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Come l’occupazione ha trasformato Israele

di Meron Rapoport,
giornalista del quotidiano Haaretz, Tel-Aviv
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Le Monde Diplomatique, n. 639, giugno 2007


In quarant’anni Israele è passato dai kibbutz collettivisti a un’economia capitalista globalizzata e da una società relativamente ugualitaria a una delle più disuguali dell’Occidente. Tutte queste evoluzioni hanno le radici nell’occupazione dei territori palestinesi e risalgono quindi alla guerra del 1967. tanto più che la smagliante vittoria riportata allora non ha impedito lo scatenarsi di sei nuovi conflitti che non si sono conclusi a favore del Paese…

Talvolta la nostra memoria ci inganna: mentre quarant’anni ci separano dalla guerra dei sei giorni, a una parte degli israeliani piace credere che il periodo prima del 1967 fosse un’età dell’oro, il nostro paradiso perduto. E che Israele, prima del 1967, fosse una società a misura d’uomo e giusta, nella quale i valori del lavoro, dell’umiltà e della solidarietà prevalevano sull’avidità e l’egoismo, nella quale tutti si conoscevano e soprattutto nessuno occupava territori.

Molto evidentemente si tratta di una pura illusione. Nel 1966, ultimo anno prima dell’occupazione, la disoccupazione aveva raggiunto il tasso record del 10%, l’economia soffriva di una forte recessione e, per la prima volta nella storia del Paese, lo lasciarono molti più israeliani di quanti immigranti vi si stabilirono. Per soprappiù, in quell’anno, i quattrocentomila arabi israeliani che non avevano abbandonato i loro villaggi durante la guerra del 1948 si videro liberare dal «governo militare» (1). La loro situazione non rimase per questo meno critica, poiché le loro terre venivano progressivamente confiscate per la costruzioni di nuovi agglomerati ebrei.

A partire dalla Guerra dei sei giorni Israele fu considerato come una superpotenza militare regionale, finanche internazionale. Ciò che si conosce meno è il fatto che la guerra modificò in modo spettacolare l’economia nazionale, che prosperò, mentre la recessione finiva e la disoccupazione si abbassava fortemente. Quarant’anni più tardi Israele è diventato un altro Paese. Mentre nel 1967 il prodotto interno lordo per abitante raggiungeva a fatica 1.500 dollari, nel 2006 è culminato a 24.000 dollari (€ 17.700), ponendo Israele al ventitreesimo posto nel «Rapporto sullo sviluppo umano 2005» realizzato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Per di più, in quattro decenni più di un milione e mezzo di ebrei vi si sono installati, cosicché la popolazione ebrea totale è passata da 2,4 a 5,5 milioni. Si capisce quindi che molti cittadini israeliani percepiscano la Guerra dei Sei giorni come un momento decisivo nella success story del Paese.

Per altri, al contrario, il 1967 costituisce la causa di tutti i mali. In teoria la schiacciante vittoria delle Forze di difesa israeliane sui tre eserciti più potenti del mondo arabo, quelli d’Egitto, di Giordania e di Siria – avrebbe dovuto rassicurare gli israeliani e dare loro un senso di sicurezza. Non fu proprio questo ciò che avvenne. Israele è tutto eccetto un luogo sicuro e, dal 1967, il Paese ha vissuto non meno di sei conflitti: la guerra di logoramento lungo il Canale di Suez (1968-1970), la guerra del Kippur (1973), le due Intifade (1987-1993 e 2000-2005), e le due guerre del Libano (1982 e 2006). Circa cinquemila israeliani e cinquantamila arabi – egiziani, siriani, libanesi e certamente palestinesi – vi hanno perduto la vita. In breve, Israele a tutt’oggi non ha ancora chiuso il settimo giorno della sua guerra dei sei giorni.

Per il Paese la difficoltà non consiste soltanto nel fatto che il conflitto duri tuttora, ma che l’esercito non ne esca più vittorioso. Diventato storico, il generale a riposo Dov Tamari ha fatto osservare, non molto dopo gli avvenimenti del Libano nell’estate 2006, che la guerra del 1967 era stata la sua ultima vittoria incontestabile. A suo parere, tutti gli altri bracci di ferro sono terminati con una ritirata, perfino con una disfatta. E ogni volta Tel Aviv ha dovuto fare importanti concessioni. Così la guerra del 1973 si concluse con la ritirata totale dal Sinai, in conformità agli accordi di pace firmati con l’Egitto nel 1979. la prima Intifada portò agli accordi di Oslo nel 1993, l’invasione del Libano del 1982 si concluse con una ritirata incondizionata nel 2000. Quanto alla seconda Intifada, essa condusse allo smantellamento delle colonie d’insediamento di Gaza, circa due anni fa.

E che dire della seconda guerra del Libano! Se la classe politica tempo fa ha inneggiato alla vittoria, soltanto il 20% degli israeliani ritiene di avere vinto, secondo uno studio pubblicato da Haaretz una settimana prima della fine della guerra. Questa difficoltà a riportare una vittoria netta spiega senza dubbio perché un veterano della politica israeliana ha recentemente confessato – sotto lo scudo dell’anonimato – di non essere sicuro che Israele fra vent’anni esisterà ancora. Invece di calmare le paure, questi quarant’anni d’occupazione non hanno fatto altro che accentuarle.

Quando sono iniziate ad andare male le cose? Non certo da ieri. Il generale Moshe Dayan, il responsabile politico più eminente dell’epoca, dopo il trionfo del 1967 pronunciò questa frase celebre: «Aspettiamo dagli Arabi una chiamata telefonica». Voleva fare credere che dopo questa telefonata Israele si sarebbe ritirato dai territori occupati – dal Sinai, dalla Striscia di Gaza, dalla Cisgiordania e dal Golan – uno scambio di accordi di pace col mondo arabo. Nel suo libro 1967 (2) lo storico Tom Segev dimostra che l’intenzione del governo israeliano non era esattamente quella. Tuttavia è così che la posizione d’Israele fu percepita al suo interno e nel mondo.

D’altronde in quello stesso periodo Israele avviò un processo che avrebbe reso molto difficile, per non dire impossibile, qualsiasi accordo basato sullo scambio di territorio contro la pace. Il primo ministro laburista Levi Eshkol, con fama di «colomba», prima della fine del 1967 lasciò che i primi coloni s’installassero in Cisgiordania (a Kfar Etzion). Dayan, allora ministro della Difesa, ordinò di distruggere le città e i villaggi siriani sull’altipiano del Golan occupato, per permettere la costruzione di una colonia israeliana sulle rovine della città siriana di Kuneitra. E all’inizio dell’anno 1968 diversi israeliani furono autorizzati a vivere nel cuore della città occupata di Hebron.

Quarant’anni dopo si vedono i risultati. Il centro è diventato una città fantasma nella quale i palestinesi non sono autorizzati né ad abitare né a spostarsi né a fare acquisti – e tutto questo per lasciare spazio a circa cinquecento coloni ebrei. Non è un caso se il primo attentato suicida è avvenuto a Hebron, dopo che Baruch Goldstein, nel 1994, assassinò trentanove musulmani dentro la moschea di Abramo, nella cripta dei Patriarchi.

È sufficiente osservare una carta per comprendere che le colonie della Cisgiordania sono state costruite secondo un piano stabilito in anticipo, da una parte per isolare le une dalle altre le comunità palestinesi, e dall’altra per creare una continuità fra le colonie ebree e il territorio dello Stato d’Israele com’era prima del 1967. Insediamenti sono stati costruiti anche intorno ai quartieri arabi di Gerusalemme, per separare la parte orientale della città dalle cittadine e dai villaggi palestinesi vicini, poi nella valle del Giordano per separare la riva ovest del fiume dalla Giordania. Lungo queste colonie furono costruite strade, perfino nel cuore stesso della Cisgiordania, per tagliare fuori Nablus da Ramallah o Kalkilya da Tulkarem.

Il Paese è come vittima del mostro creato da sé in quarant’anni

Grande architetto della colonizzazione, nel 1975 Ariel Sharon ha dichiarato apertamente che il suo scopo era quello d’impedire la formazione di un’entità palestinese. Appoggiata da tutti i governi, sia di destra che di sinistra, questa strategia è riuscita. Più di 250.000 israeliani abitano oggi centinaia di colonie in Cisgiordania, per non parlare dei 200.000 abitanti dei nuovi agglomerati costruiti nella Gerusalemme occupata. Il loro stesso numero ha permesso di modificare l’atteggiamento della classe politica nei loro riguardi: ormai, con la sola eccezione dei gruppi arabi e del Partito comunista, tutti i responsabili israeliani – da Yossi Beilin a Ami Ayalon e da Ehud Olmert alla sig.ra Tzipi Livni – considerano che l’annessione del «blocco delle colonie» deve fare parte integrante di qualsiasi accordo di pace. D’altra parte il tracciato del famoso muro di separazione mira a integrarli in Israele.

È strano che questi stessi dirigenti, compreso Sharon prima del suo attacco cerebrale, riconoscono oggi in privato – e talvolta perfino pubblicamente – che le colonie costituiscono l’ostacolo principale alla firma di un accordo di pace con i palestinesi e il mondo arabo. Israele è come vittima di questo mostro che ha costruito durante quarant’anni d’occupazione. Gli è impossibile assorbire queste colonie senza annettersi la riva occidentale del Giordano, un passo questo che perfino i governi della destra più estremista si sono rifiutai di fare a causa delle sue implicazioni sul piano internazionale, giuridico e soprattutto demografico – perché la diversità dei tassi di natalità fa sì che il «Grande Israele» comporterà presto una maggioranza palestinese. Ma non può nemmeno sbarazzarsene, nella misura in cui le colonie d’insediamento figurano essere componenti della società israeliana. La colonizzazione è diventata una trappola.

Israele ci si è ficcato dentro volontariamente? Si è avvezzato all’occupazione al punto di non poterne più fare a meno? Da quarant’anni viviamo in una società fondata su privilegi. Certo, anche prima della Guerra dei sei giorni, i nuovi immigranti provenienti dai Paesi arabi godevano di diritti inferiori a quelli degli ebrei che arrivavano dall’Europa, mentre i palestinesi che vivevano in Israele erano ancor più svantaggiati. Ma dopo il 1967 lo Stato ha instaurato un sistema ufficiale di discriminazione: ha privato dei suoi diritti politici il milione di palestinesi che nel 1967 vivevano in Cisgiordania e nella striscia di Gaza (attualmente se ne recensiscono tre milioni e mezzo), la cui vita, in tutti i suoi aspetti, è stata posta sotto il controllo dei comandanti militari.

Di conseguenza lungo quattro decenni le relazioni fra i palestinesi che vivono sotto occupazione  e gli israeliani si sono profondamente deteriorate. Tuttavia, agli occhi di questi ultimi la situazione, nella quale gli uni beneficiano di tutti i diritti e gli altri ne sono privati, appare del tutto normale. Le restrizioni via via più pesanti imposte ai palestinesi in materia di spostamenti, il fatto che gli israeliani non hanno occasione d’incontrarli se non in Cisgiordania quando vi svolgono il loro servizio militare, porta ad accentuare queste diversità. Mettere fine all’occupazione equivarrebbe a rinunciare al sentimento di essere un privilegiato, un passo molto difficile da effettuare.

Uno dei grandi sconvolgimenti della società israeliana dopo il 1967 è stata la sua rapida trasformazione in una società capitalista moderna. I grandi lavori avviati dopo la guerra hanno formato una potente classe d’imprenditori, che ha potuto sfruttare la mano d’opera a basso costo dei territori occupati. Miliardi di dollari – dal 1973 gli Stati Uniti ne assegnano 3 ogni anno a Israele a titolo di aiuto militare – sono stati dedicati all’alta tecnologia militare a più alto rendimento, trasformando il Paese in superpotenza dell’ high-tech.

Parallelamente, con il sistema dei privilegi messo in opera dall’occupazione, la società si è progressivamente divisa in misura estrema. Nel 1967 più dell’80% della forza lavoro dipendeva da un sindacato unico e potente, che controllava un terzo dell’economia nazionale. I kibbutz godevano ancora di grande considerazione. Attualmente, con meno del 25% di lavoratori sindacalizzati, abbiamo una delle società più ingiuste del mondo occidentale: se si crede nel coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze, lo Stato ebraico occupa la sessantaduesima posizione – una delle peggiori fra le economie progredite (3). Diciotto famiglie controllano il 75% dell’economia. Questa situazione affonda in parte le sue radici nella Guerra dei Sei giorni.

Ricordiamo altre importanti conseguenze. Dopo il 1967 il conflitto israelo-palestinese ha occupato sulla scena internazionale un posto preponderante, se non il più importante. E Israele ha tratto vantaggio da questa situazione. Le sue eccellenti relazioni con gli Stati Uniti, il suo ruolo eminente sul piano internazionale, la sua potenza militare e la sua prosperità vengono da lì. Come pure il fatto che la Lega araba, dopo avere rifiutato qualsiasi negoziato alla fine della Guerra dei Sei giorni, proponga ormai di concludere una pace globale con tutti i Paesi arabi.

Un senso d’Apocalisse si è impadronito della società dopo il conflitto col Libano nel 2006

Eppure le conseguenze del 1967 portano con sé anche aspetti molto negativi. Se Israele si è guadagnato questa posizione privilegiata in Occidente è perché lo Stato ebraico è considerato come una sanguinosa linea di frontiera fra l’Occidente e l’Oriente, fra la civiltà «giudaico-cristiana» - strana invenzione, quando si conosca la storia delle due religioni… - e la civiltà musulmana. Dopo gli attentati dell’11 settembre, questa visione si è largamente diffusa in Israele, molto al di là della destra religiosa per la quale, dopo il 1967, la colonizzazione nella terra d’Israele obbedisce alla volontà divina. Questo ha trasformato il conflitto arabo-israeliano, dapprima territoriale e quindi politico, in scontro culturale e religioso. Il vice primo-ministro e capo del partito Israel Beitenou («Israele, nostra casa»), che loda il «trasferimento» delle zone arabe di Israele in territori occupati, ha dichiarato recentemente al quotidiano Haaretz che Israele è un «avamposto del mondo libero (4)».

Tutto questo può spiegare il senso di apocalisse che domina numerosi settori della società israeliana dopo il conflitto in Libano, l’estate scorsa. Nella misura in cui si presenta Hezbollah come il braccio armato dell’Iran e la Repubblica Islamica come il promotore di questa «guerra di civiltà», il fallimento dell’esercito israeliano, pur potente e ultra-sofisticato, di fronte a qualche migliaio di combattenti sciiti ritenuti male addestrati è stato un vero trauma. Molti hanno percepito il fatto che migliaia di razzi siano stati lanciati sul nord d’Israele, durante un mese intero, senza che l’esercito riuscisse a mettervi fine, come il segno che noi, gli israeliani, non siamo desiderati nella regione e che potremmo, a lungo termine, essere vinti dal gigante musulmano.

In breve, questi quaranta anni hanno finito col paralizzare la società al punto che i suoi dirigenti non hanno più il coraggio di lavorare a una soluzione reale del conflitto. L’occupazione ha finito con l’invadere Israele.

(1) Questo «governo» li obbligava al coprifuoco, ai permessi di spostamento, alla residenza forzata e favoriva l’ebraizzazione delle regioni arabe d’Israele.

(2) Tom Segev, 1967, Denoël, Paris, 2007.

(3) Per il coefficiente di Gini lo 0 rappresenta la perfetta uguaglianza. Nel 2006 Israele ottiene 39,2 contro 36 per il Regno Unito, 32,7 per la Francia, 28,3 per la Germania e… 40,8 per gli Stati Uniti.

(4) Haaretz, Tel-Aviv, 30 marzo 2007.

Testo originale:

Comment l’occupation a transformé Israël

Le Monde Diplomatique, n. 639, juin 2007

 

En quarante ans, Israël est passé des kibboutzim collectivistes à une économie capitaliste mondialisée, et d’une société relativement égalitaire à l’une des plus inégalitaires de l’Occident.

Toutes ces évolutions s’enracinent dans l’occupation des territoires palestiniens et remontent donc à la guerre de 1967. D’autant que la victoire éclatante remportée alors n’a pas empêché que six nouveaux conflits se déclenchent, qui n’ont pas tourné à l’avantage du pays...

par Meron Rapoport , * Journaliste au quotidien Haaretz, Tel-Aviv.

Parfois, notre mémoire nous trompe : alors que quarante années nous séparent de la guerre des six jours, une partie des Israéliens se plaisent à croire que la période d’avant 1967 fut un âge d’or, notre paradis perdu. Et qu’Israël, avant 1967, était une société à taille humaine et juste, où les valeurs du travail, de l’humilité et de la solidarité l’emportaient sur l’avidité et l’égoïsme, où tout le monde se connaissait, et surtout où personne n’occupait de territoires.

Bien évidemment, c’est une pure illusion. En 1966, dernière année avant l’occupation, le chômage avait atteint le taux record de 10 %, l’économie connaissait une forte récession et, pour la première fois dans l’histoire du pays, plus d’Israéliens le quittèrent que de nouveaux immigrants ne s’y installèrent. De surcroît, cette année-là, les quatre cent mille Arabes israéliens qui n’avaient pas abandonné leurs villages lors de la guerre de 1948 se virent libérés du «gouvernement militaire (1) ». Leur situation n’en resta pas moins critique, leurs terres étant progressivement confisquées pour construire de nouvelles agglomérations juives.

A partir de la guerre des six jours, Israël fut considéré comme une superpuissance militaire régionale, voire internationale. Ce que l’on sait moins, c’est que la guerre modifia spectaculairement l’économie nationale. Celle-ci prospéra, la récession prenant fin et le chômage baissant fortement. Quarante ans plus tard, Israël est devenu un autre pays. Alors qu’en 1967 le produit intérieur brut par habitant atteignait péniblement 1 500 dollars, en 2006 il a culminé à 24 000 dollars (17 700 euros), plaçant Israël à la vingt-troisième place dans le « Rapport sur le développement humain 2005» réalisé par le Programme des Nations unies pour le développement (PNUD). De surcroît, en quatre décennies, plus d’un million et demi de Juifs s’y sont installés, la population juive totale passant ainsi de 2,4 millions à 5,5 millions. On comprend donc pourquoi beaucoup de citoyens israéliens perçoivent la guerre des six jours comme un moment décisif dans la success story du pays.

Pour d’autres, en revanche, 1967 constitue la cause de tous nos maux. Théoriquement, l’écrasante victoire des Forces de défense d’Israël face aux trois armées les plus puissantes du monde arabe – celles d’Egypte, de Jordanie et de Syrie – aurait dû rassurer les Israéliens et leur donner un sentiment de sécurité. Ce fut loin d’être le cas. Israël est tout sauf un lieu sûr, et, depuis 1967, le pays a connu pas moins de six conflits : la guerre d’usure le long du canal de Suez (1968-1970), la guerre de Kippour (1973), les deux Intifadas (1987-1993 et 2000-2005), et les deux guerres du Liban (1982 et 2006). Quelque cinq mille Israéliens et environ cinquante mille Arabes – égyptiens, syriens, libanais et bien sûr palestiniens – y ont perdu la vie. Bref, Israël n’a toujours pas clos le septième jour de sa guerre des six jours.

La difficulté pour le pays n’est pas seulement que le conflit perdure, mais que l’armée n’en sort plus victorieuse. Devenu historien, le général à la retraite Dov Tamari a fait observer, juste après les événements du Liban de l’été 2006, que la guerre de 1967 avait été sa dernière victoire incontestable. Selon lui, tous les autres bras de fer ont débouché sur un retrait, voire une défaite. Et, à chaque fois, Tel-Aviv a dû faire des concessions importantes. Ainsi, la guerre de 1973 se solda par le retrait total du Sinaï, conformément aux accords de paix signés avec l’Egypte en 1979. La première Intifada conduisit aux accords d’Oslo en 1993 ; l’invasion du Liban de 1982 se termina par un retrait inconditionnel en 2000. Quant à la seconde Intifada, elle poussa au démantèlement des colonies de peuplement de Gaza, voici près de deux ans.

Et que dire de la dernière guerre du Liban ! Si la classe politique a, un temps, crié victoire, seuls 20 % des Israéliens, selon une étude publiée par Haaretz une semaine avant la fin de la guerre, estiment avoir gagné. Cette difficulté à remporter une franche victoire explique sans doute pourquoi un vétéran de la politique israélienne a récemment avoué – sous le sceau de l’anonymat – qu’il n’était pas sûr qu’Israël survive encore dans vingt ans. Au lieu d’apaiser les peurs, ces quarante années d’occupation n’ont donc fait que les accentuer.

Quand les choses se sont-elles gâtées ? Cela ne date pas d’hier. Le général Moshe Dayan, le responsable politique le plus éminent de l’époque, prononça après le triomphe de 1967 cette phrase célèbre : « Nous attendons un appel téléphonique des Arabes. » Il voulait faire croire qu’après cet appel Israël se retirerait des territoires occupés – du Sinaï, de la bande de Gaza, de la Cisjordanie et du Golan – en échange d’accords de paix avec le monde arabe. Dans son livre 1967 (2), l’historien Tom Segev démontre que telle n’était pas vraiment l’intention du gouvernement israélien. C’est pourtant ainsi que la position d’Israël fut perçue en son sein et dans le monde.

A cette même période, Israël enclencha d’ailleurs un processus qui allait rendre très difficile, voire impossible, tout accord fondé sur l’échange de territoires contre la paix. Le premier ministre travailliste Levi Eshkol, réputé « colombe », laissa les premiers colons s’installer avant la fin de l’année 1967 en Cisjordanie (à Kfar Etzion). Dayan, alors ministre de la défense, ordonna de détruire les villes et les villages syriens sur le plateau du Golan occupé, pour permettre la construction d’une colonie israélienne sur les ruines de la ville syrienne de Kuneitra. Et, au début de l’année 1968, des Israéliens furent autorisés à vivre au coeur de la ville occupée de Hébron.

Quarante ans après, on voit les résultats. Le centre est devenu une cité fantôme où les Palestiniens ne sont autorisés ni à habiter ni à se promener ou à faire des achats – et tout cela pour laisser la place libre à quelque cinq cents colons juifs. Ce n’est pas un hasard si le premier attentat-suicide a eu lieu à Hébron, après que Baruch Goldstein, en 1994, eut assassiné trente-neuf musulmans au sein de la mosquée d’Abraham, dans le caveau des Patriarches.

Il suffit de regarder une carte pour comprendre que les colonies de Cisjordanie ont été construites selon un plan établi à l’avance, d’une part pour isoler les communautés palestiniennes les unes des autres, et d’autre part pour créer une continuité entre les colonies juives et le territoire de l’Etat d’Israël d’avant 1967. Des implantations ont aussi été bâties autour des quartiers arabes de Jérusalem, pour séparer la partie orientale de celle-ci des villes et des villages palestiniens avoisinants, puis dans la vallée du Jourdain pour séparer la rive ouest du Jourdain de la Jordanie. Des routes furent construites le long de ces colonies, au coeur même de la Cisjordanie, pour cou-per Naplouse de Ramallah ou Kalkilya de Tulkarem.

Le pays est comme victime du monstre qu’il a lui-même créé en quarante années

Grand architecte de la colonisation, M. Ariel Sharon a déclaré ouvertement, en 1975, que son but était d’empêcher la création d’une entité palestinienne. Appuyée par tous les gouvernements, de droite et de gauche, cette stratégie a réussi. Plus de deux cent cinquante mille Israéliens habitent aujourd’hui des centaines de colonies en Cisjordanie, sans parler des deux cent mille habitants des nouvelles agglomérations construites dans la Jérusalem occupée. Leur nombre même a permis de modifier l’attitude de la classe politique à leur égard : désormais, à la seule exception des formations arabes et du Parti communiste, tous les responsables israéliens – de M. Yossi Beilin à M. Ami Ayalon, et de M. Ehoud Olmert à M"’° Tzipi Livni considèrent que le rattachement des « blocs de colonies » doit faire partie intégrante de tout accord de paix. Le tracé du fameux mur de séparation vise d’ailleurs à les intégrer à Israël.

Ce qui est étrange, c’est que ces mêmes dirigeants, y compris M. Sharon avant son attaque cérébrale, reconnaissent aujourd’hui en privé – et parfois publiquement – que les colonies constituent le principal obstacle à la signature d’un accord de paix avec les Palestiniens et le monde arabe. Israël est comme victime de ce monstre qu’il a lui-même bâti durant quarante ans d’occupation. Il lui est impossible d’absorber ces colonies sans annexer la rive ouest du Jourdain, un pas que même les gouvernements de droite les plus extrémistes ont refusé de franchir en raison de ses implications aux niveaux international, juridique et surtout démographique – car la différence des taux de natalité fait que le « Grand Israël » comportera bientôt une majorité palestinienne. Mais il ne peut pas non plus s’en débarrasser, dans la mesure où les colonies de peuplement font figure de composante de la société israélienne. La colonisation est devenue un piège.

Israël est-il tombé volontairement dedans ? S’est-il accoutumé à l’occupation au point de ne plus pouvoir faire sans ? Depuis quarante ans, nous vivons dans une société fondée sur des privilèges. Certes, même avant la guerre des six jours, les nouveaux immigrants originaires des pays arabes jouissaient de droits inférieurs à ceux des Juifs arrivant d’Europe ; et les Palestiniens vivant en Israël étaient encore plus défavorisés. Mais, après 1967, l’Etat instaura un système officiel de discrimination : il a privé de ses droits politiques le million de Palestiniens résidant en 1967 en Cisjordanie et dans la bande de Gaza (on en recense actuellement trois millions et demi), dont la vie, dans tous ses aspects, a été placée sous le contrôle des commandants militaires.

Du coup, au long de ces quatre décennies, les relations entre les Palestiniens vivant sous occupation et les Israéliens se sont profondément dégradées. Mais, aux yeux de ces derniers, la situation dans laquelle les uns bénéficient de tous leurs droits et les autres en sont privés paraît totalement normale. Les restrictions de plus en plus importantes imposées aux Palestiniens en matière de déplacements, le fait que les Israéliens n’ont l’occasion de les rencontrer qu’en Cisjordanie lorsqu’ils y servent comme soldats ont conduit à accentuer ces différences. Mettre fin à l’occupation équivaudrait à renoncer au sentiment d’être un privilégié, un pas très difficile à franchir.

Un des grands bouleversements de la société israélienne après 1967 fut sa transformation rapide en une société capitaliste moderne. Les grands travaux entrepris après la guerre ont créé une puissante classe d’entrepreneurs, qui a pu exploiter la main-d’œuvre à bas prix des territoires occupés. Des milliards de dollars — depuis 1973, les Etats-Unis en accordent 3, chaque année, à Israël au titre de l’aide militaire — ont été consacrés à la haute technologie militaire la plus performante, transformant le pays en superpuissance du high-tech.

Parallèlement, avec le système de privilèges mis en place par l’occupation, la société s’est progressivement et extrêmement divisée. En 1967, plus de 80 % de la force de travail dépendait d’un syndicat unique et puissant, qui contrôlait un tiers de l’économie nationale. Les kibboutzim jouissaient encore d’une grande considération. Actuellement, avec moins de 25 % de travailleurs syndiqués, nous avons une des sociétés les plus injustes du monde occidental : si l’on en croit le coefficient de Gini, qui mesure les inégalités, l’Etat hébreu occupe la soixante-deuxième place — une des plus mauvaises parmi les économies avancées (3). Dix-huit familles contrôlent 75 % de l’économie. Cette situation plonge partiellement ses racines dans la guerre des six jours.

Mentionnons d’autres conséquences importantes. Après 1967, le conflit israélo-palestinien a occupé une place prépondérante sur la scène internationale, si ce n’est la plus importante. Et Israël a tiré profit de cette situation. Ses excellentes relations avec les Etats-Unis, son rôle éminent au niveau international, sa puissance armée et sa prospérité viennent de là. Tout comme le fait que la Ligue arabe, après avoir refusé toute négociation au terme de la guerre des six jours, lui propose désormais de conclure une paix globale avec tous les pays arabes.

Un sentiment d’apocalypse s’est emparé de la société après le conflit du Liban de 2006

Mais les conséquences de 1967 comportent aussi des aspects très négatifs. Si Israël a gagné cette place privilégiée en Occident, c’est parce que l’Etat hébreu est considéré comme une ligne de front sanglante entre l’Occident et l’Orient, entre la civilisation «judéo-chrétienne» — étrange invention, quand on connaît l’histoire des deux religions... — et la civilisation musulmane. Après les attentats du 11 Septembre, cette vision s’est largement répandue en Israël, bien au-delà de la droite religieuse pour qui, depuis 1967, la colonisation en terre d’Israël obéit à la volonté divine. Cela a transformé le conflit israélo-arabe, d’abord territorial et donc politique, en affrontement culturel et religieux. Le vice-premier ministre et chef du parti Israël Beitenou (« Israël, notre maison »), qui prône le « transfert » de zones arabes d’Israël aux territoires occupés, a déclaré récemment au journal Haaretz qu’Israël était un « avant-poste du monde libre (4) ».

Tout cela peut expliquer le sentiment d’apocalypse qui s’est emparé de nombreux secteurs de la société israélienne après le conflit au Liban, l’été dernier. Dans la mesure où l’on présente le Hezbollah comme le bras armé de l’Iran et la République islamique comme le promoteur de cette « guerre des civilisations », l’échec de l’armée israélienne, pourtant puissante et ultrasophistiquée, face à quelques milliers de combattants chiites censés être mal entraînés a représenté un traumatisme. Beaucoup de gens ont perçu le fait que des milliers de roquettes aient été tirées sur le nord d’Israël, un mois durant, sans que l’armée parvienne à y mettre fin, comme le signe que nous, les Israéliens, nous ne sommes pas désirés dans la région et que nous pourrions, à long terme, être vaincus par le géant musulman.

Bref, ces quarante années ont fini par paralyser la société au point que ses dirigeants n’ont plus le courage de travailler à une solution réelle du conflit. L’occupation a fini par envahir Israël.

(1) Ce «gouvernement» les astreignait au couvre-feu, à des permis de déplacement, à des assignations à résidence, et favorisait la judaïsation des régions arabes d’Israël.

(2) Tom Segev, 1967, Denoël, Paris, 2007.

(3) Pour le coefficient de Gini, 0 représente la parfaite égalité. En 2006, Israël obtient 39,2, contre 36 pour le Royaume-Uni, 32,7 pour la France et 28,3 pour l’Allemagne... et 40,8 pour les Etats-Unis.

(4) Haaretz, Tel-Aviv, 30 mars 2007.



Giovedì, 06 settembre 2007