E stato durante gli anni di studio trascorsi in Germania (1892-1894), secondo la sua stessa ricostruzione retrospettiva, che lo sguardo di William Edward Burghardt Du Bois sui problemi della «razza» e del colore si è «sprovincializzato», cominciando ad assumere quella prospettiva globale che costituisce uno degli aspetti più affascinanti e originali del suo pensiero politico e della sua attività militante. Nella Berlino dominata dai fremiti imperialistici della Weltpolitik, seguendo le lezioni di Gustav Schmoller e di Heinrich von Treitschke, il giovane studente mulatto iniziò a considerare «il problema della razza in America, i problemi dei popoli africani e asiatici e lo sviluppo politico in Europa come una cosa sola». Lattraversamento dellAtlantico, nella direzione opposta a quella seguita dalle navi negriere nel middle passage, Du Bois laveva vissuto del resto in «una sorta di trance»: quindici volte, nella sua lunga vita, avrebbe ripetuto quellesperienza, facendo del viaggio una fondamentale fonte di conoscenza e apportando un contributo fondamentale alla storia novecentesca di quello che Paul Gilroy ha definito lAtlantico nero (Meltemi). Studiare il modo con cui il tema del colonialismo (...) si installa progressivamente al centro del pensiero e dellazione di Du Bois significa registrare prima le distorsioni e poi la vera e propria sovversione che la voce nera, parlando dallinterno del testo europeo della Weltgeschichte, vi inscrive. «Nelle pieghe della civiltà europea», si legge proprio allinizio di quello straordinario capolavoro che è Dusk of Dawn, «sono nato e morirò, imprigionato, condizionato, depresso, esaltato e ispirato. Interamente una sua parte, e tuttavia, cosa molto più significativa, uno dei suoi scarti: uno che ha dato espressione nella sua vita e nel suo agire e ha comunicato a molti altri un singolo vortice di viluppi sociali e paradossi psicologici interiori, che mi è sempre apparso più importante per il mondo di oggi che altri problemi simili e correlati».
Ancora una volta, molti anni dopo The Souls of Black Folk, è una posizione doppia - di internità e di esternità al tempo stesso - quella che Du Bois rivendica, di fronte alla «civiltà europea» così come di fronte alla storia degli Stati uniti: ed è proprio questa posizione di confine che lo spinge fin dai primi anni del secolo a collocare la propria stessa azione politica in uno spazio altro da quello cartografato dalle mappe politiche ufficiali. In uno spazio che si configura, con una forte anticipazione sugli sviluppi storici in atto, appunto come globale.
Nelle stesse pagine di The Souls of Black Folk, del resto, il problema della «linea del colore» era definito in termini globali, come «problema del rapporto tra le razze più chiare e quelle più scure in Asia e in Africa, in America e nelle isole del mare», sullo sfondo costituito da ununità del genere umano non meno reale per il fatto di dovere la propria origine «alla conquista e alla schiavitù». Profondamente segnato dal clima progressista in cui si era svolta la sua formazione, Du Bois non prenderà mai congedo, neppure negli anni tardi della sua definitiva radicalizzazione politica, dallambivalenza del giudizio sul colonialismo qui adombrata. Si farà semmai via via più chiara la consapevolezza della vera e propria catastrofe che ha rappresentato lorizzonte moderno del «progresso», una consapevolezza che in The World and Africa (1946) assumerà la forma di una denuncia dello stesso nazismo come una sorta di nemesi del colonialismo europeo. Ma soprattutto, sotto lincalzare delle lotte anticoloniali, Du Bois scoprirà altri spazi e altri soggetti della storia, giungendo a incardinare in quegli spazi e a raccordare a quei soggetti la stessa politica dei neri dAmerica.
La svolta panafricana
Un momento decisivo, allinterno di questo percorso, è evidentemente la prima guerra mondiale. Lannuncio del «crollo dellEuropa», «tanto più sconvolgente per la fede senza limiti che avevamo avuto nella civiltà europea», sembrava aprire una straordinaria opportunità storica per le genti sottoposte al dominio coloniale. A Parigi su incarico della «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), per svolgere unindagine sulle condizioni dei soldati neri che avevano combattuto nellesercito americano, Du Bois si impegnò febbrilmente, tra la fine del `18 e i primi mesi del `19, in un vero e proprio lavoro di lobbying (in primo luogo sulla delegazione statunitense a Versailles) perché il superamento del colonialismo fosse posto allordine del giorno nelle trattative di pace. La prospettiva di Du Bois, sintetizzata nel 1920 in Darkwater, la prima delle sue tre autobiografie pubblicate in volume, era quella di un superamento graduale del colonialismo, «attraverso il medesimo controllo internazionale a cui affidiamo le nostre speranze per un governo del mondo in vista della pace». Per questa ragione Du Bois guardò con grande ottimismo alla nascita della Lega delle Nazioni e al sistema dei mandati, ratificato dallarticolo 22 della sua carta istitutiva: nel quadro definito da quel sistema, il progredire dellistruzione e della «democrazia industriale» si sarebbe incaricato, in una prospettiva squisitamente «fabiana», di creare le condizioni dellautogoverno.
Più ancora che il merito delle posizioni di Du Bois alla fine della Grande guerra, è importante però sottolineare i modi e i luoghi in cui egli le articolò. Con lappoggio di Blaise Diagne, rappresentante senegalese al parlamento francese, e con il consenso di Clemenceau, egli organizzò nel febbraio del 1919 il primo «Congresso Panafricano», che tenne le proprie riunioni a Parigi con lesplicito obiettivo di far sentire la «voce dellAfrica» a Versailles. Indipendentemente dallesito di questa iniziativa (a cui parteciparono cinquantasette delegati, provenienti dagli Usa, dalle «Indie occidentali» e dallAfrica), essa segnò per Du Bois linizio di una nuova fase del suo impegno politico, che lo portò a legare strettamente il suo nome al panafricanismo. Altri viaggi, e altri tre congressi panafricani, seguirono in questo senso nel corso degli anni Venti, e per la prima volta, nel 1924, Du Bois si recò in Africa, nientemeno che come «inviato straordinario e ministro plenipotenziario» del presidente statunitense Coolidge in Liberia.
La diaspora nera
Il rapporto con lAfrica, per Du Bois, non aveva in sé nulla di «naturale» e romantico (per quanto tonalità «romantiche» non manchino nei suoi scritti sul tema); non poteva essere paragonato, come egli stesso scrive nella sua ultima autobiografia, a quello che un italo-americano o un irlandese-americano intrattiene con la sua terra dorigine. Il trauma della schiavitù impediva ogni identificazione semplice e lineare. Tuttavia, una volta costruito politicamente e intellettualmente, quel rapporto era destinato a modificare in profondità la prospettiva politica di Du Bois - e a determinare tensioni crescenti con la maggior parte dei dirigenti della Naacp, «che si sentivano americani, non africani, e guardavano con timore, se non con risentimento, a ogni associazione tra loro e lAfrica». Il panafricanismo, del resto, negli Stati uniti degli anni Venti, si trovò a essere sempre più associato al nome di Marcus Garvey, con cui Du Bois mantenne un rapporto marcatamente ambivalente. Lidea di Du Bois, secondo cui i neri americani avrebbero dovuto svolgere una funzione di leadership nel complessivo processo di riscatto storico dellAfrica, aveva dunque basi fragili dal punto di vista «tattico» - e il vecchio Du Bois, in un memorabile discorso tenuto a Pechino nel 1959, nel giorno del suo novantunesimo compleanno, ne avrebbe denunciato auto-criticamente gli stessi presupposti «teorici». Ma lesperienza del movimento panafricanista, che fu una straordinaria palestra per la formazione delle élite che avrebbero condotto le lotte anticoloniali in Africa negli anni successivi, fu per Du Bois soprattutto la scoperta di un nuovo spazio politico, definito da una pluralità di linee che, passando attraverso lAtlatico e riscrivendo la storia della diaspora nera, collegavano New York e Dakar, Londra e il futuro Ghana, Parigi e le «Indie occidentali». Nulla rende meglio lidea di questo spazio della sua proposta di organizzare il quarto «Congresso Panafricano», nel 1925, nei Carabi, a bordo di una nave che avrebbe dovuto effettuare una serie di scali «in Giamaica, ad Haiti, a Cuba e nelle isole francesi».
Allinterno di questo spazio diasporico, del resto, la politica dei neri statunitensi si modificò anche al di là delle intenzioni e del diretto apporto di Du Bois. Tra gli anni Venti e Trenta, linfluenza di Garvey, la nascita di uno specifico comunismo black e lazione di intellettuali caraibici come Gorge Padmore e C.L.R. James determinarono lo sviluppo di un nuovo radicalismo tra gli afro-americani, con una spiccata propensione «internazionalista». La grande ondata di scioperi che, a partire da Trinidad, attraversò nel 1937-38 lintera regione caraibica fu un momento decisivo nel consolidamento di questa propensione: la stampa afro-americana dedicò unenorme attenzione a questi fatti, giungendo a sottolineare lanalogia tra gli scioperi nei Carabi e analoghi movimenti dal Marocco a quella che sarebbe divenuta lIndonesia e parlando di una vera e propria rivolta globale contro il colonialismo. La diaspora africana cominciava ad assumere un nuovo profilo militante, nutrendo una politica transnazionale che aveva il proprio centro a Londra e influenzava in modo determinante sia il mondo coloniale sia lo sviluppo del discorso politico afro-americano.
La fondazione nel 1937 dell«International Commitee on African Affairs», che nel 1942 assunse la denominazione di «Council on African Affairs» (Du Bois ne sarebbe divenuto vice-presidente nel 1948), rappresentò la principale espressione organizzativa di questa politica diasporica nera negli Usa: la sua azione giocò un ruolo fondamentale nel porre in primo piano, allinterno della complessiva politica afro-americana degli anni della seconda guerra mondiale, la questione coloniale. Ed è in questo contesto che va collocato lintervento di Du Bois (...) alla «East and West Society» il 7 novembre del 1945.
Lo spazio politico anticoloniale
Ancora una volta, nel `44-45, Du Bois moltiplicò infatti i suoi impegni per esercitare uninfluenza sul governo statunitense e sullopinione pubblica mondiale affinché il superamento del colonialismo fosse messo allordine del giorno nella progettazione dellordine internazionale post-bellico. Nei primi mesi del 44 intrattenne un fitto carteggio con la vedova di Marcus Garvey, Amy Jacques, impegnata dalla Giamaica a promuovere ladozione da parte degli Usa di una «Carta sulla libertà dellAfrica» che integrasse la «Carta Atlantica» del `41 e che risolvesse nei fatti le ambiguità di questultima sul colonialismo, denunciata con forza dalla stampa afro-americana. Ma soprattutto, ritornato alla Naacp, da cui era uscito nel 1934, sviluppò una critica durissima e molto influente delle proposte emerse dalla Conferenza dellestate del 1944 a Dumbarton Oaks, organizzò allinizio di aprile del 45 una «conferenza coloniale» a New York, con lobiettivo di elaborare concrete proposte di emendamento delle risoluzioni di Dumbarton Oaks, e seguì personalmente i lavori dellassemblea costitutiva dellOnu a San Franscisco.
Diritti umani per tutte le minoranze si presenta in questo senso come uno straordinario documento storico. È un intervento maturato allinterno dello spazio transnazionale della politica afroamericana degli anni della guerra che mostra non soltanto la disillusione e la preoccupazione per il tipo di ordine internazionale che stava prendendo forma, ma anche lintensità delle aspettative e delle aspirazioni con cui Du Bois, e con lui una parte significativa dei leader neri statunitensi e degli stessi movimenti anticoloniali, guardò alla nascita dellOnu. Ancora una volta la voce nera, parlando allinterno di un testo europeo e «occidentale» come quello intessuto dal linguaggio dei diritti umani, punta a sovvertirlo iscrivendovi la critica radicale del colonialismo e il sogno di un mondo diverso da quello che stava sorgendo sulle macerie della guerra. Esattamente nello stesso senso, nel 1946, Du Bois avrebbe promosso la presentazione alla Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite di un dossier per ottenere una formale condanna del governo degli Stati uniti per il trattamento riservato agli afro-americani, insistendo sulla rilevanza globale, e non meramente «interna», del problema.
Anche da un altro punto di vista, tuttavia, il testo (...) è uno degli ultimi documenti di una «politica estera» afro-americana che, pur nella sua indipendenza, è potuta rimanere in un rapporto fondamentalmente dialettico, caratterizzato certo da forti tensioni ma anche da momenti di apparente coincidenza, come nel caso della polemica tra F. D. Roosevelt e Churchill sul significato della «Carta Atlantica», con lo sviluppo della politica estera ufficiale statunitense. Lavvio della guerra fredda avrebbe determinato di lì a poco un brusco cambiamento di quadro, e Du Bois ne avrebbe pagato anche personalmente il prezzo, subendo una dura criminalizzazione da parte dellestabilishment. La decisione di trasferirsi e di morire nel Ghana di Nkrumah nel `61, come cittadino di quel paese - non prima di aver reso un estremo e paradossale omaggio alla sua identità americana, chiedendo a 93 anni la tessera del Partito comunista statunitense -, costituisce certo anche lesito di un giudizio molto duro sulla realtà degli Stati uniti negli anni Cinquanta: contemporaneamente, tuttavia, la lezione di Du Bois sarebbe stata assimilata da altri protagonisti della politica afro-americana, che nel decennio successivo - pagando un prezzo ancora più alto - avrebbero portato alle estreme conseguenze quella «trasgressione dello spazio politico nazionale» che proprio Du Bois, tra gli altri, aveva cominciato a praticare.
SCHEDA - Guida alla lettura Il secondo numero della rivista culturale è composto, tra le molte cose, da un saggio dapertura di Dipesh Chakrabarty su «La storia subalterna come pensiero politico» e una sezione dedicata ai classici, che questa volta si occupa del pensiero di W. E. B. Du Bois (di cui pubblichiamo in questa pagina uno dei saggi). Le altre sezioni si occupano del film di Mel Gibson «La passione» (Cristiana Facchini su Istantanee), nonché un dialogo di Silvia Salvatici con Alessandro Portelli («Memoria e globalizzazione: i percorsi della storia orale» su Interloqui). Nutrita come sempre la sezione delle recensioni.
Lunedì, 06 dicembre 2004
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