Derrida, la verità sottosopra.

A 74 anni scompare il filosofo del decostruttivismo


di Beppe Sebaste (L’Unità, 10.09.2004)

Scrivo queste frasi di fronte alla morte di qualcuno che ha contato molto per me, e mi trova del tutto impreparato ad affrontarla - lontano dai libri, dai miei appunti, lontano perfino dalla mia memoria. E mentre constato questa inadeguatezza, mi sembra di sentire risuonare anche a questo proposito il modello dei suoi ultimi insegnamenti - quelli che, direbbe Maurizio Ferraris, autore di una recente Introduzione a Derrida (Laterza), erano dedicati a una serie di «oggetti sociali», come la testimonianza appunto, come il segreto, l’ospitalità, il perdono, l’amicizia, il giudizio. I temi cioè dei suoi corsi e seminari ristretti cui sono stato per anni ospite e partecipante.

Si può perdonare solo l’imperdonabile, insegnava Derrida, senza che si cancelli l’oggetto di ciò per cui deve avvenire il perdono; si può ospitare, accogliere, solo se si è impreparati a farlo, magari nel cuore della notte e all’improvviso; si può donare solo quell’impossibile dono privo del fantasma di un debito e un credito, anche inconsci; così come, seguendo Agostino, si confessa non per informare qualcuno che sa già tutto, ma per dire che si sa di essere colpevoli. Così, dopo avere a lungo indugiato per eccesso di coinvolgimento di tematizzarlo in vita, mi trovo inerme e incapace di farlo ora in morte, e per questo corro il rischio di scriverne.

Le ultime opere di Derrida espongono con chiarezza definitiva il rischio di un «pensare secondo l’aporia», facendo dell’esperienza della filosofia una sorta di «possibilità dell’impossibilità», parafrasando quanto Heidegger scriveva a proposito della morte. Raggiungendo il detto secolare, trasmessoci anche da Montaigne, che vuole che la filosofia consista nell’imparare a morire, per quanto incessante, cioè infinito, ne sia il compito.

Jacques Derrida non è stato solo un grandissimo filosofo, ma forse l’ultimo dei filosofi, in un’epoca distante come poche da questa pratica e da questo modo di stare nel mondo. E lo si ama anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul serio la filosofia. Derrida è quindi importante non solo per avere saputo creare un linguaggio e un «sistema» nuovi, così nuovi e spiazzanti che ancora in questi anni l’americano Richard Rorty, quando non sapeva che pesci prendere, poneva Derrida nell’ambito della letteratura, come una specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e così proteggerci dal coinvolgimento perturbante del suo pensiero che ci impone di risponderne e di rispondere. Sì, c’è nella sua opera una «eccedenza» della filosofia, eccesso e s-fondamento, come ebbe a dire Derrida a proposito di uno dei suoi maestri, Lévinas, e non faceva troppa distinzione tra il repertorio delle opere dette filosofiche e quelle dette letterarie.

Ma Derrida è importante anche perché tutta la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell’eredità e del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. E in questo legame, in questa dedica, c’è onestà, rigore, coerenza, sobrietà, e anche un’intrinseca, forse dissimulata umiltà, che la si sappia o no vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante virtuosismo dei suoi testi e lezioni. Infine, lui che ha ingaggiato un forse definitivo conflitto contro il mito della presenza, cuore della metafisica, ha anche saputo impegnarsi fino in fondo in una riflessione sul presente, come mostra anche l’ultima recentissima intervista a Le Monde. Che parla della propria morte; ma anche di politica, di Europa, di pace, di disarmo.

Dovendo scegliere e sintetizzare malamente la sua opera secondo parametri di divulgazione, ricorderei quello che disse lui stesso a proposito del concetto di «decostruzione», tra i più commentati e abusati dai suoi stessi allievi. La decostruzione, disse Derrida, è una sorta di psicanalisi, della filosofia, di cui la metafisica sarebbe la principale nevrosi. Psicanalizzare la filosofia comporta il portarne alla luce le rimozioni, di cui la principale è la materialità della scrittura da lui allargata alla nozione di «traccia», ma anche tutte le opposizioni secolari e i dualismi che ne dipendono, natura/cultura, presenza/assenza, soggetto/oggetto, intelligibile/sensibile, ecc. Il compito che Derrida si è assegnato è stato dunque immenso.

Se la cultura occidentale e tutta la nostra tradizione filosofica ha valorizzato la voce, facendo della scrittura un sostituto della sua presenza immediata, uno dei compiti che si è assunto Derrida è stato considerare questo abbassamento della scrittura ricostruendo un’altra storia dei segni scritti, e quindi un’altra lettura della tradizione filosofica, probabilmente della stessa nostra «civiltà». Dopo i suoi primi commenti alla fenomenologia di Husserl e alla sua valorizzazione della presenza a sé, imparentata con la voce (la sua Introduzione alle origini della geometria è del 1962), nel 1967 Derrida pubblicò una serie di studi fondamentali dedicati a questa rimozione della materialità - cioè della scrittura, della morte e dell’assenza - nella nostra cultura: La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della Grammatologia.

La riflessione di quest’ultimo permette di coniugare la liberazione della memoria e l’esteriorizzazione delle tracce attraverso una nozione, già allora, di archivio (uno dei temi della riflessione di Derrida negli ultimi anni), perché dai graffiti dell’età del neolitico ai file dei computer ciò che permane è l’estensione delle possibilità di riserve, di stoccaggio, il che è già un equivalente dell’analisi della differenza.

E veniamo alla nozione, sempre degli anni ’60, di differenza, che lui scrisse con la «a», differanza. La decostruzione stessa prende forma da questa pratica ed enunciazione: in francese, différence e différance suonano allo stesso modo, il che permette, performativamente, di fare ciò che il neologismo dice. Non solo differire come non ripetizione del medesimo, e come rinvio nel tempo, indefinitamente; ma mostrandone ciò che viene rimosso - l’assente, inudibile, invisibile traccia - nella voce, il grafema diverso e differito che pure permane nel fonema uguale e medesimo. Tenere conto della différance è già smontare le illusioni della «presenza». La scrittura non supplisce la presenza, vi è sempre una distanza irriducibile, che la retorica della presa diretta delle «nuove» tecnologie della comunicazione di oggi non può smentire (anche il mittente di un sms può essere già morto al momento della sua ricezione). È la questione della testamentarietà dei testi, di ogni letteratura. Ma è anche la questione della Disseminazione (titolo di un’altra sua opera), che indica insieme l’an-archia della scrittura e la dipendenza della nostra civiltà dal totalitarismo dei dettami platonici, di cui il divieto alla fecondazione eterologa è l’ultima attualizzazione: la scrittura è il rimosso perché fuori dal controllo del Padre, del Potere, frutto di una disseminazione che non si può assoggettare politicamente.

Ma alla giustezza dell’analisi di Derrida partecipa, per sintetizzare brutalmente, l’evidenza del fatto che non è mai esistito un linguaggio primo, vergine di scrittura. E dimostrarne l’infondatezza significa anche minare la possibilità di una presenza a sé, sui cui si fonda ogni metafisica. Viceversa, è l’etica che si apre come necessità.



Martedì, 12 ottobre 2004