IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Alle origini della cultura occidentale...
ARCHEOLOGIA DEL GIURAMENTO. Il sacramento del linguaggio

Come, nelle parole di Foucault, l'uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita.


di GIORGIO AGAMBEN

Parte di un capitolo del nuovo libro di G. Agamben, "Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento", Laterza,pagg. 107, euro 14 (la Repubblica 6.10.2008).


I linguisti hanno spesso cercato di definire la differenza fra il linguaggio umano e quello animale. Benveniste ha opposto in questo senso il linguaggio delle api, codice di segnali fisso e il cui contenuto è definito una volta per tutte, alla lingua umana, che si lascia analizzare in morfemi e fonemi la cui combinazione permette una potenzialità di comunicazione virtualmente infinita.

Ancora una volta, tuttavia, la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento, che ulteriori analisi potrebbero ritrovare - e, di fatto, continuamente ritrovano - in questo o quel linguaggio animale; essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l'uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.

Come, nelle parole di Foucault, l'uomo «è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente», così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l'una dall'altra.

Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l'operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il «vivente che ha il linguaggio».

Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole - e questo è precisamente ciò che l'animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare.

La prima promessa, la prima - e, per così dire, trascendentale - sacratio si produce attraverso questa scissione, in cui l'uomo, opponendo la sua lingua alle sue azioni, può mettersi in gioco in essa, può promettersi al logos. Qualcosa come una lingua umana ha potuto, infatti, prodursi solo nel momento in cui il vivente, che si è trovato cooriginariamente esposto tanto alla possibilità della verità che a quella della menzogna, si è impegnato a rispondere con la sua vita delle sue parole, a testimoniare in prima persona per esse.

E come il mana esprime, secondo Lévi-Strauss, l'inadeguatezza fondamentale fra significante e significato, che costituisce "la servitù di ogni pensiero finito", così il giuramento esprime l'esigenza, per l'animale parlante in ogni senso decisiva, di mettere in gioco nel linguaggio la sua natura e di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni. Solo per questo qualcosa come una storia, distinta dalla natura e, tuttavia, a essa inseparabilmente intrecciata, ha potuto prodursi.

È nel solco di questa decisione, nella fedeltà a questo giuramento, che la specie umana, per la sua sventura come per la sua ventura, in qualche modo ancora vive. Ogni nominazione è, infatti, duplice: è benedizione o maledizione. Benedizione, se la parola è piena, se vi è corrispondenza fra il significante e il significato, fra le parole e le cose; maledizione se la parola resta vana, se permangono, fra il semiotico e il semantico, un vuoto e uno scarto.

Giuramento e spergiuro, bene-dizione e male-dizione corrispondono a questa duplice possibilità iscritta nel logos, nell'esperienza attraverso cui il vivente si è costituito come essere parlante. Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropogenetica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, separando e opponendo punto per punto verità e menzogna, nome vero e nome falso, formula efficace e formula scorretta. Ciò che era «detto male» diventa in questo modo maledizione in senso tecnico, la fedeltà alla parola cura ossessiva e scrupolosa delle formule e dei riti appropriati, cioè religio e ius.

L'esperienza performativa della parola si costituisce e si separa così in un «sacramento del linguaggio» e questo in un «sacramento del potere». La "forza della legge" che regge le società umane, l'idea di enunciati linguistici che obbligano stabilmente i viventi, che possono essere osservati o trasgrediti, derivano da questo tentativo di fissare l'originaria forza performativa dell'esperienza antropogenetica, sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che l'accompagnava.

Paolo Prodi apriva la sua storia del "sacramento del potere" con la constatazione che noi siamo oggi le prime generazioni che vivono la propria vita collettiva senza il vincolo del giuramento e che questo mutamento non può non implicare una trasformazione delle modalità di associazione politica.

Se questa diagnosi coglie in qualche misura nel vero, ciò significa che l'umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall'altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un'esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un'esperienza politica diventa sempre più precaria.

Quando il nesso etico - e non semplicemente cognitivo - che unisce le parole, le cose e le azioni umane si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall'altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa.

L'età dell'eclissi del giuramento è anche l'età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua e può soltanto essere proferito "in vano". E' forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabili.

Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non può potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria.

L'elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano le sue virtù peculiari non è nello strumento in se stesso, ma nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare. Cioè: nella relazione etica che si stabilisce fra il parlante e la sua lingua. L'uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire "io", deve, cioè, "prendere la parola", assumerla e farla propria.

La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nell'apparato formale della lingua, la funzione enunciativa, l'insieme di quegli indicatori o shifters ("io", "tu", "qui", "ora", ecc.) attraverso i quali colui che parla assume la lingua in un atto concreto di discorso.

Ciò che la linguistica non è, però, certamente in grado di descrivere è l'ethos che si produce in questo gesto e che definisce l'implicazione specialissima del soggetto nella sua parola. E' in questa relazione etica, il cui significato antropogenetico abbiamo cercato di definire, che il "sacramento del linguaggio" ha luogo. Proprio perché, a differenza degli altri viventi, l'uomo per parlare deve mettersi in gioco nella sua parola, egli può, per questo, benedire e maledire, giurare e spergiurare.

Alle origini della cultura occidentale, in un piccolo territorio ai confini orientali dell'Europa, era apparsa un'esperienza di parola che, tenendosi nel rischio tanto della verità che dell'errore, aveva pronunciato con forza, senza né giurare né maledire, il suo sì alla lingua, all'uomo come animale parlante e politico.

La filosofia comincia nel momento in cui il parlante, contro la religio della formula, mette risolutamente in questione il primato dei nomi, quando Eraclito oppone logos a epea, il discorso alle parole incerte e contraddittorie che lo costituiscono o quando Platone, nel Cratilo, rinuncia all'idea di una corrispondenza esatta fra il nome e la cosa nominata e, insieme, avvicina onomastica e legislazione, esperienza del logos e politica.

La filosofia è, in questo senso, costitutivamente critica del giuramento: essa mette, cioè, in questione il vincolo sacramentale che lega l'uomo al linguaggio, senza per questo semplicemente parlare a vanvera, cadere nella vanità della parola. In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio, l'indicazione di una linea di resistenza e di svolta.



Mercoledì 12 Novembre,2008 Ore: 16:29