La posta di fra’ Calvino
L’Istituzione «chiesa», un «cimitero di aristocrazie»?

di fra’ Calvino


Cari fratelli e sorelle nel Signore, a voi tutti pace e bene!

Ed eccomi qua a tentare di dare risposta al proposito di fare chiarezza concettuale tra “ecclesìa” da un lato, ed istituzione/sistema, dall’altro. Mi servirò in questo di studi pregressi non solo miei.

Democrazia come cimitero di aristocrazie

Quando decenni fa ragionavo sul concetto di democrazia, mi imbattei in un paio di frasi chiave: Wilfredo Pareto mi ammaliava con la sua concezione di “democrazia come cimitero di aristocrazie”. Con realismo egli induceva a distinguere tra democrazia nella “polis” e democrazia nello stato “occidentale moderno” ma con una precisazione d’obbligo e cioè che la democrazia qui ipotizzata differiva totalmente dalla democrazia della “polis”, reale esperienza della “città stato” nella Grecia classica. Ivi funzionò brevissimamente il vero governo di popolo come “democrazia dal vivo” che scaturiva dalle decisioni del popolo riunito nell’areopago della civitas. E qui non posso tacere la nostalgia per quella “cosa” che, nella mente dei Padri come “civitas Dei”, dovette essere la “ecclesìa” dei primi secoli. Qui veramente “regna sovrana” la libertà dei figli di Dio, anzi “figli adottivi di Dio”(come predilige il biblista p. Alberto Maggi) e cioè figli scelti, siccome selezionati ad ereditare il Regno.
La democrazia pensata da Pareto era invece concetto da elaborare per dare sostegno teoretico alla democrazia nello stato moderno e di tipo occidentale.

La democrazia secondo Pareto
Essa è la “forma” che può assumere nello stato moderno il governo della cosa pubblica. Lo stato è la personificazione astratta, universale; è l’Istituzione, cioè il substrato, il pilastro fondante, il potere, l’autorità sovrana. In effetti nelle nostre menti sagomate (plagiate) siamo capaci di pensare la democrazia solo se la colleghiamo alla imprescindibile Istituzione. E perciò la democrazia è secondo Pareto una forma vuota perché in sé insussistente: la democrazia è un vorticoso fluire di compromesso tra la volontà della maggioranza e una sua rappresentanza configurata come “elite” di potere, un piccolo gruppo “governante” una massa di “governati” in nome del popolo ma per conto della Istituzione. In tal modo l’assolutismo, il vecchio impero cacciato dalla porta della Rivoluzione francese, rientra dalla finestra della restaurazione: la volontà popolare, per esprimersi, non può prescindere dal concentrare potere nelle mani di una minoranza, cioè una “aristocrazia” o plutocrazia.
La democrazia moderna si esprime, dunque, attraverso un susseguirsi “mortifero” di minoranze aristocratiche e quindi, un “cimitero di aristocrazie”.

La mediazione di Karl Popper
C’è voluto il contributo di pensiero di Karl Popper per mitigare la rudezza della maggioranza “pappona” e “piglia tutto” che si fa elite arrogante: la prepotenza della maggioranza deve dare voce e spazio alle minoranze dissenzienti. Perciò la democrazia matura è quella in cui è possibile dare voce e spazio ai “diversi” e, dunque, al diverso orientamento delle minoranze: ciò avviene quando la maggioranza, secondo la felice espressione di K. Popper, si apre al “consenso verso il dissenso”.

Concetti applicabili alla chiesa?
In questi tempi che io avverto “tragici” per questa “infelice” chiesa ammantata di Istituzione, tutta protesa ad una disperante “conservazione” di sé e dei suoi più alti prelati, vorrei poter gridare qualche spunto onde veder tornare, tutti in un cuor solo, ad affermare che solo nel nome del Signore è “il Regno, la potenza e la gloria”.
La chiesa come “agàpe e comunione” perfetta voluta da Gesù dovrebbe, in quanto tale, poter fare a meno della componente istituzionale: lo era alla “fondazione”; tornerà ad esserlo sicuramente con la “parusia” del Signore. Ma qui ed ora, viviamo in un contesto storico culturale in cui le società umane non sanno prescindere dal “pilastro fondante” della istituzione e “mammona” domina nella chiesa ove si “contrabbanda” l’opzione dei poveri con favori e alleanze con i poteri di questo mondo: nella chiesa comunità, salvo alcuni periodi di “grazia profetica”, contrassegnati di solito da “tribolazioni” (le sofferenze di Giovanni 23, le tensioni interne al Concilio, i torturanti dilemmi di Paolo 6, la strana morte di Giovanni Paolo 1, l’isolamento odierno del card. Martini, l’emarginazione di taluni vescovi pensanti), l’istituzione prevale e tende ad ingabbiare lo Spirito. La vorremmo pura, libera, spirituale la nostra chiesa! Ma la realtà è diversa e non possiamo fermarci al sogno!
C’è un piccolo appunto: siamo partiti dal concetto di democrazia ma ora ci accorgiamo che essa non è elemento nella “teocratica” istituzione ecclesiale, quella istituzione che deriva la propria “sovranità” da diretta “investitura divina”. Pertanto, esclusa la democrazia, della concezione paretiana si salva, per la chiesa e nella chiesa, il mero “cimitero di aristocrazie”: così potremmo, verosimilmente, pensare questa chiesa “un cimitero aristocratico di sepolcri imbiancati in successione”.
Per inciso, non possiamo non ricordare che per secoli il papato ha rivendicato, anche con le guerre, il diritto di concedere o revocare “investitura” ai sovrani di questo mondo, sostenendosi, per circa 1500 anni, che “ogni potere viene da Dio” tramite il suo vicario in terra. E dunque nella istituzione-chiesa c’è una logica che, data la premessa investitura divina, è inattaccabile: chiunque entra in questa “societas teologicamente perfetta”, rimane ad essa vincolato per l’eternità e, attenzione, non come “civis” titolare di diritti, ma come “suddito” tenuto alla obbedienza totale e cieca. Qui non saremo mai in presenza di uno “stato di diritto” caratterizzato dal principio che ivi “sovrana è la legge”: al di sopra della legge resta il papa che è “absolutus”, nel significato proprio di “solutus ab”, “padrone impassibile e inaccessibile” sciolto da ogni e qualsiasi vincolo umano. In “extrema ratio” questa è la finalità dell’“ordinamento giuridico canonico”: l’obbedienza “alla legge”. L’ordinamento giuridico, per sua natura inflessibile, glaciale, non sopporta criteri “umani”, mediazioni che ne inficino o indeboliscano la efficienza.

L’Istituzione e i “preti sposati”
La cappa istituzionale sembra allentarsi quando, dovendo occuparsi di quanti partecipano alla gestione del potere, definisce la casta sacerdotale come “separata” dal popolo, dalla plebaglia laica: ecco emergere qui la classe eletta, stirpe santa, i chierici, il clero!
I partecipanti al “sacerdozio” sono stati rivestiti di privilegi (i benefici, ove si parte dalla “congrua” su, su fino ad arrivare alla “elemosina di s. Pietro”!) ma sotto il vincolo giuridico di una indefettibile, formale, fedeltà. Ed il ragionamento è inattaccabile: pacta sunt servanda, pena la caduta dell’ordinamento giuridico stesso, della istituzione. Se il prete si sposa, non solo questi si mette fuori dal patto, ma si rischia di vedere “fallire” l’intera organizzazione, poiché, a un ammorbidimento… “se ne andrebbero tutti”! Peccato che questo rigore logico-giuridico non si fa valere per tutta una serie di delitti che pure toccano il clero!
Avevo promesso di dire la mia sul tema “preti sposati” e non soggiungo acriticamente il “si, grazie!” ma confermo la mia ammirazione per quanti, per coerenza, per dignità rinunciano alle comodità che offrirebbe “una doppia vita”. Quelli che se ne vanno, sono senz’altro i migliori, i più credibili, i più cristiani!
Quello che, viceversa, discuterei è il loro “reintegro” poiché questo implica un “corto circuito”: da un lato tu contesti la disumanità della istituzione, dall’altro se interviene una sanatoria, tu agogni a tornare a fruire dei vantaggi della casta. E allora?
Questa una soluzione che ritengo onesta: si torni alle origini, al sacerdozio battesimale, si aboliscano i seminari spesso luogo di incubazione di aberrazioni, e quanti nella comunità cristiana, sposati o celibi cresciuti nella fede e nelle esperienze di umanità, vogliono mettersi a “servire” più integralmente, siano mandati al vescovo sentito il placet della comunità di origine. Tutto qua, senza eccezioni e senza remore.

Vostro, nel Signore Gesù,





Domenica, 06 gennaio 2008