LETTERA 134 - luglio 2008
La Terra ha molti luoghi

di Ettore Masina

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Vengo da un luogo dove molte idee e certezze cadono o mutano, come le foglie degli alberi al mutare delle stagioni, molte speranze sembrano bambine impaurite oppure madri intrepide nella loro inermità, e molte disperazioni affermano perentoriamente il loro potere; un luogo in cui talvolta il destino sembra un uccello da preda calato improvvisamente dalle oscure regioni dell’assurdità per dilaniare piccole innocenti felicità quotidiane.
Vengo da un luogo silenzioso in cui i ricordi portano gli echi di grandi, spaventosi rumori: incidenti stradali, strumenti di lavoro diventati nemici, crolli di impalcature, esplosioni; oppure ogni ricordo si è sperso nelle amnesie da choc, la tragedia è avvenuta silenziosamente perchè una piccola vena si è spezzata o - persino! - un minuscolo insetto ha iniettato un micidiale veleno.
Vengo da un luogo ( un ospedale, come avrete inteso) in cui non tutti i ricoverati hanno due gambe o due braccia o polmoni funzionanti o piedi capaci di reggere un corpo: talvolta un corpo vecchio, talvolta un corpo giovanissimo. Un luogo in cui vi sono letti che sembrano cabine di astronavi, collegati, come sono, a macchinari, cavi, schermi televisivi, ma anche un luogo in cui le lacrime hanno lo stesso sale di quelle dei secoli passati. Porto notizie di quel luogo, ma prima devo spiegare perchè l’ho visitato.
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Il luogo di cui parlo è un istituto di riabilitazione, il Gervasutta di Udine. Vi sono approdato due volte (l’anno scorso e quest’anno) in daily hospital, per qualche opportuno restauro, ma voglio dire subito alle amiche e agli amici che, grazie anche a questa scelta, le mie condizioni di salute sono oggi più che buone.
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Il luogo che ho frequentato nel mese di luglio non è, naturalmente, un paradiso; anche qui vi è chi ha meno voglia di lavorare di altri e, come accade in tante altre sedi ospedaliere, è riconoscibile per la ruvidezza dei rapporti con i malati. Chi non ama il suo mestiere e non ha la forza di cambiarlo ( o di cambiare se stesso) non può amare gli altri e si imprigiona in un bozzolo di infelicità. Anche qui vi sono gelosie e, mi figuro, camarille
Tuttavia il luogo da cui vengo mi è sembrato in grande prevalenza, un luogo pulito e onorabile per l’umanità e la cortesia con la quale medici e paramedici trattano i pazienti; e soprattutto un luogo in cui più che pietà si respira stima, cioè si cerca di far capire al paziente che “farcela” è anche questione del suo coraggio. Una volta, in un ospedale romano, ho sentito un medico rispondere a un paziente che, un pò petulantemente, è vero, ma nel suo pieno diritto, chiedeva informazioni sulla sua malattia: “Lei faccia il malato: segua le nostre prescrizioni e lasci perdere il resto, ché a quello ci pensiamo noi”: una pretesa classista, castale che toglie dignità a chi soffre, così come gli toglie stupidamente gli abiti per confinarlo per l’intera giornata nell’avvilimento del pigiama.
La filosofia che a me pare di vedere in azione al Gervasutta è esattamente il contrario. L’infermità che ha lacerato la qualità della tua vita è una sfida che è posta a te, fa parte della tua storia personale, dunque non puoi che esserne protagonista; il medico e i paramedici sono, se tu lo vuoi, tuoi alleati: possono guidarti ma proprio come una guida alpina che sa graduare i passaggi difficili, le forze del cliente, l’avvicinarsi di temporali imprevisti, le crisi di stanchezza, la necessità di soste, il chiodo da piantare nella roccia. La capacità di sforzo portata sino a limiti ragionevoli ma non pietisti fa parte della filosofia: vedi vecchietti andarsene ringalluzziti, portano con sé una bombola d’ossigeno ma hanno appena terminato un esercizio con pesi da tre chili; tre settimane è il periodo di tempo necessario, se il paziente “tiene”, a consentire a un amputato di camminare senza bastone su una gamba meccanica.

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Nessuno viola le leggi della privacy ma molti ricoverati seguono con rispettosa cordialità i progressi dei compagni più gravi. Mentre io frequentavo il Gervasutta, la persona più importante sembrava essere per molti Laura A. L’anno scorso ha quasi perso la vita in un micidiale incidente automobilistico e adesso è rimasta tetraplegica. Vuol dire che muove soltanto un avambraccio e un polso. Siccome è una donna straordinaria, è diventata un po’ l’esempio del coraggio che è necessario ai pazienti del Gervasutta. Quando arriva nella stanza che serve da “ritrovo” sembra una regina sul suo trono, tanto è eretta nella carrozzina che le serve da esoscheletro e che lei ha imparato a guidare velocemente con quel suo polso eroico. Sorride, sempre, e forse è anche per quello che è tanto amata. Spesso, prima che lei arrivi dalla palestra o dalla “terapia occupazionale”, è preceduta dalle buone notizie: che ha finalmente potuto bere un caffé, che quel suo polso fatato è riuscito a sollevare un peso di 3 etti 3... Che sa persino azionare un computer: giorni fa, sapendo che mia moglie Clotilde sta facendo alcune ricerche, le ha regalato un mazzetto di papers rintracciati in internet. Per la laurea di una figlia è uscita a far festa in un ristorante. Chi può, quando lei gira per i corridoi del Gervasutta, corre ad aprirle le porte antipanico.
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Visitare un ospedale siffatto, vuol dire rendersi conto della gravità di situazioni sulle quali si è spesso fatto della contro-retorica. Avete presente certa ironia delle destre sui “mestieri usuranti”? Al Gervasutta non arrivano casi “acuti” né lungo degenti, ma non è difficile incontrare vecchi che si portano addosso i segni di fatiche durissime affrontate sin da giovani: contadini, minatori, muratori, emigranti: i superstiti di un’Italietta fascista e padronale che ai poveri assegnava soltanto guerre e sfruttamento. Le storie che si raccolgono parlando con vecchi schiacciati dalla loro stessa mansuetudine e ridotti a corpi deformi dovrebbero essere raccontate nelle chiese e nelle scuole. Commuove vedere quanto siano più alti e vigorosi i figli e le figlie che vengono a trovarli o amorevolmente li portano avanti e indietro dal daily hospital. La democrazia, i sindacati, le lotte proletarie hanno lasciato un segno - bellissimo! - sulla carne dei nostri figli. Ma qualcuno cerca di riportare indietro gli orologi.
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Ho un’età che una volta si sarebbe detta “veneranda”, ma che oggi, soprattutto per certe statistiche e certi governanti, risulta “asociale”, nel senso che chiede alla comunità “troppi” e “troppo gravosi” impegni economici. Da questa constatazione, potrebbe - e forse dovrebbe - partire un lungo discorso che al momento non ho voglia di fare. Quello che invece voglio dire, e che mi sembra straordinariamente importante, è il seguente. Noi anziani finiamo, proprio in virtù della nostra età, per essere i veri intenditori del sistema sanitario nazionale. Allora va detto: il Gervasutta è un esempio di buona sanità ma non è un unicum. Ciascuno di noi, come ciascuno dei miei lettori e lettrici, ha certamente tristi casi da segnalare al riguardo; e una stampa, non sempre disinteressata, amplifica proteste e denunzie. Tuttavia, se lo si paragona ai sistemi sanitari, non si dice quelli del cosiddetto Terzo Mondo ma quelli dei fatidici G8, la nostra realtà ospedaliera risulta migliore di tutte le altre, in particolar modo di quella britannica e di quella americana.
Contro questa situazione è adesso in corso un’opera di smantellamento a favore del “privato”. Tra poco questa offensiva sarà più chiara; e a pagarne il prezzo sarà proprio la povera gente che ha votato Berlusconi e Tremonti.
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Ridare qualità alla vita di chi sembrava ormai cacciato dalla disgrazia ai margini di ogni allegria e persino di ogni serenità è opera preziosa. Nelle palestre del Gervasutta guardavo il lavoro delle fisioterapiste e dei fisioterapisti. Non se ne rendevano conto, loro, e si sarebbero meravigliati e meravigliate se gliel’avessi detto: ma qualche volta mi sembravano faticatori intenti a rimuovere grosse pietre da una strada, ed altre volte suonatori e suonatrici di strumenti musicali, danzatori, impastatori di pane, genitori di adulti tornati bambini e di nuovo incapaci di camminare e coordinare i propri gesti; qualche volta severi nel chiedere maggiore attenzione e qualche volta amorevoli nel sollecitare speranze.
Li guardavo e pensavo: siamo a pochi chilometri da Aviano dove sostano gli aerei americani che trasportano verso luoghi di tortura i “nemici combattenti” dell’impero. Mentre sentivo la mia schiena raddrizzarsi e i miei muscoli rilassarsi sotto esperte mani che mi rendevano più libero pensavo a Guantanamo e a cento altre sedi di sevizie spesso elaborate sulle stesse basi scientifiche; e mi domandavo (e mi domando) come la nostra civiltà che mai come in questo tempo si occupa della bellezza dei corpi umani possa poi fingere di non sapere che le crocifissioni continuano.


Ettore Masina


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Ettore Masina
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Giovedì, 14 agosto 2008