ILLUMINISMO E CRISTIANESIMO. PER USCIRE DALLA CAVERNA, AL DI LA' DELLA FEDE E DELLA RAGIONE (PLATONICA O 'CATTOLICA'), LA FEDE RAZIONALE - LA VIA DI KANT ...
KANT: USCIRE DAL MONDO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI "DIO", CONCEPITO COME L'“UOMO SUPREMO”! La “Prefazione” della “Storia universale della natura e teoria del cielo”. Note per una rilettura

(...) Kant si porta non solo “oltre Cartesio e ben oltre il prudente Newton” (cfr. Giacomo Scarpelli, op. cit., p. 13) ma anche – in compagnia di Leibniz e dei suoi “principi della natura e della grazia” (1714) - ben oltre le illusioni dei deliranti apologeti (sia materialisti sia idealisti) della società chiusa dell’”uomo supremo”. Da uomo e filosofo, il “cinese di Koenigsbeg” - come Nietzsche lo definisce, alludendo evidentemente all’affinità con Leibniz - non era e non “rimase un fisico anche come metafisico critico” (come pensa Karl Lowith, proprio a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel suo “Dio uomo e modo da Cartesio a Nietzsche, sulla falsariga dei suoi amici idealisti e heideggeriani)! Kant, al contrario, sapeva benissimo – come e più di Nietzsche – che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità […] come si perdono i primi denti”, bisogna scendere all’Averno (...)


di Federico La Sala

Queste note seguono l'altra - "Una nota di avvio per una rilettura",  si veda: http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1285619447.htm. 

Sul lavoro in corso, si veda:

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

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Nella “Prefazione”, “L’Autore” della “Storia universale della natura e teoria del cielo” dimostra come la “dedica” non sia una retorica esagerazione e quale sia il senso del suo omaggio a Federico II. Consapevole e signore di sé, egli mostra con determinazione e con lucidità  non solo di essere fuori dalla stato di minorità e di sapersi servire  della propria intelligenza, ma anche di sapersi collocare coraggiosamente  fuori dal mondo e di saperlo ‘ricreare’, senza cadere nel delirio né dal lato del materialismo (“che pone il mondo a caso”) né dal lato dell’idealismo (che pone il mondo agli ordini dei  miracoli di Dio).

Se la si analizza con attenzione, la “Prefazione” è un vero e proprio “discorso sul metodo”, su come procedere coraggiosamente sulla strada del sapere (“Sapere aude!”). Egli, infatti,  presenta il suo lavoro con una modalità già tutta sua e tuttavia carica di risonanze galileiane (del Galileo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”) e mostra con brillantezza come si possa – procedendo con l’analisi delle  ragioni di opposti paradigmi (in questo caso, del meccanicismo con il suo acritico fideismo materialistico e ateistico  e  del finalismo idealistico con il suo acritico fideismo devoto nel “disegno divino”)  – andare avanti (come anche da indicazione baconiana: “plus ultra”) sulla strada della rivoluzione copernicana e, al contempo, dare “una accoglienza favorevole” alla sua ipotesi “sulla costituzione e sull’origine meccanica dell’intero universo secondo i principi newtoniani”, sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista filosofico e teologico.  

Alla base della ricerca e del discorso di Kant,  c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia   urgente e necessario andare – con Newton -  oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e – cosa ancor più grave -  formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, “Introduzione”, a: I. Kant, Storia universale ..., cit., p. 12).  Per Kant, la situazione è pericolosissima – sia sul piano teologico (e politico) sia sul piano scientifico!

E così, ora, “L’Autore”  riprende la parola e si rivolge a chi lo legge (e lo ascolta). Questo l’inizio: “Mi sono posto un compito che, sia per le sue difficoltà interne, sia per quel che concerne la religione, potrebbe suscitare fin dall’inizio un  pregiudizio sfavorevole in gran parte dei lettori. Scoprire il sistema che tiene unite le grandi membra del creato, derivare dallo stato primordiale della natura la formazione degli stessi corpi celesti e l’origine dei loro movimenti avvalendosi delle sole leggi meccaniche è impresa che sembra superare di gran lunga le possibilità della ragione umana. La religione, d’altra parte, muove una grave accusa alla temerarietà di chi osa ascrivere alla natura abbandonata a se stessa simili effetti, in cui scorge, a ragione, l’immediata presenza della mano dell'Essere supremo, e teme di trovare nell'audacia di tali riflessioni un’apologia dell’ateismo”.

E continua,  rassicurando, precisando e incoraggiando: “Sono  ben cosciente di queste difficoltà, ma non mi scoraggio. Sento tutta la forza degli ostacoli che mi si oppongono, ma non desisto. Sulla base di una modesta congettura ho intrapreso un viaggio molto rischioso e già scorgo i promontori di nuove terre. coloro che avranno il coraggio di proseguire nella ricerca ne calcheranno il suolo e proveranno il piacere di dare a esse un nome”.

E chiarisce ancora  relativamente al suo stile, al suo modo di procedere scientifico, e alle sue convinzioni religiose (al di là del timore della censura): “Non ho definito il piano di quest’impresa,  se non dopo essermi posto al sicuro rispetto ai doveri imposti dalla religione. Il mio zelo si è raddoppiato quando, a ogni nuovo passo, vedevo diradarsi le nebbie tenebrose che sembravano nascondere dei mostri e, al loro dileguarsi, emergere la maestà dell'Essere supremo nel suo più vivo splendore. Poiché ora so bene che queste mie fatiche non meritano alcun rimprovero, voglio esporre lealmente tutto ciò che qualcuno, in buona fede o anche per debolezza d'animo, potrebbe trovare scandaloso nei miei piani e sono pronto a sottoporlo al rigore dell’Areopago ortodosso [l’autorità della chiesa luterana di Prussia]  con la schiettezza propria di chi ha un modo di pensare onesto” (cfr. I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, Bulzoni Editore, Roma 2009, pp. 39-40).

 Kant non ha  alcun dubbio sulla strada  intrapresa e già fatta (una cifra che ricorre in tutte le sue opere fino alla fine):  “(…) è proprio la concordanza che riscontro tra il mio sistema e la religione a innalzare serenamente le mie convinzioni al di sopra di tutte le difficoltà”. Egli ne è più  che certo: la sua linea teorica ha radici saldissime nella tradizione già di Galilei, di quella tradizione critica europea, che sa ben coniugare la lezione socratica (“so di non sapere” e “unicamente sapiente è Dio”) con la libertà e la sovranità evangelica (del figlio di Dio, Cristo, che è come Dio ma che sa e insegna che “solo Dio è buono”). Al contrario, la convinzione di Kant (come già di Galilei), infatti, è che “i difensori della religione non fanno buon uso delle loro ragioni e, anzi, perpetuano la polemica con i naturalisti, porgendo loro il fianco senza necessità” (op.cit., p. 40);  e, poco oltre, insiste e avverte: “Se qualche benintenzionato, per salvare la buona causa della religione”, vuol mettere in discussione la capacità  “delle leggi universali della natura, finirà per porsi in imbarazzo da sé e con la propria maldestra difesa fornirà al miscredente l’occasione per trionfare” (op. cit., p. 41).

E invita a riflettere e a non aver paura della sua ipotesi  sull’origine meccanica dell’intero universo: La materia che si va determinando in virtù delle proprie leggi universali o, se si vuole, secondo una meccanica cieca, produce  effetti e condizioni così vantaggiose, che sembrano rivelare il progetto di una mente superiore. […]  Questi effetti non si producono per caso o per coincidenza, dato che con altrettanta facilità potrebbero risultare nocivi, vediamo invece che le loro leggi naturali li costringono ad agire in questo e in nessun altro modo. Come considerare allora tale armonia? Come è possibile che elementi di diversa natura, venendo in contatto tra loro riescano a produrre concordanze e bellezze così perfette – persino a vantaggio di esseri come gli uomini e gli animali, situati in certo qual modo fuori dall’ambito della materia inerte – se non in quanto essi sono riconducibili a una origine comune, ossia a un Intelletto infinito, nel quale furono concepite le proprietà essenziali di tutte le cose?” (op. cit., pp. 42-43).

A chi  gli può dire che difendere il suo sistema “significa difendere a un tempo anche le idee di Epicuro, con le quali  esso presenta molte affinità”, Kant pazientemente spiega: non voglio contestare il fatto “che le teorie di Lucrezio, o dei predecessori di Epicuro, Leucippo e Democrito presentino molte somiglianze con le mie” (op. cit., p. 44),  ma finora – precisa e puntualizza  – “è rimasta nell’ombra una differenza essenziale tra la presente cosmogonia e quella antica, una differenza che permette di trarre conseguenze opposte”.

E, continuando, così chiarisce: “Le dottrine appena menzionate, concernenti la generazione meccanica dell’universo, attribuivano l'origine di tutto l’ordine che vi si può percepire al puro caso, al quale era dovuto un incontro di atomi così felice da dar vita a un tutto ben ordinato. Epicuro, poi, fu talmente audace che pretese persino che gli atomi deviassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa determinata, ma solo per incontrarsi tra loro. Tutti gli altri, portando quest’assurdità alle estreme conseguenze, sono arrivati ad attribuire a questo incontro cieco l’origine di ogni creatura vivente, facendo così derivare la ragione dalla non-ragione”.

Al  contrario, nella mia concezione – prosegue Kant -   “la materia è sottoposta a determinate leggi necessarie. Dal suo stato di totale dissoluzione e dispersione, io vedo svilupparsi un tutto bello e ordinato, e ciò in modo interamente naturale. E tutto questo non avviene per caso o fortuitamente, ma necessariamente, in virtù di proprietà naturali della materia. In tal modo, non siamo forse indotti a chiederci perché la materia debba esser sottoposta proprio a quelle leggi, che hanno per fine un ordine così vantaggioso? È mai possibile che tante cose, ciascuna delle quali presenta una natura autonoma rispetto alle altre, si siano disposte da sé proprio in questo modo, che ha dato vita a un tutto ben ordinato? E se così accade, non è questa una prova irrefutabile della loro comune origine prima, che altro non può essere se non un supremo Intelletto onnipotente, in cui la natura propria a ogni cosa è stata concepita secondo un intento unitario?” (op. cit., 45).

Come si può vedere da questi brevi cenni, in questo suo avanzare problematico e dialogico (di una soggettività che non mira a nessuna astuta idealistica o materialistica sintesi dialettica!), Kant  si mostra  uomo maturo e sovrano: e da  cosmologo parla ai teologi e da teologo agli scienziati e ai filosofi. Ai teologi mostra l’epocale importanza del lavoro di Newton (le leggi universali della materia e “il cielo stellato” vanno insieme!)) e fa capire chiaramente quanto “umana, troppo umana” sia la concezione del  loro “disegno divino” e del loro “Dio”.

A questi, infatti, “L’Autore” dice: Si è “soliti rilevare e ammirare nella natura l’armonia, la bellezza, i fini e la perfetta rispondenza a essi dei mezzi. Tuttavia, mentre da un lato si esalta così la natura, dall’altro si cerca nuovamente di svilirla. Quest’ordine magnifico, si dice, le è estraneo (…) La sua armonia rivela invece l’intervento di una mano estranea che con un saggio disegno ha saputo sottomettere dall’esterno una materia priva di qualsiasi regolarità. Ma a ciò – prosegue Kant – rispondo che se anche le leggi universali della materia sono conseguenza di un disegno divino, esse evidentemente non possono avere altra destinazione che quella di concorrere a completare il piano che la somma sapienza si è proposto, e se così non fosse, non cadremmo forse nella tentazione di credere che almeno la materia e le sue leggi universali siano indipendenti e che la potenza saggissima, la quale ha saputo fare di esse un uso tanto glorioso, sia certamente grande ma non infinita, certamente potente ma non del tutto sufficiente?” (op. cit., pp. 40-41).    

Agli scienziati e ai filosofi illustra quanto sia importante andare oltre Newton, liberare il sistema del mondo da quell’ingombrante macigno che è l’ipotesi demiurgica  newtoniana, avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza e uscire dallo stato di minorità (il “Sapere aude” e “la legge morale” vanno insieme!): “Pur ammesso, si dirà, che Dio abbia dotato le forze della natura di un’arte segreta, che ha consentito a esse di sviluppare autonomamente, a partire dal caos, un ordinamento perfetto dell’universo, è mai possibile che l’intelletto umano così debole di fronte agli oggetti più comuni, sia capace di sondare le proprietà nascoste di un piano tanto vasto? Tentare un’impresa del genere equivarrebbe a dire: Datemi soltanto della materia e io vi costruirò un mondo”. E spiega che la direzione del suo lavoro è quella più promettente,  “quella che permette di risalire alle origini nel modo più facile e sicuro; e afferma  che, “fra tutte le cose della natura di cui si ricerca la causa prima, quanto si può sperare di comprendere a fondo e con pieno affidamento è proprio l’origine dell’universo, la formazione dei corpi celesti e le cause dei movimenti” (op. cit., 47).  

Così procedendo, Kant  si porta non solo “oltre Cartesio e ben oltre il prudente Newton” (cfr. Giacomo Scarpelli, op. cit., p. 13) ma anche –  in compagnia di Leibniz e dei suoi “principi della natura e della grazia” (1714) -  ben oltre le illusioni  dei deliranti apologeti  (sia materialisti sia idealisti) della società chiusa dell’”uomo supremo”. Da uomo e filosofo, il “cinese di Koenigsbeg” - come Nietzsche lo definisce, alludendo evidentemente all’affinità con Leibniz -  non era e non “rimase un fisico anche come metafisico critico” (come pensa Karl Lowith,  proprio a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo”,  nel suo “Dio uomo e modo da Cartesio a Nietzsche, sulla falsariga dei suoi amici idealisti e heideggeriani)!

Kant, al contrario, sapeva benissimo – come e più di Nietzsche – che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità […] come si perdono i  primi denti”, bisogna scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (come scrive Dante), per accedere alla sovranità di sé,  alla conoscenza dell’“uomo”,    e alla conoscenza del “mondo” e di “Dio”! Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché,  e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg: “Solo un dio ci può salvare”!    

 

Federico La Sala (01.10.2010)

 



Venerdì 01 Ottobre,2010 Ore: 17:38