità è fondamentale, deve essere però accompagnato da un lavoro consecutivo di educazione e di formazione sui principi islamici, per le donne come per gli uomini.”

Cioè bisogna lavorare veramente come le due metà distinte ma complementari della realtà sociale e spirituale che come musulmani siamo chiamati a rappresentare per essere veramente, in quanto seguaci del nostro Profeta (pbsl) “misericordia per l’universo”.



Non bisogna più dare ai nostri detrattori l’occasione per utilizzare episodi come la violenza per fare delle generalizzazioni balorde sulla religione islamica, per portare avanti politiche neo-imperialiste con il consenso delle masse.

Bisogna evidenziare quegli esempi positivi di donne e uomini musulmani che lavorano per costruire delle società migliori dovunque essi si trovino, cercando si mantenere salde le qualità tipiche del buon musulmano come onestà, pazienza, gioia di vivere, amore per il prossimo accoglienza e generosità.

Corano Suratu’l-Khujurât, XLIX, v.13: “ O Genti vi abbiamo creato da una maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché vi conosceste a vicenda. Presso Allah il più nobile di voi è il più timorato.”

Vorrei concludere con l’augurio che gli sforzi che facciamo ogni giorno per l’educazione dei nostri figli e nipoti, dei nostri giovani riescano a creare una nuova generazione di musulmani più spiritualmente e intellettualmente consapevoli del grande patrimonio che è la nostra religione, evitando di commettere i nostri errori e le nostre debolezze, d’altra parte è questa la mia idea di progresso, non qualcosa di legato alle tecnologie o alle vere o presunte libertà che ci allontanano dalla nostra natura originaria, ma un progresso dello spirito che si ponga in maniera criticamente costruttiva nei confronti del passato e del presente per non commettere più certi sbagli e crescere come comunità religiosa e umana.


Irene Aaminah Ricotta



Lunedì, 03 settembre 2007