Filosofia
Silloge

di maurizio musu

Ciò su cui occorre riflettere, forse più del dis-impegno “laico”, è il dis-impegno in generale, e della società politica in particolare, a confrontarsi sui temi della modernizzazione e dell’innovazione, non tanto dal punto di vista delle applicazioni tecnologiche, quanto dal punto di vista dei conflitti con credenze e interessi radicati.
Il vero confronto oggi non è fra “laico” e “cattolico”, ma fra la razionalità “cattolica” e “laica” e un melting pot culturale che tende sempre più a sfumare i confini tra “tecnologismo” ed “ecologismo”, fra spiritualismo new age e edonismo consumista. Il volto del Dio nascosto intriga i pensanti: la feri­ta ineludibile del dolore e della morte, la ricerca di sen­so spinge verso l’ultimo orizzonte. “Chi ha fede e anche chi s’interroga sul senso dell’ultimo orizzonte, difficilmente accetta, che la ragione sia ingabbiata in confini invalicabili”.
La ragione ebbra di sé, giovane nella scoperta della sua audacia come mai forse era stata prima dell’Illuminismo, non tollera confini. L’emancipa­zione diventa anche emancipa­zione da Dio. E questi - il Trascendente, l’Uno, - è ridotto al più, ad essere «il Signore del nulla».
C’è chi cerca allora fra «i paradisi del nulla», nei giardini della primavera di un Dio minore, fatto a misura della ragione che sa e sola può sape­re. In questo chiuso orizzonte tutto diventa troppo corto e troppo breve: la sete di totali­tà della ragione forte ispira la violenza dei totalitarismi e se­gna il loro, il suo tramonto.
Tutto diventa debole: l’«onto­logia del declino» è il canto flebile di un mondo senza fon­damento e senza patria. «Esse­re, nulla, amore» sono ormai equivalenti: nulla diviene ­- tutto è - la differenza scompare, la vita / la morte regna su tutte le cose. Ci troviamo dinanzi all’inevitabile caduta del mon­do.
È questo il nichilismo? E quale nichilismo? Resta anco­ra qualcosa per cui vivere e amare? È allora che la ragione riconosce il suo limite: volendo tutto fondare, si è scoperta es­sa stessa infondata.
«Stupore della ragione» è l’approdo del­la più severa disciplina del pensiero, della filosofia spin­ta fino in fondo. È forse lì che la ragione meglio può avvertire il tremito di un passaggio, il fremere di una voce di silen­zio: «l’ultimo Dio» di Heideg­ger, non viene prima, ma ol­tre la ragione, oltre le avventu­re delle sue pretese, oltre i naufragi delle sue violenze.
Nelle profondità nascoste del desiderio, nella capacità di elaborare sogni diurni, la ra­gione si riconosce assunta e superata da un orizzonte al­tro, più grande: «il principio speranza» riaccende la possibilità dell’esodo, l’attesa di una patria intravista, anche se non posseduta.
Sul piano speculativo la ragione indagante oltre se stessa si ferma medi­tante sull’abisso «dell’Inizio»: indicibile, ineludibile sponda. Uno stare nel “non luogo”, un essere esuli senza al­cuna patria da rimpiangere o da sognare? O la sfida del nichilismo, il suo conturbante assedio esige altri approdi, altre vie da esplorare verso il «Dio possibile»?
Fra il chiuso mondo della ragione presun­tuosa e il vasto, inesauribile orizzonte che si affaccia alla ragione aperta e interrogativa, fra «Totalità e Infinito», fede e ragione s’incontrano su un nuovo confine, dove tutto è in gioco, e la domanda metafisi­ca s’incontra / risolve in quella etica.
Oltre il decli­no della parola, oltre il trion­fo e la caduta della verbosità ideologica, un nuovo spazio è possibile per la domanda su Dio: quale? Ora, respinta l’idea di una “natura umana” come fondamento metafisico dei diritti, che strada si deve intraprendere? Dove siamo? Chi siamo?
Domande antiche, la cui risposta mostra come la situazione del cristianesimo occidentale non sia, oggi, così diversa da quella che ha costituito l’orizzonte della vita, dell’opera e del martirio di Dietrich Bonhoeffer. Le sue analisi interpretano in maniera singolarmente penetrante il trapasso epocale di cui noi, come lui, siamo al tempo stesso spettatori e attori: la parabola dell’epoca moderna, il processo che va dall’ebbrezza del senso alla sua crisi.
Ci rimane soltanto la cogenza dei nostri argomenti e la lealtà nelle procedure. Qui nessun Dio ci può aiutare, o forse il Dio di Bonhoeffer che ci manda a dire di cavarcela senza di Lui? È nel “Come se Dio non ci fosse”; espressione forte, quasi scioccante, ma anche elusiva (risalente al giusnaturalista Ugo Grozio, fondatore della politica moderna) che troviamo la nostra risposta?
Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di definire le norme morali essenziali, le regole del vivere insieme, “etsi Deus non daretur”, cioè anche nel caso che Dio non esistesse: era questa una necessità storica, al tempo delle guerre di religione che insanguinavano l’Europa. Ma ciò ha funzionato finché le convinzioni fondamentali del cristianesimo sono rimaste chiare e condivise tra i nostri popoli.
La forza della formula «come se Dio non ci fosse» sta nel fatto che essa ha sempre contestato l’appello a Dio, fatto in modo apodittico, da chi sosteneva valori considerati imprescindibili per la vita civile, rivelatisi poi falsi (compresa - ai tempi delle guerre di religione - l’intolleranza per difendere la propria identità religiosa-territoriale).
Oggi quella formula è semplicemente l’invito a non far valere nel dibattito pubblico, su questioni altamente controverse, argomenti che in definitiva poggiano soltanto su interpretazioni di carattere religioso o teologico, soprattutto in tema di «natura», «vita» o «persona umana», che potrebbero rivelarsi presto improprie o inconsistenti.
È come dire ai credenti: Dio esiste, ma dovete fare come se non esistesse. Si può pretendere tanto da loro? La fede in Dio può essere messa tra parentesi in vista di qualcosa d’altro, per quanto importante e vitale sia, nella specie, la democrazia? La democrazia, o qualunque altra cosa, per un credente può valere più del suo Dio? È difficile, per non dire di più, riferire a Dio quella filosofia del come se, intesa al rovescio (come se Dio non esistesse), ed è esigere l’impossibile che siano i credenti a fare applicazione di tale filosofia, che per loro è solo una scellerata finzione.
“Anche se Dio non esistesse”, è il significato che corrisponde alla formula: questo è buono, vero o giusto indipendentemente dal fatto che Dio esista o non esista. Dio, dunque, qui non è presupposto per poi richiedere di farne a meno, ma è messo fuori questione, reso irrilevante come elemento fondativo della legge e della morale naturali.
È un suggerimento teologico: “Noi dobbiamo vivere la nostra fede, e soprattutto il nostro comportamento pubblico, civile, a prescindere da Dio”.
In che senso? Nel senso che Dio non deve essere usato per dare risposte a problemi sui quali dobbiamo arrangiarci noi, da soli; a proposito di problemi attuali come ad esempio, quelli connessi alla tematica della bioetica, della natura, sui quali siamo sprovveduti, ma dove non è corretto introdurre una certa idea di Dio, legata a una cultura diversa.
Questo deve essere valido per “i laici, i cattolici e la democrazia”. Che cosa vuol dire? Noi viviamo in una democrazia, consideriamo tutti i cittadini maturi, con le loro opinioni morali diverse, con affermazioni di fede diverse, ma nessuno deve rendere conto all’altro politicamente del perché crede.
Il “come se Dio non ci fosse” è un invito, molto impegnativo per i credenti, a dire: “Guardate, quando affrontiamo le cose della politica, fate come se Dio non ci fosse nel senso bonhoefferiano: nessuno vi chiede di rinunciare ai vostri contenuti di fede, ma non introducete elementi che il cittadino laico non capisce o rifiuta”. Che cosa può voler dire per il laico questo? Non è un modo di liquidare la fede. È un modo di accettarla con rispetto, tanto è vero che per alcuni l’interrogativo diventa: “Ma perché non si rovescia la formula e il laico si comporta come se Dio ci fosse?”.
La proposta venne dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, l’attuale pontefice Benedetto XVI, il quale disse: anche chi non riesce a trovare la via razionale per accettare Dio, cerchi comunque di vivere, ossia indirizzi la sua vita, “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse: “così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno”.
Il nuovo paradigma critica l’atteggiamento di chi considera i limiti delle scienze empiriche, automaticamente, come i limiti di tutto l’uomo e di tutta la sua intelligenza, ed in particolare perché considera l’agnosticismo non concretamente vivibile, come un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita.
Nella pratica sono, infatti, costretto a scegliere tra due alternative: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza (Dio, infatti, se c’è, non può essere un’appendice, ma l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso).
Se agisco secondo la prima possibilità adotto, di fatto, una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido invece per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile.

maurizio musu



Mercoledì, 05 novembre 2008