Abortire è ancora una colpa

di Monica Lanfranco

"Qualunque siano i contorni giudiziari della vicenda, Ermanno Rossi è vittima della non applicazione della 194, di chi affronta il tema solo per porre ulteriori ostacoli alle donne e di chi non ha il coraggio di affrontare i reali problemi della legge. Le polemiche a senso unico contro le donne che abortiscono, contro i medici che fanno aborti, contro la RU486 contribuiscono a creare un clima di diffidenza verso le procedure della 194 ed inducono i medici all’obiezione di massa".

Sono parole dure e precise quelle di Silvio Viale, il ginecologo torinese promotore della RU486 in Italia. Sono una denuncia a tutto campo, che ci parla di un clima di vero e proprio contrattacco, quel *backlash* , ( il sottotitolo era "la guerra non dichiarata contro le donne americane"), del quale la attivista scrittrice femminista Susan Faludi scriveva nell’apparentemente lontano 1992 e che ovviamente non riguardava, purtroppo, solo gli Stati Uniti.

Il clima di caccia non alle streghe, ma alle donne che vivono in questo paese, inasprito anche dall’incombente campagna elettorale, iniziato con l’irruzione nell’ospedale di Napoli, proseguita con la grave emorragia di una giovane cinese che aveva cercato di abortire clandestinamente procurandosi una perforazione all’utero è ora arrivato a Genova, dove la cronaca ci consegna il terribile suicidio di un medico, indagato per aborti compiuti al di fuori delle procedure e delle strutture previste dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza e otto donne ufficialmente indagate, clienti del ginecologo.

Lo scenario, sul quale la stampa pettegola e gongolante della città si sta gettando con ferocia tipica della provincia, racconta, a quello che fin qui è trapelato, di donne appartenenti a famiglie benestanti e in vista, con una vita pubblica da ’difendere’, che non se la sono sentite di rischiare di andare in pasto al pettegolezzo (in misura minima) o alla divulgazione coram populo, (quello che sta accadendo), quando si sono accorte di essere incinte.

Le donne che, potendo garantirsi velocemente e nel silenzio con il denaro questo come altri servizi che le loro simili meno facoltose possono avere con trafile lunghe forse non sono simpatiche.

Forse, (ma è una pura illazione), queste donne pubblicamente non solo non direbbero mai di aver abortito, e magari si direbbero antiaboriste, se questo servisse loro a mantenere l’immagine di ’purezza’ richiesta dagli ambienti opportunisti e moralisti dove vige la regola generale del ’si fa ma non si dice’. Questo, però non è importante, perché quello per cui oggi il medico ha pagato con la vita e loro rischiano in termini giuridici è il frutto di una campagna di odio che coinvolge tutte le donne, le povere come le ricche, le migranti come le native.

Una delle otto donne ha dichiarato alla stampa: "Non immaginavo di essere indagata, l’ho saputo dai carabinieri che mi hanno convocato; mi sono sempre fidata di quel medico, lo conoscevo bene. Una persona corretta. Sono andata nel suo studio unicamente perché non volevo che trapelasse la notizia. Ho fatto una scelta e non devo renderne conto a nessuno. Ma sono un personaggio pubblico, avevo il terrore che si sapesse in giro. Semplicemente, non credevo di commettere un reato". Il suo sfuggire, (e quello presumibile delle altre indagate), attraverso la scorciatoia dei soldi alla visibilità nello spazio pubblico alla quale le donne normali sono invece esposte ci dice che, pur esistendo in Italia una legge che permette l’interruzione di gravidanza, questo diritto non è ancora tale. Non è tale nella pratica, dato l’altissimo numero di medici abortisti nelle strutture pubbliche dove il servizio per legge dovrebbe essere garantito; non è tale nella visione sociale e culturale italiana, e questo è un vulnus pesantissimo per la laicità e per l’esercizio della cittadinanza sessuata.

Su questo versante, che non è solo quello dell’aborto, ma che coinvolge il tema della sessualità, della maturità e responsabilità nelle relazioni tra i corpi maschili e femminili, della conoscenza (o dell’ignoranza) delle alternative nella contraccezione questo paese si scopre sempre più arretrato e meschino, ogni giorno che passa.

Questa vicenda ci dice che in uno stato laico, dove pure tutte le visioni devono e possono coesistere sussiste, pesante e opprimente, una visione che diventa determinante, al punto da impedire di scegliere alla luce del sole. Prima della approvazione della 194 si moriva di aborto, e se non si moriva si andava in galera. Oggi la legge c’è, ma evidentemente non solo non funziona come dovrebbe, non è applicata bene nella sua parte più importante, quella preventiva, e comunque è così osteggiata da far vivere alle donne che ne vogliono usufruire un percorso a ostacoli nei fatti, ma anche e soprattutto un clima così pesante di giudizio morale sul loro comportamento che quelle che possono, con i soldi, o espatriano o si rivolgono alle strutture private.

Certo, nulla di male a scegliere alternative all’offerta del servizio pubblico: malissimo, però, se questa scelta è operata perché la struttura pubblica non offre spazi, tempi e modi adeguati, e se quindi di fatto non corrisponde a quello che la legge stabilisce.

Partorirai con dolore, abortirai con difficoltà, dolore, e nel disprezzo della collettività. E’ troppo, davvero troppo per un paese che si vuole chiamare civile.

Monica Lanfranco


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Venerdì, 14 marzo 2008