Ingmar Bergman e il Silenzio di Dio

di Peter Ciaccio

Il 14 luglio 1918 a Uppsala nasceva un bambino che fu battezzato in fretta perché considerato in pericolo di vita. Infatti, i suoi genitori avevano contratto la terribile influenza “spagnola”, i cui morti si aggiungevano ai tanti della Prima guerra mondiale. Il piccolo si chiamava Ernst Ingmar ed era figlio di Karin Åkerblom e di Erik Bergman, pastore luterano della chiesa Hedvig Eleonora a Stoccolma. Nonostante le ombre di morte che hanno accompagnato la sua nascita e il suo secolo, Ingmar Bergman è morto il 30 luglio scorso, a distanza di 89 anni. Tante sono le cose cambiate in questi decenni, ma una cosa resta: l’attualità del pensiero e dell’analisi della realtà che Ingmar Bergman ci ha offerto con i suoi oltre 40 film.
Il regista svedese ha raccontato l’inquietudine e la paura del Novecento. La morte, la paura, l’odio, la possibilità di annientamento del genere umano con la guerra atomica, hanno occupato l’immaginario di Bergman che raramente ha toccato questi temi in maniera diretta (dove lo ha fatto, ha miseramente fallito, come ad esempio ne L’uovo del serpente, 1977, ambientato nella Berlino nazista).
L’educazione luterana di Bergman gli ha donato la possibilità di leggere teologicamente gli avvenimenti del Novecento. La cosiddetta “Trilogia del silenzio di Dio” (Come in uno specchio, 1961, Luci d’inverno, 1961, e Il silenzio, 1963) è il massimo esempio di questa lettura teologica. In un’epoca di travaglio e di cambiamento come gli anni 60, in cui si arrivò addirittura a teorizzare teologicamente la morte di Dio, Bergman risponde in una maniera che potremmo definire strettamente luterana: Dio è nascosto. Dio si nasconde nella mancanza di amore tra esseri umani, si nasconde nella paura della morte e della catastrofe nucleare, come Dio si nasconde nella sofferenza del Cristo crocifisso.
A tal proposito è interessante rileggere parte dell’interpretazione della passione di Cristo che il sacrestano propone al pastore in Luci d’inverno: “Credo che ci sia stata una sofferenza ben più grande oltre a quella fisica … al Getsemani tutti i discepoli si addormentarono, non avevano capito niente, niente della Comunione, niente di niente. E quando i soldati arrivarono, quelli se la diedero a gambe. E poi Pietro lo rinnegò. Per tre anni Gesù aveva parlato con questi discepoli, erano vissuti insieme ogni giorno. Ma quelli semplicemente non avevano capito ciò che aveva detto: nemmeno una parola. Tutti lo abbandonarono e lui rimase solo. Questa deve essere stata una vera sofferenza! Capire che nessuno capisce niente. Essere abbandonato quando più si ha bisogno di qualcuno in cui aver fiducia. Una sofferenza terribile…e quando Cristo fu inchiodato alla croce e se ne stava là appeso con la sua sofferenza, gridò: ’Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?’. Gridò con quanto fiato aveva in gola…Cristo fu preso da un grande dubbio negli istanti prima di morire. E questa deve essere stata la sua più orribile sofferenza. Intendo dire: il silenzio di Dio”.
Il silenzio di Dio si riflette nel silenzio degli uomini e delle donne, immagine di Dio. L’incomunicabilità tra persone della stessa famiglia, che può solo esplodere nella violenza fisica e verbale o nella follia e conseguente esclusione dalla comunitas, ha caratterizzato il cinema di Bergman.
Tuttavia Ingmar Bergman, con la sua sterminata produzione, comprendente anche ben due autobiografie (Lanterna magica, 1987, e Immagini, 1991) e due romanzi autobiografici (Con le migliori intenzioni, 1991, e Nati di domenica, 1993), non sembra riflettere questo silenzio. Eppure, a leggere bene i suoi scritti e a confrontarli con altre fonti, che puntualmente contraddicono le sue affermazioni sul rapporto conflittuale con la “rigida educazione luterana” imposta dal padre pastore di cui si straparla quando si descrive l’opera di Bergman, si comprende che il maestro svedese è riuscito a difendere la propria sfera privata fornendo una sorta di biografia ufficiale. I suoi scritti autobiografici assomigliano più ad un romanzo, descrivono nel dettaglio una vita interessante per chi non si interessa dei dettagli.
Ingmar Bergman era un autore fortemente radicato nella cultura scandinava, luterana, borghese e socialdemocratica. I suoi film sono quanto di più lontano dall’odierno prodotto commerciale. Eppure, come pochissimi altri, Bergman fu un autore che incassò moltissimo. In 33 anni, tra Prigione (1949) e Fanny e Alexander (1982) girò ben 34 film: impresa impossibile per un regista che non vende. In Italia furono i paolini a distribuire capillarmente i suoi film nei cinema parrocchiali e con un’importante selezione di videocassette. E questo è solo un esempio di come il cinema di Bergman è stato apprezzato e compreso in qualunque contesto culturale. È proprio in questo che il cinema di Bergman si eleva ad arte: nella sua universalità. (NEV 31-32/2007)



Giovedì, 09 agosto 2007