Un servizio alla mafia

di Rosario Amico Roxas

Un commento sulla fiction "Il capo dei capi"


La trasmissione a puntate, in prima serata su canale 5, “Il capo dei capi”, si sta rivelando , giorno dopo giorno, come uno studiato servizio reso alla mafia.
Emerge la lotta tra i “viddani” di Corleone e i “cittadini” di Palermo, dentro un contesto che vorrebbe far apparire una rivendicazione tra i più deboli, da sempre sopraffatti, e i più forti, arroganti e prepotenti. La figura di Totò Riina appare quella del vendicatore di antiche prepotenze, legittimato da una “eroicità” che, pur se eccede nella brutalità, rimane come una rivendicazione.
Lo Stato risulta assente, spettatore mediocre, terzo incomodo in una rivoluzione popolare “costretta” all’uso e abuso della violenza, per far valere i diritti degli emarginati.
E’ una trasmissione che “nutre” la cultura della convivenza con la mafia, che finisce con il diventare connivenza. L’assenza dello Stato è particolarmente sottolineata con l’immagine di personaggi sbiaditi, dai contorni imprecisi, il cui sacrificio appare giustificato per essersi intrufolati in una guerra che doveva svolgersi, nella quale emergono solo come abusivi.
Le istituzioni politiche e amministrative, a loro volta, sono identificate in un Ciancimino che, nascosto dietro le quinte, domina la scena e suggerisce panorami di connivenza e sudditanza.
Nulla viene lasciato al caso pur di mostrare una facciata di possibile legittimazione, come il tenero affetto di Totò “u curtu” per Ninetta Bagarella, che vorrebbe spingere lo spettatore a partecipare emotivamente . Le stragi, le esecuzioni, diventano episodi di una guerra “giusta”, che porterà alla vittoria degli emarginati contro gli emarginatori; poi ci saranno gli “scappati”, superstiti della guerra che cercano la sopravvivenza negli USA; ci saranno “gli squagliati”, vittime della lupara bianca sciolti negli acidi; i “pentiti”, personaggi di comodo che rivelano quanto basta per garantire loro il mantenimento e la protezione di uno Stato ingenuo e, a volte, mallevadore.
Che questa fiction stimoli anche l’emulazione, non deve meravigliare nessuno, sembra proprio che sia stata concepita a tale scopo, per rendere un servizio alla mafia, oppure per ripagare la stessa di servizi resi.
Emergono come i nuovi “eroi” della Sicilia nascosta: Liggio, Riina, Provenzano, Bagarella, e poi i quadri, i colonnelli, i capo decina, le maestranze, la manovalanza, tutti dentro una organizzazione compatta e coesa, militarmente inquadrata, obbediente agli ordini (la mafia non dispone di carceri per punire i dissidenti….!); e lo Stato ?
Lo Stato è mostrato in lite con se stesso: carabinieri contro polizia, finanza contro tutti, magistratura divisa con il progetto di dividerla sempre di più, destra contro sinistra, centro contro destra e contro sinistra, sinistra estrema contro sinistra moderata, destra estrema contro destra moderata, comuni contro province, province contro regioni, regioni contro governo centrale; papaveri politici locali contro papaveri emergenti nella stessa circoscrizione e del medesimo partito; finanziarie contro banche in reciproca concorrenza per accaparrarsi i polli da spennare.
Nella realtà avulsa dal servilismo della fiction, lo Stato annovera anche dei successi, segno di un impegno profuso oltre i limiti della sicurezza personale, anche se, visti dal di fuori, taluni successi appaiono pilotati, mentre altri generano perplessità.
L’arresto di Riina, avvenuto in concomitanza con la sconfitta elettorale della CdL sembra proprio un arresto pilotato, ma da chi?
Molto probabilmente dalla stessa mafia che si serve di polizia e carabinieri per ristabilire equilibri o nuovi equilibri, consegnando i personaggi che hanno fatto il loro tempo. Così l’arresto di Provenzano ha dato l’impressione di un fiction, ma è servito per dare spazio a quel Lo Piccolo che si presenta come l’anello di congiunzione tra la mafia siciliana e quella americana, in un intreccio di interessi economici, politici e anche di politica internazionale di alleanze e di sudditanze, pregresse, attuali e future.
Non trova legittimazione l’arresto di Lo Piccolo, che appare come un evento fuori da ogni controllo, probabilmente non preventivato dalle alte sfere che continuano ad gestire Cosa Nostra.
Una volta Cosa Nostra si serviva dei politici, considerati come teste di legno che dovevano istituzionalizzare i progetti criminali. Anche i processi non fornivano elementi di certezza, regolarmente annullati per vizi di forma dalla Corte di Cassazione.
Ma poi ci fu l’omicidio dell’on. Lima, colpevole di non essere riuscito a far ammorbidire il maxi processo. Fu la stagione dello scontro violento e degli omicidi eccellenti.
L’impressione attuale è che la politica si serva della mafia, concedendo loro spazi nella economia sommersa, consentendo il rientro dei capitali nascosti all’estero senza dare conto a nessuno della provenienza e senza pagare alcunché, azzerando il reato di falso in bilancio che così non costituisce più un’aggravante, elargendo a piene mani condoni fiscali per restituire una verginità tributaria a quanti vivevano nella comoda posizione di evasori in servizio permanente effettivo.
L’arresto di Lo Piccolo sconvolge piani precostruiti, per cui è diventato urgentissimo riprendere le fila del potere esecutivo per ripristinare l’antico ordine, le antiche alleanze. Si spiega così il silenzio attuale nella sfera mafiosa e le urla nella sfera politica che tentano in tutti i modi di far passare per buona l’idea di nuove consultazioni popolari, nelle quali mobilitare quell’organizzazione che già consentì in Sicilia una eclatante vittoria per 61 a 0.
Tutto ciò non apparirà nella fiction di canale 5, ma ci basta il silenzio assordante che da destra copre il successo delle forze dell’ordine che stanno decapitando i vertici della piovra, per farci capire ciò che non ci dicono, anche perché a dirlo si incorre nell’accusa di fare “fantapolitica”.



Giovedì, 22 novembre 2007