Recensione
TUTUCH (Uccello tuono)

di Rita Melillo, ed. Mephite 2004, pp: 256, € 16,00


di Rosalia Peluso, Università Federico II di Napoli

Nel 1927, mentre Heidegger dà alle stampe il suo opus magnum e fornisce pubblicamente il suo intendimento di fenomenologia, si consuma in contemporanea la definitiva scissione da Husserl. Appena nel 1923 Husserl era indicato da Heidegger come colui che gli aveva aperto gli occhi, lo aveva destato dal “sonno dommatico” e l’aveva posto faccia a faccia con i fenomeni, quindi con le cose, quindi con la realtà. Per chi ha avuto il privilegio anagrafico di leggere à rebours la produzione heideggeriana antecedente a Essere e tempo sa che la separazione dal maestro si preparava ormai da lunga data. Nei corsi universitari precedenti Heidegger era risolutamente giunto a servirsi della fenomenologia come di un metodo, di certo il più filosofico, eppure, come ogni metodo, destinato a scomparire dopo aver assolto al suo compito, l’aver cioè assicurato l’accesso alle cose. Il motivo del distacco intellettuale tra Husserl e Heidegger risiede in tale riduzione metodologica della fenomenologia che, com’è noto, Husserl non ha mai condiviso e sempre osteggiato. Eppure la fenomenologia, esattamente come metodo, ha trovato ampia applicazione nell’ambito delle scienze umane, offrendo da parte sua e di volta in volta ad una scienza particolare la possibilità di accedere alla sua cosa.

Il nuovo libro di Rita Melillo (Tutuch. Uccello tuono, Mephite, Atripalda, 2004, con presentazione di Domenico Conci) si inscrive all’interno di questo sentiero fenomenologico e fa luce su un mondo, quello degli Aborigeni del Canada, nel quale, senza gli strumenti metodologici appropriati, non si sarebbe mai potuto accedere. Mi spiego meglio. L’autrice, consapevole della distanza culturale dal suo “oggetto” di indagine e sperimentando l’ostilità di tali popolazioni nei confronti dell’invadente – per non dir peggio – Uomo Bianco, ha trovato nell’epochè fenomenologica lo strumento più adatto per “sospendere” la sua identità di donna, bianca, ricercatrice, europea e si potrebbero aggiungere numerosi altri attributi che cito solo per sottolineare i modi con cui gli Aborigeni l’hanno identificata prima di aprirsi a lei.

Rita Melillo ha organizzato un questionario e l’ha proposto ad alcuni membri delle tante comunità canadesi allo scopo di fornire una trama unitaria del complesso universo aborigeno. Interessante è, accanto all’interpretazione che l’autrice svolge nella prima parte del testo, seguire la viva voce degli intervistati nelle singole conversazioni proposte in appendice. Ne vien fuori un mondo tutt’altro che riduttivo quantunque ostinato a preservare le labili tracce di un’identità che la parte prevaricatrice della storia tende a cancellare definitivamente. Ancor più interessante per chi si occupa di “cose filosofiche” sono l’introduzione dell’autrice e la domanda che sorregge lo studio antropologico, ossia “esiste una filosofia presso quelle popolazioni?”. I due momenti del discorso non vanno disgiunti. Nell’introduzione difatti sono esposte ed argomentate le ragioni per la scelta della fenomenologia, è dunque fornito il retroterra interpretativo dell’indagine. La questione filosofica che sorregge il lavoro (esiste una filosofia aborigena) affiora dalla provenienza dell’autrice dalla scuola di Raffaello Franchini. Credo che la tenacia con cui Rita Melillo porti avanti la sua ricerca, superando anche difficoltà non marginali, come ad esempio l’impossibilità per molti dei suoi interlocutori ad intendere non soltanto che cosa sia la filosofia ma addirittura il significato della parola, sia il tacito omaggio all’antico maestro, al suo fiero progetto per un’universalità del pensiero che lo ha condotto a riconoscere nel diritto alla filosofia il primo fondamentale diritto umano, il diritto di pensare. Ciò naturalmente senza l’enfasi dell’utopia giacché, seppur già Kant avesse ammonito che al diritto di pensare non fa da pendant il diritto a non pensare, che è poi il diritto alla stupidità, l’esperienza storica ci pone continuamente dinanzi al fenomeno del non-pensiero, che può essere stupidità nella migliore delle ipotesi, in quella peggiore tragedia, persecuzione, malvagità. L’autodifesa del reclamare per sé la stupidità o il male come diritto, spacciandolo, come sempre più avviene nei tribunali, con l’obbedienza ad un ordine che


nessuno ammetterà di aver mai dato, è un principio viziato sin dall’inizio. La rinunzia al diritto del pensiero non è un diritto.

La persistenza di questo slancio universalistico per la filosofia mitiga le asprezze della “fenomenologia radicale” la quale, spinta dalla volontà di sospendere tutto, si trova sempre dinanzi quell’irriducibile che già Husserl segnalava come coscienza e che potremmo rinominare in molti modi: fatto sta che si tratta di un’identità cui non possiamo rinunziare, pena l’autodissolvimento. Che qualcosa permanga nella forma della percezione del sé è attestato da un lato dalla consapevolezza dell’invadenza della cultura occidentale, dall’altro dall’innegabile persistenza della più occidentale dell’attività: la filosofia. Demolire il logos, a partire da quello greco, che inficerebbe ogni svolgimento di pensiero perché costringerebbe ad una separazione nell’ordine dei fenomeni (la distinzione soggetto-oggetto) è un progettato che va calibrato sul logos di cui si parla, che non è soltanto l’abominevole dominio della strumentalità, della calcolabilità, dell’oggettivazione dell’esistente, ma è principalmente voce, forma, veicolo all’esterno per un innominabile che altrimenti resterebbe innominato. È un’armonia di opposti prima che principio di colonizzazione e dominazione. Rinunciare a tutto il logos porterebbe difatti alla tragica conseguenza di una rinunzia alla filosofia, che, abbiamo argomentato prima, si concilia perfettamente con una forma di rinunzia all’umanità.

Fatte salve queste premesse, risulta marginale la risposta alla domanda “esiste una filosofia aborigena?”. Ciò che Rita Melillo fa emergere sottoponendo la questione ai suoi interlocutori è il riconoscimento di quel fondamentale diritto umano di cui si è parlato sopra: riconoscere l’altro e rispettarlo – trovarsi dinanzi una differenza ed averne coscienza – e attribuirgli quello statuto che è fin troppo facile riconoscere solo per sé: l’essere identità e individualità. È sulla base di questo riconoscimento che la filosofia, in quanto attività, diviene pratica e la pratica filosofica si inserisce nel progetto di una riscrittura dell’identità che può accogliere, senza ricacciarlo sempre all’esterno, quell’ospite indesiderato e inquietante cui diamo il nome di “altro”.

Napoli 4/02/2005

Rosalia Peluso Università Federico II di Napoli



Mercoledì, 09 aprile 2008