Con i monaci birmani. O no?

di Ettore Masina

LETTERA126 - ottobre 2007


I primi giorni, guardando alla televisione i loro cortei, ci sembrava di udire lo scalpiccìo dei piedi nudi dei monaci birmani. Avevano deposto i sandali per camminare così, in segno di umiltà o forse per somigliare di più ai poveri che volevano difendere o anche per dire che quelle strade erano diventati luoghi sacri. Mostravano, rovesciate, le ciotole in cui elemosinando raccolgono abitualmente il loro cibo: voleva dire che rifiutavano i doni degli uomini della dittatura militare perché fosse chiaro che non volevano sembrare garanti di una fede esibita nei templi e violata nelle camere di tortura. Anche, ci sembrava di udire le preghiere recitate per le strade: gli uomini e le donne della contemplazione erano usciti dalle loro incantevoli pagode per difendere la giustizia, ma non c’era contrasto fra azione e contemplazione, la preghiera era diventata voce di libertà.
Poi i Potenti hanno mandato i loro soldati, i monaci sono stati portati via: certamente molti rinchiusi nelle carceri, moltissimi confinati nei loro templi: preghino, preghino e non si occupino di politica. Nelle strade sono rimasti i morti. Qualche fotografia mostra monaci riversi nel fango, scomposti, con occhi sbarrati ai quali nessuno si cura di calare le palpebre. Nelle foto non si vede se hanno accanto le loro ciotole. Io penso che noi dovremmo deporvi qualche briciola di amorosa attenzione.
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Le Giornate internazionali proclamate dall’ONU hanno in genere scarsissima rilevanza nella cultura del nostro tempo. Benché compongano ormai un fitto calendario di buoni propositi, buone idee, buone azioni, i concreti risultati sono marginali e legati, per lo più, alla routine burocratica delle istituzioni. Soltanto le scuole (alcune scuole) sembrano accorgersi dell’importanza di questi richiami pedagogici; oltre alle loro, c’è qualche fiacca celebrazione dello Stato o degli Enti locali, con la partecipazione di autorità civili o religiose di serie B. I mass-media dedicano alle Giornate una frettolosa notizia: l’ONU, snobbato dalle grandi potenze, vale meno di Garlasco o degli show di Beppe Grillo. Forse quando i funzionari del Palazzo di Vetro hanno scelto come Giornata internazionale della nonviolenza il 2 di ottobre, giorno natale di Gandhi, pensavano di doversi attendere la scarsa attenzione di altre occasioni. Così non è stato: i monaci birmani hanno composto la liturgia più toccante della satyagraha gandhiana, la “fermezza nella verità”, la nonviolenza. Essere vicini a loro significa non già lasciarsi andare a un’emozione passeggera anche se intensa ma raccogliere la loro denunzia di aggressione ai poveri e, con quel po’ di coraggio che tutti abbiamo (dovremmo avere) porci la domanda: e io?
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I testimoni della satyagraha non hanno divise, medaglie, lifting, abiti firmati da sarti famosi; quasi mai dispongono di seggi nei parlamenti, nei salotti “importanti”, nei talk-show. Più facilmente puoi trovarli nelle strade, convocati non dai mass-media ma da mirabili passaparola. Per questo i titolari della cosiddetta realpolitik cercano di seppellirli sotto l’irrisione. Winston Churchill definiva Gandhi “un disgustoso fachiro mezzo nudo”. Peggio ancora: quando il venerabile Quang Duc, sessantasei anni, monaco buddista dalla sua adolescenza, partì dal suo monastero e andò a Saigon per immolarsi in un rogo come segno di protesta per una strage compiuta dal governo filoamericano, la signora Dinh, moglie del presidente sudvietnamita e cognata di un vescovo, parlò di “barbecue”. Sono punte di barbarie e di stupidità. Ricordo ancora con emozione la terribile sequenza fotografica che i confratelli di Quang Duc mostrano nella pagoda del “Buddha della Felicità”, a Huè: l’anziano monaco sta seduto sull’asfalto, la schiena diritta, le mani congiunte in segno di preghiera mentre le fiamme lo consumano; tutt’intorno i passanti si inginocchiano in segno di rispetto, come per ricevere un messaggio divino. Quel sacrificio mosse tale avversione al governo dei fratelli Dinh che il presidente Kennedy li fece uccidere.
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L’attitudine dei poteri forti, dei loro consulenti e dei loro propagandisti nei confronti della nonviolenza è schizofrenica: da un lato la definiscono, con irrisione, nobile utopia di anime belle che rifiutano la realtà. Gandhi, Luther King, Nelson Mandela sono per i sostenitori della realpolitik spiriti evanescenti. Che abbiano mutato, con la nonviolenza, la storia di immensi popoli, agli assertori della violenza come “continuazione della politica” non risulta o sembra un fatto eccezionale, fortuito e irrazionale, come uno tsunami. I gestori della violenza fingono di non sapere che la propria politica è sterile: non restaura giustizie violate, non fa progredire la democrazia. Prolunga la storia, selvaggia e disperata, delle armi che massacrano i valori che pretendono di difendere. Non sono capaci di uscire da un’antica follìa. Bisogna insegnarlo ai nostri figli e ai figli di chi viene a vivere da noi, e i vecchi devono alzare la voce per testimoniare di quali atrocità fu segnata la loro infanzia.
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Se, da un lato, i politici “del realismo” irridono il movimento nonviolento, dall’altro lato, invece, i cosiddetti pacifisti sembrano ai governi un gruppo sociale sovversivo nel senso che pone problemi, disturba il tranquillo andazzo di un potere politico legato alla violenza: la violenza che sta alla base di realtà, che di quando in quando emergono dalle fogne della sovversione di destra, ma anche la violenza di certe realtà “ufficiali”. Non è un caso che nella Genova del 2001 la polizia di Berlusconi e di Fini abbia inseguito e picchiato assai più i nonviolenti che i blakbloc. Il potere sa bene che non si può conciliare nonviolenza e guerra in Afghanistan (guerra illecita in base allo statuto della NATO), nonviolenza e commercio delle armi, nonviolenza e spese militari, nonviolenza e neorazzismo istituzionale. Che tutti quelli che credono in una pace figlia della giustizia si rendano conto di questa incompatibilità etica mi sembra oggi di fatale importanza. I prossimi mesi vedranno un ri-dispiegamento della politica del nostro paese, la composizione o la ricomposizione di partiti e movimenti. E’ un’occasione alla quale nessun cittadino responsabile dovrebbe sottrarsi. E’ necessario osservare attentamente dove si collochino i sostenitori della logica delle armi o gli esperti in silenzi e divagazioni - e fargli il vuoto intorno.
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Essendo la nonviolenza insegnamento e testimonianza di Gesù di Nazaret, mi domando come si possano ancora conciliare, dopo duemila anni di storie feroci e di peccato collettivo, vangelo e violenza, anche quella agita dallo Stato. Mi risulta incomprensibile, se non come manifestazione di una povera “prudenza” mondana, perché la Chiesa istituzionale italiana si tenga tanto lontano dal movimento per la pace, perchè in quella realtà non siano impegnati almeno tanti preti e vescovi quanti sono i cappellani militari impegnati a mediare fra comandamenti del Cristo e comandi dei generali. Mi domando con tristezza se non sia questione di ciotole piene e di ciotole vuote.
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La dittatura birmana è particolarmente odiosa ed è vergognoso che essa disponga di armi italiane fra i suoi strumenti di dominio. Il nostro parlamento aveva votato nel 1991 una discreta legge sul commercio delle armi, il parlamento a maggioranza di destra l’ha smantellata, il parlamento attuale non l’ha restaurata. Tutti i competenti sanno bene che le armi italiane arrivano ai generali dello Myanmar attraverso una neppure clandestina triangolazione con l’India e con la Cina. Ma anche l’industria italiana “pacifica”, soprattutto quella del legno, fa grandi affari con i generali, collaborando generosamente alla spoliazione del paese e alla devastazione ecologica: “Non siamo don Chisciotte, ci lasciamo guidare dalle esigenze de mercato”, ha dichiarato a “Repubblica” un importante esponente di Confindustria... E infine c’è lo scandalo del turismo in quello che (vedere in Internet) gli operatori del settore definiscono “il paese dei sorrisi e del silenzio”. L’ONU ha da tempo proclamato un embargo dei viaggi in Myanmar, come pressione sul regime, ma le nostre agenzie e i nostri amanti dell’esotico non se ne sono curati. La scusa è che i turisti mostrano ai birmani come possano essere felici i cittadini dei paesi liberi! Da ridere, o forse da piangere.
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Può darsi che nell’agenda dell’ONU la situazione birmana sia tenuta sotto controllo permanente e che l’egoismo nazionale dei grandi sponsor e clienti della giunta di Myanmar (leggi: Cina e India) non prevalga sulla necessità morale di andare al soccorso di un popolo ridotto “ai sorrisi e al silenzio”. Può darsi che, invece, dopo una frettolosa condanna e qualche sanzione inefficace, la repressione prevalga, ancora una volta, sulla protesta internazionale. E’ necessario non permettere che la nostra obiezione di coscienza venga meno in tutte le sedi in cui si riuniscono gli uomini e le donne di buona volontà. E’ necessario non lasciarci andare al cinismo dell’”ho già dato” o alla demoralizzazione di chi, ancora una volta, prova l’amara sensazione dell’impotenza. Che sia emersa drammaticamente la situazione di un altro popolo schiacciato dall’ingiustizia non deve rattrappirci negli esigui confini delle nostre case o delle nostre comunità, impauriti dalla realtà. I potenti hanno vita lunga quando l’oppressione che agiscono (vedi la Palestina) non fa più notizia per l’opinione pubblica internazionale,
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Mi è facile, chiudendo gli occhi, rivedere il piccolo albergo di Gaza, sulla spiaggia di un mare in tempesta in cui incontrai per la prima volta Haidar Abd al-Shafi, medico, fondatore e direttore della Mezzaluna Rossa palestinese fin dal 1936. Mi sembrò l’uomo che un giorno avrebbe potuto diventare il presidente di uno stato palestinese. Era il maggio del 1991, la prima guerra “del Golfo” si era appena conclusa, Nella “Striscia” c’era più dolore, secondo me, più odio e più povertà che in qualunque altro punto della Terra e Dio sa quanti paesi poverissimi ho visitato. Una volta, a opprimere i palestinesi, c’erano soltanto i soldati e i coloni dal grilletto facile; adesso c’era anche la fame. Per settimane, durante la guerra, Gaza e la Cisgiordania erano state trasformate in due immensi carceri: quasi due milioni di persone soggette a un coprifuoco praticamente continuo, le coltivazioni ala malora, disoccupazione forzata, i bambini denutriti. Non c’era odio nelle parole dell’anziano dottore che allora incontrammo, io e la delegazione di deputati italiani che guidavo in visita ai campi profughi. Notai sul mio diario: “Ha una grossa testa, con radi capelli bianchi e occhi da vecchio saggio sotto le folte sopracciglia bianche. Ha studiato all’estero e parla uno splendido inglese, è stato membro del partito comunista palestinese e tra i fondatori dell’OLP nel 1964. Ci accoglie con calore; ma non sorride mai. La sua dignità è come avvolta nel dolore, nell’indignazione per la crudeltà con cui viene trattato il suo popolo. Nello stesso tempo analizza con grande coraggio certi errori palestinesi”. Così lucido fu il suo intervento che gli chiesi di venire a parlare al convegno nazionale della Rete Radiè Resch, a Rimini.. Incantò tutti per il suo carisma. Haidar Abd al-Shafi è morto pochi giorni fa, in una Gaza più che mai devastata. Aveva 88 anni. Sulla bella rivista online “Scienza e Pace” Giorgio Gallo ha scritto, fra l’altro: “Era stato membro del primo comitato esecutivo dell’Olp, capo della delegazione palestinese alla Conferenza di pace di Madrid del 1991 e poi ai negoziati di Washington. Nel gennaio 1996 era stato eletto, con il più alto numero di preferenze, membro dell’Assemblea legislativa palestinese, dalla quale si è dimesso nell’ottobre 1997 quando fu chiaro il ruolo marginale e solamente formale di questa assemblea (...) Erano grandi le speranze che la conferenza di Madrid aveva sollevato. Trovarono una toccante eco nel discorso fatto da Abd al-Shafi durante la conferenza: «nel nome del popolo palestinese, noi vogliamo rivolgerci direttamente al popolo israeliano con il quale abbiamo avuto un prolungato scambio di sofferenze: lo invitiamo a condividere la speranza, invece. Noi desideriamo vivere fianco a fianco condividendo la terra e la promessa del futuro. Ma, condividere richiede due partner desiderosi di condividere come uguali. Mutualità e reciprocità devono rimpiazzare dominazione ed ostilità, perché si possa avere una genuina riconciliazione e convivenza nella legalità internazionale. La vostra sicurezza e la nostra sono mutualmente dipendenti, interconnesse come le paure e gli incubi dei nostri figli. Noi abbiamo visto di voi il peggio ed il meglio. Perché l’occupante non può nascondere nulla all’occupato, e noi siamo testimoni del prezzo che l’occupazione vi ha fatto pagare”.
“Erano purtroppo speranze che non si sarebbero realizzate.. La delegazione israeliana non ha avuto né la volontà né le istruzioni necessarie al progresso del negoziato ... ha salvato l’apparenza della partecipazione, senza affrontare i problemi reali». Successivamente fu lo stesso primo ministro israeliano Shamir, a lasciarsi sfuggire che era sua intenzione trascinare i negoziati per una decina di anni, o finché l’espansione degli insediamenti avesse reso irrilevanti i colloqui di pace. In questa situazione, una volta chiaro che gli Usa non erano intenzionati a fare nulla per bloccare le azioni che Israele svolgeva sul campo per predeterminare con fatti compiuti l’esito dei negoziati (...) Abd al-Shafi, aveva raccomandato ad Arafat di interrompere le trattative. Non solo questa raccomandazione fu ignorata, ma la responsabilità dei negoziati fu (...) passata al molto più ’flessibile’ e molto meno competente gruppo che avrebbe negoziato gli accordi di Oslo, con i drammatici risultati che vediamo ancora oggi.
“A Gaza, 8 anni dopo, con un gruppo di amici della Rete Radie Resch, avemmo un lungo incontro con lui. Lucido nella sua analisi, pessimista ma senza abbandonare la speranza. «Non penso che il governo israeliano attuale sia veramente preoccupato per il futuro dei suoi giovani e faccia loro un buon servizio: il futuro non si garantisce con la bomba atomica, ma con una pace durevole e vera». Ci lasciò allora con questa dichiarazione di speranza: «sul nostro futuro ho una speranza senza speranza. Sono pessimista sul breve e medio periodo; però sono convinto che alla fine la giustizia vincerà. Non vedrò io la pace, né i miei figli; ma i miei nipoti sì».
Duro ed intransigente nei riguardi di Israele, Abd al-Shafi non è stato meno esigente e critico nei riguardi della sua stessa parte. Nell’incontro a Gaza ci disse: «anche i palestinesi hanno da mettere in ordine la loro casa, che è ancora troppo disordinata; occorre siano garantiti anche dalla nuove Autorità dell’Autonomia i diritti minimi dei cittadini: i diritti personali, il diritto alla vita, alla legalità, al lavoro (...)”.
“In una intervista rilasciata alcuni anni dopo allo storico palestinese Rashid Khalidi, afferma: «Io non sono contro la dimensione militare della lotta. Noi dobbiamo combattere, ma la lotta deve essere regolata. ... Noi dobbiamo limitare la nostra lotta ad azioni difensive in modo da rendere chiaro al che noi stiamo lottando contro l’aggressione. In altre parole noi dobbiamo limitarci a combattere contro azioni israeliane quali la demolizione di case, la distruzione di terreni agricoli, lo sradicamento di alberi e, naturalmente, gli insediamenti. ... Gli insediamenti sono stati ripetutamente condannati dall’Onu come illegali, come una aggressione... Ma se noi adottassimo una strategia difensiva, nessuno ci potrebbe criticare. Al contrario, credo che il mondo sarebbe dalla nostra parte».
“Un punto era per lui cruciale, la mancanza di una sostanziale unità politica fra tutte le forze palestinesi e di conseguenza di una strategia politica unitaria di resistenza. Su questa linea su unì a Mustapha Barghouti e ad altri politici ed intellettuali palestinesi per lanciare, nel giugno 2002, l’Iniziativa Nazionale Palestinese (Al Mubadar). Fra gli obiettivi immediati c’erano la costruzione di strutture democratiche veramente rappresentative, la riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese attraverso una netta separazione dei poteri, la ristrutturazione dei servizi di sicurezza servizio dei cittadini, e lo sviluppo ed il rafforzamento della società civile palestinese”.
(v. il testo integrale dell’articolo in http://scienzaepace.unipi.it)
Cari saluti
Ettore Masina



Giovedì, 11 ottobre 2007